Repetita iuvant: la Banca d’Italia è di proprietà privata, i suoi azionisti – detti pudicamente partecipanti – sono i maggiori istituti di credito con sede in Italia, controllati da banche estere. Non è altro che la filiale italiana della Banca Centrale Europea, di cui detiene l’11,8 delle quote, riviste al ribasso dal 2018. La BCE ha il monopolio dell’emissione di euro, valuta legale dell’area detta per questo eurozona. Il mondo distopico del debito pubblico – 350 mila miliardi di dollari – è un’invenzione del sistema delle banche centrali, che controllano e tengono al guinzaglio gli Stati e i governi attraverso la moneta debito gravata di interessi passivi composti. La conclusione è sconfortante: il totale del debito è sempre superiore al totale della moneta disponibile, per cui vi è sempre domanda di nuovo denaro, cioè di nuovi prestiti, emessi a costo zero guadagnando il valore netto del capitale prestato. (Marco Della Luna).Libri filosofia
L’impero dei vampiri è assicurato da una serie di leggi e accordi internazionali che rendono impossibile un cambiamento del sistema senza distruggere dalle fondamenta l’edificio finanziario che lo sostiene, la gigantesca rapina ai danni dei popoli. Un elemento ulteriore è il mercato dell’oro, in mano da generazioni alla dinastia Rothschild. La sua importanza non è cessata nonostante da oltre mezzo secolo non esista più la convertibilità in oro della massa monetaria circolante. Il metallo giallo resta un bene rifugio di grande importanza e da anni è in atto una corsa all’acquisto da parte di potenze emergenti come la Cina. In tempi di incombenti conflitti su scala mondiale l’oro aumenta costantemente il suo prezzo. Parliamo dell’oro “fisico”, quello vero, realmente estratto dalle miniere, detenuto in inviolabili santuari, i caveaux del moloch bancario.
Poiché gran parte dell’economia mondiale è irreale, anche le transazioni dell’oro sono virtuali per almeno il novanta per cento, ovvero si tratta di contratti con cui si compravende e si scommette sul valore dell’oro. Che non esiste in natura se non in minima parte. È la follia dell’economia finanziaria. Possedere oro fisico resta un ottimo affare e una robusta assicurazione sul futuro. L’ingranaggio, tuttavia, almeno nel regno della Banca Centrale Europea e dei suoi valvassini – quel che resta degli Stati nazionali – ha un gigantesco intoppo. Se è assai difficile entrare nel commercio dell’oro, è addirittura impossibile disporne, per gli Stati prigionieri della gabbia d’acciaio del sistema finanziario privatizzato. L’Italia possiede circa 2.500 tonnellate di riserve d’oro ed è il quarto detentore al mondo. L’Italia? Nossignore, la Banca d’Italia, membro minoritario della BCE. Il sito ufficiale della (ex) banca di emissione è chiarissimo. Dopo avere informato che “le riserve auree sono parte integrante delle riserve ufficiali del Paese e hanno la funzione di rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano e nella moneta unica”, va al sodo, affermando che “il quantitativo d’oro di proprietà dell’Istituto è frutto di una serie di eventi avvenuti negli oltre centotrenta anni di storia della Banca.”
Insomma, l’oro è dei banchieri e non del popolo italiano, nonostante per un secolo Bankitalia sia stata un’istituzione pubblica. Sarebbe un’appropriazione indebita o addirittura una rapina se lo Stato italiano non avesse prima privatizzato le banche partecipanti e poi rinunciato – come il resto dell’eurozona – alla sovranità monetaria, conferendo alla BCE assoluta indipendenza e una serie di poteri e facoltà che rendono la sovranità nazionale una favoletta creduta per disinformazione. Opportunamente, il deputato Lucio Malan ha presentato un fondamentale emendamento alla legge finanziaria per il 2026 che afferma: “le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano “. Una posizione coraggiosissima, benché di senso comune. Il valore attuale delle “nostre” riserve auree è di almeno 275 miliardi di euro. Una somma che equivale al dieci per cento del (cosiddetto) debito pubblico e al tredici per cento del PIL annuo.




