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      • La rivoluzione inizia quando acquisisci il potere di dire “no”

      La rivoluzione inizia quando acquisisci il potere di dire “no”

      I media mainstream sono uno dei mezzi più comuni per plasmare la psiche collettiva di una nazione. Le figure autoritarie li utilizzano come megafoni per diffondere qualsiasi narrazione desiderino al fine di mantenere il controllo. Tuttavia, non tutti ci cascano, ed è per questo che ricorrono alla censura dei dissidenti, arrivando persino a metterli in prigione.

      Questo è il tema centrale del documentario di The Corbett Report intitolato “Dissent Into Madness” (Il dissenso nella follia ma, non so quanto intenzionalmente, sottintende anche un gioco di parole con “descent”, discesa, N.d.T.), presentato sotto. Il film esplora il modo in cui i ribelli vengono spesso bollati come pericolosi e come le istituzioni accademiche e mediche rafforzino questo circolo vizioso di oppressione [1].

      Vi invito a guardare il film per intero, perché vi insegnerà i trucchi che gli psicopatici usano per arrivare al potere e cosa dovete fare per liberarvi da loro.

       

       

       

      Quando la “follia” diventa un’arma

      “Dissent Into Madness” si apre con un’affermazione audace: parole come “pazzo”, “folle” e “squilibrato” non sono insulti innocui, al contrario: sono strumenti di controllo. Vengono mostrati filmati trasmessi dalle principali reti televisive, in cui ospiti e conduttori usano con disinvoltura queste etichette per ridicolizzare chi mette in discussione le versioni ufficiali.

      Corbett sostiene che queste parole hanno lo scopo di screditare il vostro giudizio e di escludervi dal dibattito pubblico. Come spiega, quando i governanti o i media definiscono qualcuno “pazzo”, spesso non è perché quella persona ha torto, ma perché è scomoda.

      Uno strumento di oppressione: nel corso della storia, chi deteneva il potere ha utilizzato la diagnosi di “follia” per eliminare chi si opponeva (un nome a caso? Ezra Pound, N.d.T.). Il film sottolinea come etichettare qualcuno come malato di mente possa giustificare il suo isolamento, la somministrazione di farmaci (vedi alcuni TSO somministrati durante la pandemenza, N.d.T.) o il suo silenzio sotto la bandiera della “cura” (vogliamo parlare di Enrico Gianini? N.d.T.). Avverte che questa tattica non si verifica solo nelle dittature o nel passato, ma è un modello ricorrente ogni volta che l’autorità si sente minacciata.

      Il film ribalta poi la solita storia: invece di chiedersi cosa c’è che non va nei dissidenti, si chiede cosa c’è che non va nei governanti: “E se le ‘delusioni’ dei dissidenti fossero in realtà reali?”, chiede il narratore.

      E se le persone definite paranoiche stessero in realtà vedendo la verità sulla corruzione o l’ingiustizia? Il film sostiene che forse non sei tu a essere “pazzo” per mettere in discussione il potere, ma che sono i sistemi che guidano la società a mostrare segni di malattia, introducendo anche l’idea che i leader politici possano mostrare tratti di psicopatia: manipolazione, mancanza di empatia e ossessione per il controllo.

      Il film invita a mettere in discussione le proprie convinzioni sulla sanità mentale e l’autorità: invece di considerare i dissidenti come “pazzi”, chiede di vederli come persone che reagiscono normalmente a un ambiente corrotto. Il narratore conclude l’introduzione con una sfida: forse la vera follia non è in coloro che resistono, ma nella società che accetta come normali la crudeltà, l’inganno e il controllo.

      Questo cambiamento (dal biasimare l’individuo al diagnosticare il sistema) pone le basi per il resto dell’indagine del documentario su quella che definisce “psicopatia politica”.

       

      Quando la medicina si trasformò in uno strumento di potere

      La psichiatria non si è sempre occupata di cura o guarigione. Al contrario, è stata spesso utilizzata come arma per controllare chi metteva in discussione l’autorità. Corbett rivela come i leader sovietici etichettassero i dissidenti politici con una diagnosi inventata chiamata “schizofrenia pigra”.

      In sostanza, chiunque si esprimesse contro il governo poteva essere dichiarato malato di mente, rinchiuso in ospedali psichiatrici, sottoposto a trattamenti farmacologici o persino indotto in coma farmacologico. Non si trattava di pazienti, ma di cittadini messi a tacere con il pretesto della salute mentale.

      Altri governi seguirono lo stesso copione: la Germania nazista utilizzò la psichiatria come parte del suo brutale programma eugenetico, noto come Aktion T4. I medici decidevano chi era “idoneo” a vivere e chi no.

      In Giappone (durante e dopo la seconda guerra mondiale) e nella Cuba rivoluzionaria si verificarono abusi simili: le persone considerate una minaccia per lo Stato venivano sottoposte con la forza a trattamenti farmacologici o elettroshock per renderle docili, rivelando un modello preoccupante. Quando i governi si fondono con l’autorità medica, il risultato è spesso una crudeltà mascherata da cura (in questo senso, ancorché romanzo e film eccezionali, è il caso di ricordare “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. N.d.T.).

      Il filmato prosegue poi spostandosi verso ovest, sottolineando come le nazioni occidentali non fossero innocenti osservatori di questi crimini. Le istituzioni americane, tra cui la Fondazione Rockefeller, contribuirono a finanziare le prime ricerche tedesche sull’eugenetica attraverso gli Istituti Kaiser Wilhelm. Le leggi statunitensi ispirarono persino le politiche di sterilizzazione naziste.

      Dati inquietanti dalla psichiatria americana dei primi tempi: il dottor Benjamin Rush, definito il “padre della psichiatria americana”, riteneva che la ribellione stessa fosse una malattia mentale che chiamò “anarchia”, ovvero un “eccesso di passione per la libertà”. Le sue cosiddette cure prevedevano la reclusione al buio, la privazione del sonno e persino la rotazione dei pazienti su un giroscopio.

       

      Diagnosticare la ribellione — Come un comportamento normale è diventato un “disturbo”

      La psichiatria moderna è passata dal curare le malattie all’etichettare comportamenti normali come malattie. Il film esamina il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (noto come DSM) pubblicato dall’American Psychiatric Association.

      Introdotto come guida clinica nel 1952, il DSM è diventato quello che Corbett definisce “la Bibbia della diagnostica psichiatrica”. Con ogni edizione, sempre più emozioni e comportamenti umani sono stati riclassificati come disturbi, ampliando il mercato dei farmaci da prescrizione.

      Anche i medici contribuiscono al problema: Corbett presenta dati sorprendenti provenienti da una ricerca dell’Università del Massachusetts a Boston, pubblicata nel 2012 dalla dottoressa Lisa Cosgrove. Secondo i risultati, il 69% degli esperti che hanno redatto il DSM-5 aveva legami finanziari con aziende farmaceutiche, alcuni come consulenti retribuiti o portavoce.

      Il film affronta anche la crescente medicalizzazione della vita quotidiana, citando sondaggi che mostrano che negli Stati Uniti un adulto su sei assume farmaci psichiatrici, mentre le prescrizioni per i bambini, in particolare per antipsicotici come il risperidone e l’olanzapina, sono aumentate vertiginosamente negli ultimi due decenni.

      Questi farmaci non sono neutri: influenzano il comportamento, limitano la gamma delle emozioni e insegnano ai bambini che la conformità è chimica. Invece di chiedersi perché le persone si sentono ansiose, irrequiete o arrabbiate, la società si limita a dire loro di prendere qualcosa per curarsi.

      La ribellione viene trattata come una malattia mentale vera e propria. Il dottor Bruce Levine, protagonista del documentario, fornisce un esempio agghiacciante: il “disturbo oppositivo provocatorio” o ODD. Spiega che questa etichetta viene attribuita ai bambini che mettono in discussione l’autorità o si rifiutano di obbedire agli adulti, anche quando non hanno fatto nulla di illegale o dannoso.

      La definizione del DSM descrive comportamenti quali discutere con gli insegnanti o opporsi alle istruzioni come sintomi di un disturbo mentale. Levine definisce questo atteggiamento “patologizzazione della ribellione” e avverte che punisce l’indipendenza e la curiosità. Il documentario ricollega questo concetto alla sua tesi centrale, secondo cui la psichiatria è diventata ancora una volta uno strumento per mettere a tacere il dissenso. Insegnando ai bambini che la disobbedienza significa che sono malati, la società fa sì che meno persone crescano disposte a sfidare il potere.

       

      Gli ingegneri nascosti dietro l’arma psicologica

      Il film presenta le persone e le istituzioni che hanno trasformato la psichiatria da professione curativa a meccanismo di controllo. Si apre con un uomo di nome George Brock Chisholm, psichiatra canadese che in seguito divenne il primo direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

      Nel 1945, Chisholm tenne una conferenza intitolata “Il ristabilimento della società in tempo di pace”, in cui esortò gli psichiatri a liberare l’umanità “dal suo fardello paralizzante del bene e del male”. Definendo la moralità stessa un problema psicologico, ridefinì il ruolo del medico: non quello di curare la sofferenza mentale, ma di rimodellare il modo di pensare al bene e al male. Questa idea, sostiene il film, fu il seme dell’uso della psichiatria come strumento di ingegneria sociale.

      La psichiatria usata con ogni mezzo necessario: — Il film presenta il colonnello John Rawlings Rees, psichiatra militare britannico e capo del Tavistock Institute, che portò le idee di Chisholm a un livello superiore. Nel 1940, Rees tenne un discorso in cui descriveva un piano per infiltrare psichiatri in istituzioni chiave come l’istruzione, la religione e i media. Definì questa strategia “quinta colonna” – prendendo in prestito un termine dallo spionaggio bellico – per plasmare silenziosamente il pensiero pubblico dall’interno.

       

      “Il Parlamento, la stampa e altre pubblicazioni”, disse, “sono i mezzi più ovvi attraverso i quali la nostra propaganda può essere diffusa”. Rees ammise persino che la segretezza era essenziale perché “a molte persone non piace essere ‘salvate’, ‘cambiate’ o rese sane”. Secondo la sua logica, la manipolazione del pubblico non era immorale, ma terapeutica.

       

      Il film collega queste prime campagne psicologiche ai programmi di controllo mentale della Guerra Fredda: progetti della Central Intelligence Agency (CIA) come MKULTRA, BLUEBIRD e ARTICHOKE testarono farmaci, ipnosi ed elettroshock su persone ignare per controllarne il pensiero e il comportamento.

      Un esempio è il dottor Ewen Cameron, i cui esperimenti di “riprogrammazione” utilizzavano dosi massicce di acido lisergico dietilamide (LSD) ed elettroshock per cancellare la personalità dei pazienti. Il documentario mostra documenti declassificati che descrivono in dettaglio operazioni come “Midnight Climax”, in cui la CIA osservava i civili attraverso specchi unidirezionali dopo aver somministrato loro LSD, che era “utilizzato per studiare l’effetto del ricatto sessuale e l’uso di sostanze che alterano la mente nelle operazioni sul campo”.

      La mentalità controllante non è finita con la Guerra Fredda: dopo l’11 settembre, lo psicologo Dr. Jim Mitchell, un tempo ispirato dalla ricerca sulla “impotenza appresa”, contribuì a progettare il programma di tortura della CIA. Il suo metodo si basava sul piegare la volontà di una persona attraverso la paura e la disperazione, non sull’estrarre la verità.

      Il documentario sottolinea inoltre che un quarto delle note a piè di pagina del “Rapporto della Commissione sull’11 settembre” si basava su informazioni ottenute tramite tortura, suggerendo che false confessioni fossero diventate fatti ufficiali. In parole povere, estorcere false confessioni era lo scopo principale del programma della CIA.

       

      Come il mettere in discussione il potere è diventato un “disturbo”

      Corbett sostiene che uno dei modi più semplici per mettere a tacere il dissenso è etichettarlo come malattia mentale. Piuttosto che affidarsi a complessi esperimenti psicologici o operazioni segrete, la nuova forma di controllo deriva dal bollare il sospetto stesso come patologia.

      Per chiarire il suo esempio, [Corbett] mostra un fenomeno mediatico familiare: una marea di articoli quasi identici su testate importanti come il The New York Times e la BBC, tutti intitolati in qualche modo “Perché la gente crede nelle cospirazioni?”. Ogni articolo, spiega il documentario, parte dalla stessa premessa: c’è un numero crescente di persone che nutrono credenze stravaganti su chi detiene il potere e finisce per dipingere queste persone come emotivamente instabili, deliranti o addirittura pericolose.

      Gli articoli, sebbene presentati come scientifici, trasmettono un messaggio sottile ma potente: se metti in discussione l’autorità, c’è qualcosa che non va in te. Questi articoli citano solitamente psicologi che suggeriscono che “persone benintenzionate ma emotivamente instabili” si aggrappano alle teorie del complotto per sentirsi in controllo in un mondo incontrollabile.

      Corbett sottolinea come questo linguaggio allontani la conversazione dalle prove o dal dibattito e la orienti verso la diagnosi. Ciò significa che non ci si confronta più con delle idee, ma si “aiuta” un paziente. Si consiglia al pubblico di parlare con toni rassicuranti agli amici che mettono in discussione le versioni ufficiali, come se si trattasse di animali spaventati.

      La ripetizione fa sì che l’idea rimanga impressa: Corbett sottolinea l’uniformità del messaggio diffuso da centinaia di media e testate accademiche, dall’American Psychological Association alla rivista TIME fino a Scientific American. Questa ripetizione, sostiene, funziona come un condizionamento coordinato, uno sforzo per equiparare lo scetticismo alla malattia.

      Inondando la sfera pubblica con la stessa narrativa, il dissenso diventa socialmente e psicologicamente rischioso. Se si fanno troppe domande, si rischia di essere considerati instabili, irrazionali o bisognosi di deradicalizzazione.

       

      Dalle risate ai lockdown: quando la derisione si è trasformata in forza

      Il film mostra come il trattamento riservato ai “teorici della cospirazione” sia passato dall’essere oggetto di scherno a quello di punizione. Inizia mostrando come la cultura popolare abbia diffuso l’idea che mettere in discussione il potere fosse ridicolo.

      Una clip della sitcom degli anni ’70 “Barney Miller” mostra un uomo che si scaglia contro la Commissione Trilaterale mentre i poliziotti sorridono e lo definiscono delirante. In seguito, il meme del “cappello di carta stagnola” (ispirato per la prima volta da un racconto di Julian Huxley del 1927) è diventato sinonimo di follia. Il film spiega che queste battute non erano innocue, ma hanno creato un riflesso culturale che porta a ridere di chiunque sfidi l’autorità. Quando i talk show e i panel di informazione hanno iniziato a prendere in giro i “truthers”, la società era già stata addestrata a considerare lo scetticismo come follia.

      Chi cercava la verità veniva ridicolizzato: questo casuale ridicolo si è rafforzato dopo gli attacchi dell’11 settembre. Secondo il film, l’avvertimento del presidente George W. Bush di “non tollerare mai teorie cospirative oltraggiose” è diventato un segnale per i media di prendere in giro i truthers.

      I conduttori dei programmi televisivi notturni come Bill Maher scherzavano dicendo che i teorici della cospirazione dell’11 settembre avrebbero dovuto iniziare a “chiedere al proprio medico se il Paxil fosse adatto a loro”, mentre i giornalisti li diagnosticavano come affetti da manie di persecuzione.

      I commentatori di tutto lo spettro politico hanno iniziato a riferirsi ai truthers come potenziali estremisti. Il film sostiene che questa retorica ha gettato le basi per reintrodurre la psichiatria come strumento di punizione piuttosto che di cura. Queste provocazioni, dice il narratore, hanno preparato l’opinione pubblica a qualcosa di più oscuro: l’idea che mettere in discussione le narrazioni del governo non fosse solo sciocco, ma anche pericoloso.

      Commentatori di tutto lo spettro politico hanno iniziato a riferirsi ai sostenitori della verità come potenziali estremisti. Il film sostiene che questa retorica abbia gettato le basi per reintrodurre la psichiatria come strumento di punizione piuttosto che di cura.

      Esempi reali in cui il dissenso ha portato alla detenzione psichiatrica: nel 2006, la giornalista neozelandese Claire Swinney è stata confinata con la forza in un reparto psichiatrico e sottoposta a trattamento farmacologico dopo aver messo pubblicamente in discussione la versione ufficiale dell’11 settembre. In seguito ha scoperto che la sua detenzione violava le leggi della Nuova Zelanda, che vietano il confinamento psichiatrico basato esclusivamente sulle convinzioni politiche.

      Il film racconta anche il caso della dottoressa Meryl Nass, un medico americano la cui licenza medica è stata sospesa dopo che si era espressa contro le politiche ufficiali di trattamento del COVID-19 e alla quale è stato ordinato di sottoporsi a una valutazione psichiatrica prima di poter riottenere la licenza. Lo stesso schema si ripete con il cardiologo svizzero Thomas Binder, i cui post sul blog che criticavano i lockdown pandemici hanno portato a un raid della polizia nel suo ufficio condotto da ben 60 agenti.

       

      Quando il fascino nasconde la mancanza di coscienza

      Molte persone che ricoprono posizioni di potere politico e aziendale mostrano tratti di psicopatia. A differenza dei criminali violenti ritratti nei film, questi “psicopatici di successo” indossano abiti eleganti, sorridono alle telecamere e influenzano leggi, guerre ed economie.

      Corbett spiega che la psicopatia non è una forma di follia, ma piuttosto l’assenza di coscienza. Questi individui mentono con facilità, manipolano le emozioni e usano il loro fascino (cfr. Glauco Benigni) per arrivare al vertice. Non provano senso di colpa, rimorso o empatia e trattano le altre persone come strumenti.

      La psicopatia è normale per le persone al potere: per spiegarlo, Corbett fa riferimento al lavoro del Dr. Robert Hare, uno psicologo canadese la cui Psychopathy Checklist (PCL-R) è utilizzata in tutto il mondo per identificare i tratti psicopatici. La checklist di Hare include qualità come megalomania, fascino superficiale, falsità, mancanza di empatia e manipolazione.

      Mentre Corbett esamina la lista, si iniziano a notare inquietanti somiglianze tra questi tratti e ciò che si osserva ogni giorno nella politica e nelle grandi imprese. Il film mostra immagini di comizi elettorali, sale riunioni e conferenze stampa, invitando lo spettatore a notare lo schema ricorrente: leader che mentono senza esitazione, sfruttano le crisi per trarne vantaggio e sorridono mentre lo fanno.

      Corbett sostiene la sua tesi con i risultati di alcune ricerche: studi di psicologia organizzativa dimostrano che gli individui con tratti psicopatici sono sovra-rappresentati nei ruoli di leadership, specialmente in ambito aziendale e politico. Ad esempio, circa il 4% della popolazione è costituito da psicopatici, “responsabili di gran parte dei disastri nella nostra società”.

       

      Quando i sistemi assorbono la mente dello psicopatico

      Il film spiega che gli psicopatici che occupano posizioni di potere non si limitano a manipolare gli individui, ma rimodellano intere istituzioni per riflettere la loro mancanza di empatia. Gli psicologi definiscono questo fenomeno “proiezione”, in cui i leader rinnegano il proprio vuoto morale accusando i critici dello stesso difetto, etichettando i dissidenti come “paranoici”, “instabili” o “pericolosi”.

      Questo gioco di prestigio psicologico distrae il pubblico dalla vera fonte del danno, ma la proiezione va oltre il linguaggio. Corbett descrive come le aziende e i governi inizino ad agire come gli individui che li gestiscono: ingannevoli, spietati e ossessionati dall’immagine.

      Le aziende seguono la psiche dei propri leader: Corbett attinge dal documentario del 2003 “The Corporation”, in cui il dottor Robert Hare spiega che un’azienda gestita da uno psicopatico spesso diventa essa stessa psicopatica. Mostra gli stessi tratti, come il fascino senza profondità, l’inganno mascherato da pubbliche relazioni e l’indifferenza morale nascosta sotto il nome di “strategia”.

      Corbett descrive come le aziende che violano ripetutamente le leggi considerino le multe come “il costo di fare affari”, rispecchiando la mancanza di rimorso dello psicopatico. Nel corso del tempo, questo atteggiamento si diffonde in tutta l’organizzazione. I dipendenti assorbono i valori del sistema, come fingere empatia, dare priorità al profitto piuttosto che all’onestà e imparare che la spietatezza porta ricompense.

      Psicopatia secondaria: da lì, passa a quella che definisce “psicopatia secondaria”, ovvero il processo attraverso il quale persone normali sottoposte a determinate pressioni adottano comportamenti psicopatici.

      Ad esempio, nello studio del dottor Solomon Asch sul conformismo, i partecipanti hanno concordato con bugie evidenti piuttosto che discostarsi dall’opinione del gruppo. Gli esperimenti sull’obbedienza del dottor Stanley Milgram hanno dimostrato che la maggior parte delle persone somministrerebbe quelle che ritiene essere scosse elettriche letali semplicemente perché un’autorità glielo ha ordinato.

      Questi studi hanno rivelato una verità inquietante: anche le persone sane potrebbero commettere atti crudeli se il sistema che le circonda lo richiedesse. L’esempio più eclatante, tuttavia, è venuto dallo Stanford Prison Experiment condotto da Philip Zimbardo nel 1971, che in meno di una settimana è degenerò in sadismo quando le “guardie” volontarie inventarono nuovi modi per umiliare i propri compagni.

      Dal laboratorio al mondo reale: Corbett collega direttamente questo modello alle atrocità commesse nel mondo reale, come le torture inflitte ai prigionieri ad Abu Ghraib in Iraq. Secondo Corbett, lo stesso Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, nel suo “Rapporto Schlesinger”, ha citato l’esperimento di Stanford per spiegare come le “pressioni sistemiche” abbiano favorito la crudeltà tra le guardie.

      L’approvazione da parte dell’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld di tecniche di interrogatorio aggressive, tra cui posizioni stressanti e umiliazioni psicologiche, ha dato il tono dall’alto, autorizzando di fatto il collasso morale. La trascrizione rivela che l’esperimento stesso era stato finanziato dall’Ufficio di Ricerca Navale degli Stati Uniti “per studiare il comportamento antisociale”, un segno agghiacciante dell’interesse istituzionale a replicare e controllare tali risultati.

       

      Quando il sistema stesso si ammala

      Corbett introduce anche il termine “patocrazia”, coniato dallo psicologo polacco Andrew Lobaczewski nel suo libro vietato del 1984 “Political Ponerology”. Lobaczewski descriveva la patocrazia come una società governata da un piccolo gruppo di individui psicologicamente disturbati, persone prive di empatia e coscienza morale che tuttavia raggiungono i vertici delle strutture di potere.

      Una volta che questa minoranza patologica ottiene il controllo, rimodella ogni istituzione – governo, media, istruzione e persino medicina – per riflettere i propri valori distorti. Il risultato è un mondo in cui la crudeltà viene premiata e l’onestà punita.

      In una patocrazia, i tratti della normale decenza umana diventano un peso: lo si vede nei luoghi di lavoro dove l’obbedienza conta più dell’integrità, o in politica dove chi dice la verità viene emarginato mentre chi manipola prospera. Corbett spiega che i patocrati dipendono dalla [capacità di creare] paura e confusione per mantenere il controllo.

      Creano crisi costanti, come guerre, allarmi sanitari o emergenze economiche, per giustificare l’espansione della loro autorità. In questo tipo di sistema, la persona media impara a tacere e, così facendo, assorbe lentamente la malattia del sistema.

      Cercare di riformare una patocrazia è come potare un albero avvelenato: alla fine ricresce allo stesso modo. Il film sottolinea che la semplice sostituzione dei leader corrotti non risolve il problema, perché la struttura stessa del potere centralizzato attira naturalmente coloro che sono privi di empatia.

       

      Il potere di dire “no”

      Anche il più piccolo atto di coraggio può innescare la caduta di un intero sistema oppressivo. Corbett rivisita i famosi esperimenti sull’obbedienza dello psicologo Milgram negli anni ’60, in cui persone comuni credevano di infliggere dolorose scosse elettriche ad altri semplicemente perché un uomo in camice da laboratorio glielo aveva ordinato.

      La cultura popolare ha sintetizzato i risultati di quello studio, affermando che il 65% dei partecipanti era disposto a somministrare la scossa, ma Corbett sottolinea una parte dello studio che viene raramente discussa. Quando i partecipanti vedevano qualcun altro disobbedire all’autorità, l’obbedienza crollava. Solo il 10% continuava a somministrare la scossa massima dopo aver assistito al rifiuto di un’altra persona. Quel singolo atto di sfida aveva modificato la loro bussola morale.

      Il risultato trascurato rivela una semplice verità sulla natura umana: l’obbedienza è contagiosa, ma lo è anche il coraggio. Una volta che una persona si oppone all’autorità, gli altri la seguono rapidamente. Corbett lo definisce un “interruttore automatico”, un momento in cui la paura collettiva va in corto circuito e le persone ricordano la propria capacità di agire. Il film mostra che ogni struttura autoritaria, per quanto intimidatoria, dipende dal vostro consenso per funzionare.

      Un esempio di sfida: per illustrare il concetto, Corbett ricorre a un esempio reale, il crollo della dittatura di Nicolae Ceaușescu in Romania. Il 21 dicembre 1989, Ceaușescu salì su un balcone a Bucarest per tenere l’ennesimo discorso in cui elogiava il socialismo e il suo governo.

      Per decenni, la folla aveva applaudito a comando. Ma questa volta qualcuno fischiò. Il suono era debole all’inizio, poi divenne più forte quando altri si unirono al coro, scandendo “Timișoara!”, in riferimento a un recente massacro di manifestanti. Il film mostra il volto sbalordito di Ceaușescu quando si rende conto che la folla non lo teme più. Nel giro di pochi giorni, il suo regime cadde e lui e sua moglie furono giustiziati dopo aver tentato di fuggire. In breve, l’intera rivoluzione iniziò con una sola voce che ruppe il silenzio.

       

      Guarire il sistema vivendo in modo diverso

      Nella parte finale del film, si passa dalla diagnosi alla prescrizione. Dopo aver illustrato come i sistemi governati da persone spietate finiscano per crollare sotto il loro stesso peso, il narratore offre un messaggio di speranza: è possibile contribuire a costruire qualcosa di meglio praticando valori opposti a quelli della patocrazia.

      Corbett inizia spiegando che i sistemi corrotti sono autolimitanti. Si nutrono di inganno, paura e dominio, ma queste forze inevitabilmente distruggono la fiducia e la cooperazione, che sono elementi necessari al funzionamento della società.

      Il passo successivo: smettere di aspettare una riforma dall’alto. Non si cura una struttura malata riorganizzandone la leadership, ma sostituendo in primo luogo gli incentivi che la rendono malata.

      La soluzione non è una grande rivoluzione, ma un modello quotidiano: siete invitati a mettere in pratica atti di rottura del circuito nella vostra vita:

       

      “Dicendo no all’autorità illegittima, resistendo ai bulli e ai tiranni, disobbedendo agli ordini immorali, rifiutando di ottemperare a mandati e richieste ingiuste, rendiamo molto più facile per chi ci circonda difendere ciò che anche loro sanno essere giusto…”, afferma Corbett.

      “Sta a ciascuno di noi dare l’esempio di ciò che vogliamo vedere nel mondo. Proprio come il coraggioso dissidente che riesce a spezzare il circolo vizioso della tirannia esprimendo la propria opposizione al tiranno, anche noi possiamo diventare modelli di amore, comprensione e compassione che motiveranno gli altri a fare lo stesso”.

       

      Un singolo articolo di fake news può cambiare il nostro modo di agire?

      A margine di questo argomento, uno studio pubblicato su Nature Scientific Reports da ricercatori dell’University College di Dublino e dell’University College di Cork ha testato qualcosa che sembra semplice ma che non era mai stato rigorosamente dimostrato: se la lettura di una singola notizia falsa cambia il tuo comportamento nel mondo reale [2]. I ricercatori hanno progettato tre esperimenti separati per isolare il modo in cui la disinformazione influenza i diversi comportamenti [3].

      Nei primi due esperimenti, i partecipanti hanno letto una notizia falsa che sosteneva che le mandorle o gli anacardi fossero contaminati. Successivamente, un sottogruppo di queste persone è stato invitato in un laboratorio per partecipare a quello che pensavano fosse uno studio sul marketing alimentare. È stato chiesto loro di assaggiare dei frutti secchi, compresi proprio quelli menzionati nell’articolo falso, per vedere se la disinformazione precedente influenzasse ciò che mangiavano effettivamente. Non è stato così.

      Nonostante fosse stato detto loro che i frutti secchi erano stati “contaminati”, i partecipanti non hanno mostrato un calo significativo nella loro disponibilità a mangiarli o a valutarli positivamente.

      Per assicurarsi che il risultato non fosse un caso legato a una sola storia, il team ha ripetuto l’esperimento: questa volta con diverse storie inventate sulla contaminazione, come quelle su funghi, urina di roditori, uova di ragno ed E. coli. Anche in questo caso, non sono stati riscontrati cambiamenti significativi nell’atteggiamento o nel comportamento delle persone. Ciò indica chiaramente che la maggior parte delle esposizioni occasionali a informazioni errate non è sufficientemente forte da alterare il comportamento nel mondo reale quando la posta in gioco è neutra e l’argomento non è legato all’identità personale o alla politica.

      Il terzo esperimento ha alzato la posta in gioco: questa volta i ricercatori sono passati dal cibo al cambiamento climatico, una questione profondamente politicizzata che divide fortemente l’opinione pubblica. A un totale di 413 partecipanti è stata mostrata in modo casuale una di quattro notizie false, che sostenevano o negavano la gravità del cambiamento climatico.

      Successivamente, è stata data loro la possibilità di agire in base a ciò che avevano letto. Potevano firmare una petizione a sostegno dell’azione ambientale, iscriversi a una mailing-list per iniziative climatiche o donare una parte del compenso ricevuto per lo studio a un’organizzazione che si occupa di clima.

      È qui che le cose sono leggermente cambiate. L’unico effetto comportamentale reale è apparso in un’attività che richiedeva uno sforzo minimo: firmare la petizione. Coloro che avevano letto informazioni errate scettiche sul clima erano meno propensi a firmare la petizione (23,4%) rispetto a coloro che avevano letto informazioni errate a favore del cambiamento climatico (36,5%) o a coloro che avevano visto contenuti neutri (di controllo) (39%).

      Le altre due azioni – donare denaro o iscriversi a una mailing list – non sono cambiate in base a ciò che i partecipanti avevano letto. In breve, la disinformazione ha un impatto maggiore sulle decisioni rapide e a basso costo, non su quelle significative che richiedono tempo, denaro o un impegno sincero.

      Lo studio ha dimostrato che le convinzioni preesistenti delle persone erano molto più potenti della disinformazione stessa: per esempio, i partecipanti che già credevano nel cambiamento climatico erano costantemente più propensi ad adottare comportamenti a favore dell’ambiente, indipendentemente dal tipo di notizia falsa che leggevano.

      Ma se siete incerti o disinformati, l’esposizione ripetuta a informazioni di parte provenienti da voci familiari o affidabili può gradualmente influenzare la vostra percezione. I ricercatori hanno sottolineato che questo effetto cumulativo, ovvero l’esposizione ripetuta a bugie simili, crea una “verità illusoria”. È l’abitudine del cervello di confondere la familiarità con l’accuratezza. Una volta che qualcosa suona familiare, inizia a sembrare vero, anche se non lo è.

      In termini pratici, la migliore difesa contro la disinformazione non è evitare tutti i media, ma essere consapevoli dei propri pregiudizi. Se un titolo sembra immediatamente giusto o sbagliato, quella sensazione spesso riflette la nostra identità più che le prove effettive. I ricercatori hanno sottolineato che la disinformazione coerente e ideologicamente allineata, ovvero vedere la stessa affermazione condivisa ripetutamente da amici o influencer, rappresenta una minaccia molto più grande per il cambiamento comportamentale rispetto a qualsiasi singolo titolo falso.

       

      7 tratti distintivi una notizia falsa

      Anche se sembra che non ci sia speranza, il cambiamento inizia dicendo “no”. E questo significa dire no alle notizie false con cui i media mainstream ci bombardano ogni giorno. Ora, come si fa a individuare efficacemente le notizie false? Ecco sette indizi, secondo uno studio pubblicato nel 2022 [4]:

      1. Linguaggio scorretto: fare attenzione agli errori ortografici, grammaticali o di punteggiatura.
      2. Contagio emotivo: i malintenzionati sanno che i contenuti che suscitano forti emozioni sono quelli più condivisi.
      3. Notizie preziose o false: diffidare se la notizia è condivisa da un’unica fonte, soprattutto se il testo suggerisce che vi viene nascosto qualcosa.
      4. Falsa verificabilità: controllare se la fonte utilizza profili social falsi. Cercare anche immagini fuorvianti e link web falsi.
      5. Condivisione eccessiva: se qualcuno vi esorta con forza a condividere una notizia, potrebbe trarne un guadagno pubblicitario.
      6. Seguire il denaro: considerare chi ha più da guadagnare da notizie straordinarie.
      7. Verificare i fatti: leggere la notizia fino alla fine; se è discutibile, cercare altre fonti che confermino i fatti.

       

      Domande frequenti (FAQ) su “Dissent Into Madness”

      D: Qual è il messaggio principale del documentario “Dissent into Madness”?

      R: Il film sostiene che i media mainstream e le istituzioni governative spesso etichettano i dissidenti come “pazzi” per mettere a tacere l’opposizione e mantenere il controllo. Esplora come la psichiatria, un tempo intesa come cura, sia stata trasformata in un’arma per screditare e reprimere chi mette in discussione l’autorità. Tuttavia, mettere in discussione il potere non è follia.

      D: In che modo la psichiatria è stata utilizzata come strumento di oppressione nel corso della storia?

      R: Il documentario ripercorre come la psichiatria sia stata utilizzata in modo improprio dai governi per mettere a tacere i critici, dalle diagnosi sovietiche di “schizofrenia pigra” ai programmi eugenetici nazisti e persino agli esempi occidentali. Mostra come i leader politici e i medici abbiano creato dei “disturbi” per giustificare la punizione o la somministrazione di farmaci a coloro che resistevano all’autorità dello Stato.

      D: Cosa intende il film con “psicopatia politica” e “patocrazia”?

      R: “Psicopatia politica” descrive i leader che mancano di empatia e manipolano gli altri per ottenere potere, mentre “patocrazia” si riferisce a intere società governate da tali individui. Quando gli psicopatici salgono al potere, le istituzioni iniziano a rispecchiare i loro tratti caratteriali – inganno, spietatezza e indifferenza morale – creando sistemi che premiano la crudeltà e puniscono l’integrità.

      D: In che modo il documentario suggerisce alle persone di resistere alla manipolazione psicologica e mediatica?

      R: Sottolinea il coraggio personale e la consapevolezza come antidoti. Dicendo “no” all’autorità ingiusta e dando l’esempio di empatia, verità e compassione, le persone possono rompere il ciclo della paura e del conformismo. Gli atti di sfida morale, anche piccoli, possono ispirare gli altri a ribellarsi e a rivendicare la propria autonomia.

      D: Quali lezioni offre l’articolo sulla disinformazione e le fake news?

      R: Uno studio recente rivela che una singola notizia falsa raramente cambia il comportamento, ma l’esposizione ripetuta sì. Per resistere alla manipolazione, i lettori devono acquisire una migliore comprensione dell’alfabetizzazione mediatica imparando a individuare le notizie false. Inoltre, la consapevolezza dei pregiudizi personali e il pensiero critico rimangono le migliori difese contro la propaganda.

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