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      • A chi parlano le armi

      A chi parlano le armi

      I Persiani di Eschilo, tragedia rappresentata ad Atene nel 472 a.C., dopo la memorabile vittoria della piccola città greca sull’immenso impero persiano, nelle acque dell’isola di Salamina, getta il primo seme di un’idea che si svilupperà nei millenni seguenti, fino alla sua perentoria affermazione nel mondo occidentale degli ultimi due secoli.

      Sulla scena del teatro ateniese il monarca orientale Serse apprende dall’ombra stessa di suo padre i motivi profondi della sua imprevedibile e disastrosa sconfitta: la vittoria greca coincide con la vittoria della Giustizia stessa sulla sua tracotanza, sulla sua arroganza; la vittoria dei valori morali della libertà, della razionalità e dell’umanità sull’assolutismo, sull’irrazionalità, sulla barbarie.

      Da quel momento in poi l’occidente ha potuto contare su un nucleo profondo di indiscutibile superiorità morale, che è riuscito a sopravvivere, nonostante la violenza della storia, della sua storia: nonostante le guerre di religione, la colonizzazione dell’Asia dell’Africa e delle Americhe, la distruzione di interi popoli e culture, nonostante due guerre mondiali, nonostante un mondo bipolare retto sulla deterrenza nucleare.

      Ma le ombre del dubbio hanno cominciato ad allungarsi già da qualche tempo. E il genocidio progettato e attuato da Israele nella striscia di Gaza ha, tra le innumerevoli tragiche conseguenze, anche questa: quel genocidio, nelle cui giustificazioni è difficile ormai non vedere il sorriso maligno dell’ipocrisia, è diventato lo specchio del vuoto morale a cui siamo giunti, l’acceleratore di una dolorosa presa di coscienza. In quello specchio vediamo la stessa arroganza, irrazionalità, bestialità che proiettavamo sul nemico.

      Non abbiamo più alcun primato civile da difendere, nessuna giustificazione delle nostre vittorie, se non la brutale potenza della tecnica, delle armi, della forza.

      Arriva in questi giorni la condanna di una commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU: la parola genocidio è ormai ammessa nelle istituzioni più alte al mondo. Ma questa condanna arriva quando ormai tutto è compiuto e Israele si affretta a terminare il lavoro cominciato, riducendo in polvere anche le biblioteche e i musei archeologici di quel paese; una condanna i cui effetti sono sanzioni che non tutti i paesi seguiranno; una condanna che non ha nemmeno la garanzia della corte penale internazionale, dal momento che questa non viene riconosciuta da molti paesi, tra cui Russia, Cina e Stati Uniti: della Giustizia, della preziosa Dike venerata dagli ateniesi, lo stesso occidente si è adesso sbarazzata, come di un inutile ingombro.

      Sui territori bombardati, dove sono sepolti i corpi delle vittime, sul loro sangue, sulla loro storia, si organizzano adesso le speculazioni finanziarie della ricostruzione.

      È vero che in tutto questo non c’è nulla che non sia già accaduto molte volte: la violenza è sempre nata dal desiderio di guadagno.

      Ma ora è diverso, adesso c’è qualcosa di nuovo: si è verificato uno strappo gravissimo. Prima si poteva ancora contare su una buona fede morale, e i cittadini dei paesi occidentali potevano affidarsi a un’immagine positiva di loro stessi.

      Adesso questo non è più possibile e gli abitanti dei paesi occidentali non si riconoscono più nell’operato dei loro governanti: ne avvertono la menzogna, l’imbarazzo. E’ inaccettabile prendere coscienza della vera natura del nostro primato: esso coincide del tutto con la spaventosa tecnologia delle armi, con l’utilitarismo di fini unicamente economici.

      La giustizia è cancellata, la democrazia sabotata.

      Lo specchio che ci pone davanti il genocidio palestinese è sconvolgente.

      Tuttavia, per una fiducia umanissima nell’esistenza, nella possibilità sempre aperta di un’alternativa, molti sperano che l’altra metà del mondo, che ci osserva e ascolta i nostri scricchiolii e attende, che è cresciuta all’ombra delle nostre industrie, possa rappresentare quella salvifica alternativa.

      Purtroppo neanche da quelle parti è possibile trovare qualcosa di diverso. Anzi, forse rappresentano l’espressione più compiuta di ciò che noi siamo.

      La parata del 3 settembre di quest’anno , organizzata in Cina per gli ottant’anni della vittoria sul Giappone, è la rappresentazione simbolica si una potenza tecnologica che non lascia più spazio a nient’altro.

      Missili in grado di portare testate atomiche in ogni parte del mondo; droni subacquei, che possono far sfrecciare nelle profondità marine le loro cariche nucleari; droni aerei sofisticatissimi; armi per la guerra elettronica; laser, armi a microonde e tanto altro ancora sfila sotto gli occhi dei governanti dell’ altra metà del mondo.

      Trump, monarca di un impero all’ inizio della sua decadenza, ci ha tenuto a comunicare di aver visto tutto, dal momento che lo spettacolo, dice, era stato organizzato per lui.

      I Russi hanno risposto frustrando l’ egocentrismo statunitense: la parata non era per nessuno in particolare, dicono. Era una semplice celebrazione, tutto qui!

      Certo: una semplice e sobria parata di testate atomiche!

      Peccato che vi siano due gravi ferite aperte, in Ucraina e in Palestina, che stanno lentamente diventando l’occasione decisiva che stabilirà chi detiene adesso il potere nel mondo. A chi andrà il primato della forza, della tecnica.

      E l’ Europa? Era anche per lei quella imponente parata di missili?

      Impoverita, senza coesione, né politica né morale; con una rappresentanza democratica allo sbando; un’ Europa che rinuncia ad ogni valore e affida la sua ultima illusione di potenza ad un’ economia del cinismo e della disumanità, alle industrie belliche, che vendono armi per uccidere bambini di Gaza, affamati e assetati in fila per il cibo; un’ Europa siffatta, non è certo un nemico da avvertire.

      Un’ Europa siffatta è una futura terra di conquista.

      Se quelle armi ci parlano, è per comunicare la nostra fine.

      Se “la tecnica è destinata a diventare lo scopo supremo”, come affermava Emanuele Severino, filosofo tra i più acuti del pensiero occidentale, questo destino riguarda ormai il mondo intero e non ci riserva più alcun tipo di primato.

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