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      • Io difendo la famiglia nel bosco

      Io difendo la famiglia nel bosco

      C’è una famiglia che è andata a vivere, bambini compresi, in un bosco. Accade a Palmoli, in provincia di Chieti. Come in quel delizioso libro che è “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” di Roy Lewis, una sorta di “anti Fini”, lo zio Vania si rifiuta di scendere dall’albero su cui si è rifugiato e rimprovera aspramente Edward perché si è permesso di scoprire il fuoco (il mito di Prometeo, insomma) così questa famiglia si rifiuta di essere contaminata dal mondo occidentale e, soprattutto, dalle sue regole.

      E’ una sorta di “passare al bosco” di jungeriana memoria. Non è un caso, credo, che la donna di questa strana famiglia sia un’australiana, Catherine Birminghan, che presumibilmente ha avuto contatti con gli aborigeni di quel paese che vivono secondo costumi lontanissimi da quelli occidentali. Il fenomeno si apparenta, in qualche modo, a quello degli hikikomori che si rifiutano di uscire di casa e di avere qualsiasi contatto con l’esterno. Ma in questo caso non si tratta di un singolo ma di una famiglia, minori compresi, la cui educazione è affidata ai genitori o a un’insegnante privata molisana che fa home schooling.

      In una lettera scritta dal legale della famiglia, insieme ai genitori, si sottolinea che “Non commettiamo alcun reato nei confronti dei nostri figli crescendoli in un ambiente naturale con acqua pulita, un posto caldo e sicuro dove dormire, mangiare e giocare… la loro crescita sociale è insieme a persone che condividono i nostri valori, mentre vivono costantemente la società attraverso gite e uscite settimanali a negozi, parchi, amici e vicini”. Nonostante ciò la Procura dei minorenni dell’Aquila ha avviato un’inchiesta che tende a togliere la patria potestà ai genitori e ha collocato i minorenni in una casa famiglia, dove andrà anche la madre.

      La questione è sottilissima: entro quali limiti lo Stato può introdursi nella vita privata di un individuo, in questo caso di una famiglia? Si avverte qui, sia pur in un caso estremo, quello che ho chiamato “Il vizio oscuro dell’Occidente”, cioè la tendenza totalitaria ad omologare tutto alla nostra cultura. Il ‘vizio’ nasce con lo scientismo settecentesco e con la ‘rieducazione’ dei “bambini selvaggi” che erano fuggiti dalla famiglia o, per un qualche caso, avevano vissuto dalla nascita in una foresta o in un altro luogo sperduto. Precursore e vittima di questo atteggiamento fu Victor, il “fanciullo selvaggio dell’Aveyron”. Questo bimbo di dodici anni, cresciuto nella solitudine dei boschi dell’Aveyron, fu, come ci avverte la relazione scientifica dell’epoca, “avvistato già nel 1797 e, più volte catturato e fuggito, ripreso definitivamente nel gennaio del 1800”. Subì vari esami da cui risultò “un essere subumano: incapace di parlare e comprendere il linguaggio degli uomini, abituato a nutrirsi di ghiande e radici, ignaro di ogni usanza civile”.

      Finì, da ultimo, nelle mani d’un medico umanista, fervente ammiratore di Locke e Condillac, Jean Itard, che si propose di trasformarlo in un ragazzo normale. Dopo anni di terapie, Victor non era più un selvaggio autosufficiente, ma non era nemmeno un uomo, era un ritardato e tale rimase per tutta la vita, una povera cosa intristita e umiliata, incapace ormai di badare a se stesso, oggetto di dotti studi sulle conseguenze della “deprivazione socio-culturale”, morì a quarant’anni in una dependance dell’Istituto dei sordomuti.

      Ma c’è un episodio più recente (1984) quello di una bimba, presumibilmente di dieci anni, trovata nella Sierra Leone dai bravi padri Saveriani. Da quel momento tutta la medicina occidentale, ma anche sovietica (“Baby Hospital”, così era stata atrocemente chiamata, almeno al “fanciullo selvaggio” dell’Aveyron era stata dato un nome umano, Victor) si è messa in moto per ‘salvarla’. Il professor Caffo, neuropsichiatra infantile, scrisse in una sua relazione: “La bambina non può occuparsi di se stessa, ha un comportamento anomalo”.

      Insomma Baby Hospital doveva essere rieducata a forza. Scrivevo, rispondendo a Caffo, in un articolo pubblicato dal Giorno del 1° marzo 1984: “La bambina non può occuparsi di se stessa ora, prima ci riusciva benissimo. Per quanto possa sembrare paradossale, era molto più essere umano nella foresta, con le scimmie, di quanto non lo sia oggi nella cosiddetta società civile dove è solo un oggetto, un ‘non-essere’ che va normalizzato a forza”. La necessità della bambina d’esser salvata è nata il giorno che l’hanno trovata, prima si salvava benissimo da sola.

      Secondo questa razionalità/irrazionalità di derivazione illuminista è meglio essere un handicappato a New York o a Mosca o a Milano che un bambino libero, anche se privo della parola, nella foresta. Non si poteva fare peggiore ingiuria a questa bimba che “curandola”, diventerà nella società cosiddetta civile, una minorata e un’infelice, quand’anche, e forse soprattutto, si facesse qualche progresso nella sua “risocializzazione”.

       

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