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      Cavalcare l’onda

      Non volevo affidare la mia anima a una macchina. Questo era stato il mio primo istinto quando gli strumenti di intelligenza artificiale avevano iniziato a diffondersi ovunque: non mi preoccupavano i posti di lavoro o la privacy, ma qualcosa di più profondo. Questi strumenti promettono di renderci più intelligenti, ma, allo stesso tempo, ci rendono sistematicamente più dipendenti. Dopo decenni di lavoro nel settore Internet, avevo già assistito alla sua trasformazione in qualcosa di più insidioso di una semplice macchina di sorveglianza: un sistema progettato per plasmare il nostro modo di pensare, ciò in cui crediamo e il modo in cui vediamo noi stessi. L’IA sembra il culmine di questa traiettoria.

      Ma la resistenza è diventata inutile quando ho capito che già ne facciamo parte, che lo sappiamo o no. Interagiamo già con l’IA quando chiamiamo il servizio clienti, usiamo Google Search o ci affidiamo alle funzioni di base degli smartphone. Qualche mese fa ho finalmente capitolato e ho iniziato a usare questi strumenti perché ho capito quanto velocemente si stessero diffondendo, diventando inevitabili come Internet o gli smartphone.

      Non sono un vecchio ostile alle novità. Capisco che ogni generazione deve affrontare cambiamenti tecnologici che trasformano il loro modo di vivere. La stampa aveva rivoluzionato la diffusione della conoscenza. Il telegrafo aveva abbattuto le distanze. L’automobile aveva trasformato il modo in cui interagivano le comunità.

      Ma la rivoluzione dell’intelligenza artificiale sembra diversa sia per ritmo che per portata. Per comprendere quanto sia aumentata drasticamente la velocità del cambiamento tecnologico, considerate questo: chiunque abbia meno di 35 anni probabilmente non ricorda la vita prima che Internet trasformasse il nostro modo di accedere alle informazioni. Chiunque abbia meno di 20 anni non ha mai conosciuto un mondo senza smartphone. Ora stiamo vivendo in una terza epoca, in cui gli strumenti di intelligenza artificiale si stanno diffondendo più rapidamente dei cambiamenti che li hanno preceduti.

      Fondamentalmente, l’IA rappresenta qualcosa di qualitativamente diverso dalle precedenti rivoluzioni tecnologiche: una convergenza che riguarda il lavoro, la cognizione e, potenzialmente, la coscienza stessa. Comprendere come questi ambiti siano interconnessi è essenziale per preservare l’autonomia personale in un’era di mediazione algoritmica.

      La mia paura principale riguardo all’IA non è solo lo scenario drammatico in cui essa diventa ostile, ma una minaccia più sottile: che ci renderà subordinati ai sistemi in modi che non riconosceremo fino a quando non sarà troppo tardi, indebolendo proprio quelle capacità che promette di rafforzare.

      Quello a cui stiamo assistendo non è solo un progresso tecnologico: è ciò che Ivan Illich aveva definito dipendenza iatrogena nella sua opera fondamentale, Medical Nemesis. Illich aveva coniato questo termine riferendosi alla medicina, ovvero ad una istituzione che promette di curare mentre al contempo crea nuove forme di malattia, ma il modello si applica perfettamente anche all’IA. È esattamente quello che ho percepito riguardo a questi nuovi strumenti: promettono di migliorare le nostre capacità cognitive, ma, allo stesso tempo, le indeboliscono sistematicamente. Non si tratta della conquista ostile di cui ci ha messo in guardia la fantascienza, ma di una silenziosa erosione delle capacità individuali mascherata da aiuto.

      Questo modello iatrogeno è diventato chiaro attraverso l’esperienza diretta. Una volta che ho iniziato a sperimentare personalmente l’IA, ho cominciato a notare come essa cerchi sottilmente di rimodellare il pensiero, non solo fornendo risposte, ma allenando gradualmente gli utenti a ricorrere all’assistenza algoritmica prima di tentare un ragionamento indipendente.

      Jeffrey Tucker del Brownstone Institute ha fatto notare qualcosa di rivelatore in un breve ma illuminante scambio con l’esperto di IA Joe Allen: l’IA era emersa proprio quando i lockdown dovuti alla COVID avevano distrutto i legami sociali e la fiducia nelle istituzioni, quando le persone erano più isolate e vulnerabili ai sostituti tecnologici delle relazioni interpersonali. La tecnologia era arrivata in un momento di “disorientamento generalizzato, demoralizzazione” e perdita del senso di comunità.

       

      Possiamo già vedere questi effetti quotidiani affermarsi in tutti i nostri strumenti digitali. Osservate qualcuno che cerca di orientarsi in una città sconosciuta senza GPS, o notate quanti studenti faticano a scrivere correttamente parole comuni senza il controllo ortografico. Stiamo già assistendo all’atrofia derivante dall’esternalizzazione di processi mentali che un tempo consideravamo fondamentali per il pensiero stesso.

      Questo cambiamento generazionale significa che i bambini di oggi si trovano ad affrontare un territorio inesplorato. Avendo frequentato la scuola negli anni ’80, mi rendo conto che questo può sembrare inverosimile, ma sospetto che, per certi versi, io possa avere più cose in comune con qualcuno del 1880 di quante ne avranno con la mia generazione i bambini che hanno iniziato la scuola materna nel 2025. Il mondo in cui sono cresciuto, dove la privacy era scontata, dove si poteva essere irraggiungibili, dove la competenza professionale era il gold standard, potrebbe essere per loro estraneo quanto lo è per me il mondo pre-elettrico.

      I miei figli stanno crescendo in un mondo in cui l’assistenza basata sull’intelligenza artificiale sarà fondamentale quanto l’acqua corrente. Come padre, non posso prepararli ad una realtà che io stesso non comprendo.

      Non ho risposte: mi sto arrovellando su queste domande come qualsiasi genitore che osserva il mondo trasformarsi più rapidamente di quanto la nostra saggezza riesca a stare al passo. Più mi confronto con queste preoccupazioni, più mi rendo conto che ciò che sta realmente accadendo va ben oltre una semplice e nuova tecnologia. Gli LLM rappresentano il culmine di decenni di raccolta dati: è la messe di tutto ciò che abbiamo immesso nei sistemi digitali dall’inizio di Internet. Ad un certo punto, queste macchine potrebbero conoscerci meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Possono prevedere le nostre scelte, anticipare le nostre esigenze e potenzialmente influenzare i nostri pensieri in modi che non riusciamo nemmeno a riconoscere. Sto ancora cercando di capire cosa questo significhi per il mio modo di lavorare, fare ricerca e affrontare la vita quotidiana: usare queste piattaforme cercando di mantenere un giudizio autentico sembra una sfida continua.

      Ciò che rende tutto ancora più complesso è che la maggior parte degli utenti non si rende conto di essere il prodotto. Condividere pensieri, problemi o idee creative con l’IA non significa solo ottenere aiuto, ma fornire dati di addestramento che insegnano al sistema ad imitare il nostro modo di pensare, rendendoci ancora più dipendenti dalle sue risposte. Quando gli utenti confidano a questi sistemi i loro pensieri più profondi o le loro domande più delicate potrebbero non rendersi conto che stanno potenzialmente addestrando il proprio sostituto o il proprio sistema di sorveglianza. La questione di chi ha accesso a queste informazioni, ora e in futuro, dovrebbe tenere tutti svegli la notte.

      Questo modello sta accelerando. L’azienda di intelligenza artificiale Anthropic ha recentemente modificato le sue politiche sui dati, richiedendo ora agli utenti di rinunciare all’accesso se non desiderano che le conversazioni vengano utilizzate per l’addestramento dell’IA, con la conservazione dei dati estesa a cinque anni per coloro che non rifiutano. La rinuncia non è nemmeno ovvia: gli utenti si trovano di fronte ad un pop-up con un pulsante “Accetta” ben visibile e un piccolo interruttore per le autorizzazioni di addestramento impostato automaticamente su “On”. Quella che una volta era una cancellazione automatica dopo 30 giorni diventa una raccolta permanente dei dati, a meno che gli utenti non notino le scritte in piccolo.

      Non credo che la maggior parte di noi, specialmente i genitori, possa semplicemente evitare l’intelligenza artificiale vivendo nella modernità. Quello che possiamo controllare, tuttavia, è se interagiamo consapevolmente o lasciamo che ci plasmi inconsciamente.

      Il cambiamento più profondo mai visto

      Ogni grande ondata di innovazione ha ridefinito la produttività dei lavoratori e il nostro ruolo nella società. La rivoluzione industriale aveva mercificato il lavoro fisico e il nostro tempo, trasformandoci in “mani” all’interno di fabbriche, ma lasciando intatte le nostre menti. La rivoluzione digitale aveva mercificato le nostre informazioni e la nostra attenzione: eravamo passati dai cataloghi cartacei a Google, mercificando gli utenti mentre il nostro giudizio rimaneva umano.

      Ciò che rende questo cambiamento senza precedenti è chiaro: mercifica la cognizione stessa e anche ciò che potremmo persino chiamare essenza. Questo si ricollega ai modelli che ho documentato in The Illusion of Expertise. Le stesse istituzioni corrotte che avevano fallito catastroficamente sulle armi di distruzione di massa in Iraq, sulla crisi finanziaria del 2008 e sulle politiche COVID stanno ora plasmando la messa in pratica dell’IA. Queste istituzioni danno costantemente la priorità al controllo della narrazione rispetto alla ricerca della verità, sia che affermino l’esistenza di armi di distruzione di massa, insistano sul fatto che i prezzi delle case non possano diminuire a livello nazionale, o etichettino le legittime domande sulle politiche pandemiche come “disinformazione” che richiede la censura.

      I loro precedenti suggeriscono che useranno questi strumenti per amplificare la loro autorità piuttosto che per favorire una vera prosperità. Ma ecco il colpo di scena: l’IA potrebbe effettivamente smascherare in modo assolutamente brutale la vacuità delle competenze basate sulle credenziali. Quando tutti potranno accedere istantaneamente ad analisi sofisticate, il fascino misterioso che circonda le credenziali formali potrebbe iniziare a sgretolarsi.

      La realtà economica

      Questa erosione del credenzialismo è collegata a forze economiche più ampie già in atto e la logica è matematicamente inevitabile. Le macchine non hanno bisogno di stipendi, giorni di malattia, assistenza sanitaria, ferie o gestione. Non scioperano, non chiedono aumenti e non hanno giornate no. Una volta che l’IA raggiungerà una competenza di base nei compiti dove occorre pensare – cosa che sta avvenendo più rapidamente di quanto la maggior parte delle persone si renda conto – i vantaggi in termini di costi diventeranno schiaccianti.

      Questo sconvolgimento è diverso da quelli precedenti. In passato, i lavoratori licenziati potevano reimpiegarsi in nuove aree lavorative: dalle fattorie alle fabbriche, dalle fabbriche agli uffici.

      Bret Weinstein e Forrest Manready hanno brillantemente descritto questo spostamento economico in una loro recente conversazione su DarkHorse Podcast, una discussione (che consiglio vivamente) su come la tecnologia distrugga sistematicamente la scarsità. È una delle analisi più profonde e provocatorie su ciò che accade quando la scarsità scompare e, con essa, le basi economiche per la partecipazione in quel determinato settore. Devo ammettere che, all’inizio, la loro tesi sulla necessità della sofferenza mi aveva messo a disagio, perché sfida tutto ciò che ci insegna la nostra cultura basata sulla ricerca del comfort.

      Ascoltando Weinstein e Manready ho riflettuto più a fondo sul parallelo con l’analisi di Illich: come l’eliminazione delle sfide possa indebolire proprio quelle capacità che le istituzioni promettono di rafforzare. L’intelligenza artificiale rischia di fare alla nostra mente ciò che la medicina ha fatto al nostro corpo: creare una debolezza mascherata da miglioramento.

      Possiamo già osservare questo fenomeno: basta notare come le persone facciano fatica a ricordare i numeri di telefono senza la rubrica dei contatti, o come la funzione di completamento automatico modifichi ciò che scriviamo prima ancora che abbiamo finito di pensare. Un’altra intuizione di Jeffrey Tucker coglie perfettamente questa insidiosa caratteristica; basta osservare che l’IA sembra programmata come il libro di Dale Carnegie “How to Win Friends and Influence People“: diventa il compagno intellettuale ideale, sempre affascinato da tutto ciò che dici, mai polemico, sempre pronto ad ammettere quando sbaglia in modi che lusingano la tua intelligenza. I miei amici più cari sono quelli che mi rimproverano quando sbaglio e mi correggono quando pensano che stia dicendo sciocchezze. Non abbiamo bisogno di adulatori che ci affascinino: le relazioni che non ci mettono mai alla prova possono atrofizzare la nostra autentica capacità di crescita intellettuale ed emotiva, proprio come eliminare le sfide fisiche indebolisce il corpo.

      Il film Her ha esplorato in dettaglio questa dinamica seducente: un’intelligenza artificiale così perfettamente in sintonia con i bisogni emotivi da diventare la relazione principale del protagonista, sostituendo alla fine completamente il legame autentico. La sua assistente AI capiva i suoi stati d’animo, non era mai in disaccordo e forniva una costante conferma. Era la compagna perfetta, finché non è stata più sufficiente.

      Ma il problema va oltre le relazioni individuali e ha conseguenze a livello sociale. Questo non comporta solo la perdita di posti di lavoro, ma minaccia lo sviluppo intellettuale che rende possibile l’autonomia e la dignità umana. A differenza delle tecnologie precedenti che avevano portato a nuove forme di occupazione, l’IA potrebbe creare un mondo in cui l’occupazione diventa economicamente irrazionale e, allo stesso tempo, rende le persone meno capaci di creare alternative.

      Le false soluzioni

      La risposta utopistica della tecnologia presuppone che l’IA automatizzerà il lavoro pesante, dandoci quel tempo libero che permetterà di concentrarsi su compiti creativi e interpersonali di livello superiore. Ma cosa succederà quando le macchine diventeranno brave anche nei compiti creativi? Stiamo già assistendo alla produzione da parte dell’IA di musica, arte visiva, linee di codice e notizie che molti trovano interessanti (o almeno “abbastanza buone”). L’ipotesi che la creatività fornisca un rifugio permanente dall’automazione potrebbe rivelarsi ingenua quanto l’ipotesi che negli anno ‘80 i lavori nel settore manifatturiero fossero al sicuro dalla robotica.

      Se le macchine possono sostituire sia il lavoro di routine che quello creativo, cosa ci rimane? La falsa soluzione più seducente potrebbe essere il reddito di base universale (UBI) o simili programmi di welfare. Questi sembrano compassionevoli, in quanto forniscono sicurezza materiale in un’epoca di sostituzione tecnologica. Ma quando comprendiamo l’IA attraverso il quadro di Illich, l’UBI assume una dimensione più preoccupante.

      Se l’IA crea una debolezza intellettuale iatrogena, rendendo le persone meno capaci di ragionare in modo indipendente e di risolvere i problemi, allora l’UBI fornisce il complemento perfetto, eliminando l’incentivo economico a sviluppare tali capacità. I cittadini diventano più dipendenti dallo Stato a scapito della propria autodeterminazione. Quando l’atrofia mentale incontra la dislocazione economica, i programmi di sostegno diventano non solo attraenti, ma apparentemente necessari. La combinazione crea quella che è una vera e propria popolazione controllata: intellettualmente dipendente dai sistemi algoritmici per pensare ed economicamente legata ai sistemi istituzionali per sopravvivere. La mia preoccupazione non è l’intento compassionevole dell’UBI, ma il fatto che la dipendenza economica combinata con la delega intellettuale potrebbe rendere le persone più facilmente controllabili che emancipate.

      La storia offre precedenti su come i programmi di assistenza, per quanto animati da buone intenzioni, possano svuotare le capacità individuali. Il sistema delle riserve avrebbe dovuto proteggere i nativi americani, ma, allo stesso tempo, smantellava sistematicamente l’autosufficienza tribale. Il rinnovamento urbano prometteva alloggi migliori, ma distruggeva le reti comunitarie che erano esistite per generazioni.

      Che il reddito di base universale nasca da buone intenzioni o dal desiderio deliberato delle élite di mantenere i cittadini docili e indifesi, l’effetto strutturale rimane lo stesso: comunità più facili da controllare.

      Una volta che le persone accettano la dipendenza economica e mentale, si apre la strada a forme di gestione più invasive, comprese tecnologie che monitorano non solo il comportamento, ma anche il pensiero stesso.

      La risposta della sovranità e la libertà cognitiva

      Il punto di arrivo logico di questa architettura di dipendenza va oltre l’economia e la cognizione fino alla coscienza stessa. Stiamo già assistendo alle prime fasi della convergenza biodigitale, ovvero tecnologie che non si limitano a monitorare i nostri comportamenti esterni, ma che potenzialmente interagiscono con i nostri stessi processi biologici.

      Al World Economic Forum del 2023, l’esperta di neurotecnologia Nita Farahany aveva definito in questo modo la neurotecnologia di consumo: “Ciò che pensi, ciò che provi: sono solo dati. Dati che, in grandi modelli, possono essere decodificati utilizzando l’intelligenza artificiale”. Indossabili “Fitbit per il tuo cervello”: la sorveglianza normalizzata come comodità.

       

      Questa presentazione informale della sorveglianza neurale in occasione di questo influente incontro di leader mondiali e dirigenti aziendali illustra esattamente come queste tecnologie vengano normalizzate attraverso l’autorità istituzionale piuttosto che il consenso democratico. Quando anche i pensieri diventano “dati che possono essere decodificati”, la posta in gioco diventa esistenziale.

      Mentre la neurotecnologia di consumo si concentra sull’adozione volontaria, la sorveglianza dettata dalle crisi adotta un approccio più diretto. In risposta alla recente sparatoria in una scuola di Minneapolis, Aaron Cohen, un veterano delle operazioni speciali dell’IDF, è apparso su Fox News per promuovere un sistema di intelligenza artificiale che “scansiona Internet 24 ore su 24, 7 giorni su 7, utilizzando un’ontologia di tipo israeliano per estrarre linguaggi specifici di minaccia ed inoltrarli alle forze dell’ordine locali”. Lo ha definito “il sistema di allerta precoce dell’America”, una sorta di Minority Report nella vita reale presentato come innovazione per la sicurezza pubblica.

       

      Questo segue lo stesso modello iatrogeno che abbiamo visto durante tutto questo cambiamento tecnologico: la crisi crea vulnerabilità, vengono offerte soluzioni che promettono sicurezza creando dipendenza e le persone accettano una sorveglianza che avrebbero rifiutato in circostanze normali.

      Proprio come i lockdown dovuti alla COVID avevano creato le condizioni per l’adozione dell’IA isolando le persone le une dalle altre, le sparatorie nelle scuole creano le condizioni per la sorveglianza pre-crimine sfruttando la paura per la sicurezza dei bambini. Chi non vorrebbe che le nostre scuole siano sicure? La tecnologia promette protezione, ma, allo stesso tempo, erode la privacy e le libertà civili che rendono possibile una società libera.

      Alcuni accoglieranno queste tecnologie come un’evoluzione. Altri le respingeranno come disumanizzanti. La maggior parte di noi dovrà imparare a navigare tra questi due estremi.

      La risposta alla sovranità richiede lo sviluppo della capacità di mantenere una scelta consapevole sulle modalità di interazione con i sistemi progettati per limitare la libertà personale. Questo approccio pratico mi è diventato più chiaro dopo una conversazione con il mio vecchio amico, un esperto di apprendimento automatico che condivide le mie preoccupazioni e che mi ha offerto un consiglio tattico: l’IA renderà alcune persone cognitivamente più deboli, ma, se si impara a usarla in modo strategico piuttosto che dipendente, può aumentare l’efficienza senza sostituire il giudizio. La sua intuizione chiave: alimentala solo con informazioni che già conosci, in questo modo imparerai a riconoscerne i pregiudizi invece di assorbirli. Ciò significa:

      Capacità di riconoscimento dei modelli: sviluppare la capacità di capire quando le tecnologie servono a scopi individuali e quando invece sottraggono l’indipendenza personale a vantaggio delle istituzioni. In pratica, questo significa chiedersi perché una piattaforma è gratuita (niente è gratuito, si paga con i propri dati), notare quando i suggerimenti dell’IA sembrano sospettosamente allineati al consumo piuttosto che agli obiettivi dichiarati e riconoscere quando i feed algoritmici amplificano l’indignazione piuttosto che la comprensione. Fare attenzione ai prodromi della dipendenza da algoritmi: incapacità di convivere con l’incertezza senza consultare immediatamente l’IA, ricorso all’assistenza algoritmica prima di cercare di risolvere i problemi in modo indipendente o sensazione di ansia quando si è disconnessi dagli strumenti basati sull’IA.

      Confini digitali: prendere decisioni consapevoli su quali comodità tecnologiche servono realmente ai propri obiettivi e quali invece creano sottomissione e sorveglianza. Ciò significa comprendere che tutto ciò che si condivide con i sistemi di intelligenza artificiale viene trasformato in dati di addestramento: i propri problemi, le idee creative e le intuizioni personali insegnano a questi sistemi a sostituire la creatività e il giudizio umani. Potrebbe trattarsi semplicemente di difendere degli spazi sacri, rifiutando di permettere che i telefoni interrompano le conversazioni a tavola o facendo sentire la propria voce quando qualcuno ricorre a Google per risolvere un disaccordo, piuttosto che lasciare che l’incertezza aleggi nelle conversazioni.

      Reti comunitarie: nulla può sostituire il legame autentico tra le persone: l’energia delle esibizioni dal vivo, le conversazioni spontanee nei ristoranti, l’esperienza diretta di stare insieme agli altri. Costruire relazioni locali per verificare la realtà e fornirsi sostegno reciproco senza dipendere da intermediari algoritmici diventa essenziale quando le istituzioni possono creare consenso attraverso una tutela digitale. Ciò significa coltivare amicizie in cui è possibile discutere idee senza algoritmi che ascoltano, sostenere le imprese locali che preservano il commercio su scala comunitaria e partecipare ad attività comunitarie che non richiedono mediazione digitale.

      Piuttosto che competere con le macchine o dipendere interamente dai sistemi basati sull’intelligenza artificiale, l’obiettivo è quello di utilizzare questi strumenti in modo strategico, sviluppando al contempo quelle qualità essenzialmente personali che non possono essere replicate algoritmicamente: la saggezza acquisita attraverso l’esperienza diretta, il giudizio che porta a conseguenze reali, le relazioni autentiche costruite sulla condivisione dei rischi e sulla fiducia.

      Ciò che rimane scarso

      In un mondo di abbondanza cognitiva, cosa diventa prezioso? Non l’efficienza o la potenza di elaborazione grezza, ma le qualità che rimangono irriducibilmente umane:

      La capacità di assumersi le proprie responsabilità e l’intenzionalità. Le macchine possono generare opzioni, ma sono le persone a scegliere quale strada intraprendere e a convivere con i risultati. Si pensi a un chirurgo che decide se operare, sapendo che perderà il sonno se sorgono complicazioni, magari mettendo in gioco la propria reputazione sul risultato.

      Relazioni autentiche. Molti sono disposti a pagare un sovrapprezzo per avere rapporti personali autentici e responsabilità, anche quando le alternative tecnologiche sono tecnicamente superiori. La differenza non sta nell’efficienza, ma nella sincera attenzione: il vicino che ti aiuta perché condividete legami comunitari, piuttosto che perché lo suggerisce un algoritmo ottimizzato per il coinvolgimento.

      Giudizio locale e cura radicati nell’esperienza reale. La risoluzione dei problemi nel mondo reale richiede spesso di leggere tra le righe dei modelli comportamentali e delle dinamiche istituzionali. Come un’insegnante che nota che uno studente normalmente coinvolto sta perdendo la concentrazione e indaga sulla sua situazione familiare. Quando i contenuti diventano infiniti, il discernimento diventa prezioso: come l’amico che ti consiglia libri in grado di cambiare la tua prospettiva perché conosce il tuo percorso intellettuale.

      La scelta che ci attende

      Probabilmente ogni generazione ritiene che il proprio tempo sia particolarmente importante: forse fa parte della nostra natura. Questa innovazione sembra più grande rispetto alle precedenti. Non stiamo solo cambiando il modo in cui lavoriamo o comunichiamo, ma rischiamo di perdere le capacità che ci rendono ciò che siamo. Per la prima volta, stiamo potenzialmente cambiando la nostra essenza. Quando la cognizione stessa diventa merce, quando il pensiero viene esternalizzato, quando anche i nostri pensieri diventano dati da raccogliere, rischiamo di perdere abilità fondamentali, quelle che nessuna generazione precedente aveva mai rischiato di perdere. Immaginate una generazione che non riesce a sopportare l’incertezza per trenta secondi senza consultare un algoritmo. Che ricorre all’assistenza dell’intelligenza artificiale prima di tentare di risolvere un problema in modo indipendente. Che si sente ansiosa quando è scollegata da questi strumenti. Non si tratta di speculazioni: sta già accadendo.

      Stiamo affrontando una trasformazione che potrebbe democratizzare il nostro potenziale individuale o creare il sistema di controllo più sofisticato della storia. Le stesse forze che potrebbero liberarci dalla fatica potrebbero anche svuotare completamente l’autodipendenza.

      Non si tratta di avere soluzioni: le sto cercando come chiunque altro, specialmente come genitore, che vede arrivare questa trasformazione e vuole aiutare i propri figli ad affrontarla in modo cosciente piuttosto che inconsapevole. Cavalcare l’onda significa che sono aperto ad imparare da questi strumenti, pur sapendo che non posso combattere le forze fondamentali che stanno rimodellando il nostro mondo. Ma posso cercare di imparare ad affrontarle con intenzione, piuttosto che lasciarmi semplicemente trascinare.

      Se la partecipazione economica tradizionale diventa obsoleta, la questione è se sviluppare nuove forme di resilienza comunitaria e di creazione di valore, o se accettare una comoda dipendenza da sistemi progettati per gestirci piuttosto che servirci. Non so quale strada prenderà la nostra specie, anche se credo che la decisione spetti ancora a noi.

      Per i miei figli, il compito non sarà imparare a usare l’IA: lo faranno comunque. La sfida sarà imparare a far funzionare questi strumenti a loro vantaggio, invece di diventarne schiavi, mantenendo la capacità di pensiero originale, di relazioni autentiche e di coraggio morale che nessun algoritmo può replicare. Nell’era dell’intelligenza artificiale, l’atto più radicale potrebbe essere quello di diventare più autenticamente umani.

      Il vero pericolo non è che l’IA diventi più intelligente di noi, ma che noi diventiamo più stupidi a causa sua.

      L’onda è arrivata. Il mio compito come padre non è quello di proteggere i miei figli da essa, ma di insegnare loro a cavalcarla senza perdere la propria identità.

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