Discutiamo spesso, anche su queste pagine, di massimi sistemi, fasi storiche, trasformazioni strutturali, tutte cose complicate. Eppure, c’è qualcosa di molto concreto, tangibile e vicino all’esperienza quotidiana di ognuno di noi che, di per sé, rivela immediatamente, a occhio nudo, lo stato della nostra società. Questo angolo visuale privilegiato sui nostri tempi è il sistema sanitario.
La storia del sistema sanitario nazionale è la storia dell’Italia e, come vedremo, la crisi del sistema sanitario nazionale attuale è la nostra crisi, è la battaglia che dobbiamo combattere.
Tra le conquiste della resistenza all’antifascismo inscritte nella Costituzione italiana, il diritto alla salute occupa una posizione centrale, all’articolo 32, il quale stabilisce che “la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”
“Cure gratuite agli indigenti” è un concetto rivoluzionario, lo era allora e lo è oggi. Per comprenderlo, basta rivolgere lo sguardo all’economia più ricca del mondo, la guida dell’occidente democratico, gli Stati uniti d’America. Il Paese con il PIL nominale più alto del pianeta, il centro nevralgico del capitalismo odierno, ha un’aspettativa di vita tra le più basse registrate tra i Paesi OCSE: 78,8 anni a fronte di una media di 81 anni, una mortalità per cause trattabili (statistica OCSE che misura i decessi che potrebbero essere evitati attraverso un tempestivo ed efficace intervento del sistema sanitario o addirittura prevenuti) di 88 decessi ogni 100.000 abitanti, a fronte di una media di 55 decessi. Si tratta di un sistema che esclude circa 27 milioni di statunitensi dall’accesso alle cure perché privi di copertura assicurativa, mentre il 40% è costretto a rinunciarvi a causa dei costi troppo elevati delle prestazioni.
È questo il modello di società che si sta affermando anche in Italia, e questa è la direzione che hanno assunto le scelte politiche dei Governi che si sono succeduti almeno dagli anni Novanta ad oggi, senza soluzione di continuità. Centrodestra, centrosinistra, populisti, fascisti e post-fascisti, tutti uniti nello smantellamento del sistema sanitario inscritto nella Costituzione e conquistato dopo la stagione di lotte degli anni Settanta, quando la legge 833 del 23 dicembre 1978 ha istituito un Sistema sanitario nazionale (SSN) informato ai principi di universalità, equità, solidarietà e gratuità.
Questo servizio pubblico è uno dei pilastri del modello sociale europeo, e con esso, a partire dagli anni Novanta, viene progressivamente messo in discussione attraverso un rapido processo di privatizzazioni e di aziendalizzazione. Tale processo culmina nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione, che frammenta il Servizio sanitario nazionale in una pluralità di sistemi regionali autonomi e, di fatto, in concorrenza tra loro. In questo hummus si creano le premesse per il suo progressivo smantellamento, un processo che ha avuto pieno compimento con la stagione di austerità inaugurata dalla crisi finanziaria di Lehman Brothers: la successione di tagli al sistema sanitario nazionale produrrà quell’arretramento nei servizi essenziali che esporrà il nostro Paese a tutta la violenza della crisi pandemica scatenata dal Covid-19. La sofferenza imposta dall’inadeguatezza con cui il sistema sanitario nazionale ha affrontato la crisi del coronavirus non è bastata a dimostrare che occorreva invertire la rotta, e tornare ad investire su uno dei pilastri del nostro modello di sviluppo.
Il modello statunitense sta arrivando da noi: viviamo oggi in un Paese in cui circa il 10% della popolazione rinuncia alle cure per motivi economici, in cui solo il 40% degli esami e il 35% delle visite specialistiche viene effettuato nei tempi previsti dai protocolli, in cui – secondo i dati della Piattaforma Nazionale Liste d’Attesa del Ministero della salute – occorre attendere fino a 300 giorni per un’ecografia cardiaca, fino a 320 giorni per una mammografia e addirittura fino a 500 giorni per una colonscopia.
Sono le rovine del Sistema sanitario nazionale italiano, costruito in cinquant’anni di lotte e conquiste sociali e progressivamente smantellato in poche decine di anni di furore liberista guidato dalle rigide regole europee dell’austerità fiscale.
Il Governo Meloni, fin dal suo insediamento, ha dimostrato una totale adesione alle ricette liberiste che hanno condannato a morte la nostra sanità. O almeno così pareva fino a poche settimane fa, quando il Governo ha annunciato, nell’ambito del disegno di legge di bilancio per il prossimo triennio, un aumento della spesa sanitaria, che passa da 136,5 miliardi di euro del 2025 a 140,6 miliardi di euro nel 2026. Una svolta positiva?
Così sembrerebbe, ascoltando i proclami del Ministro della salute Schillaci: “La salute dei cittadini è una priorità per questo Governo e lo abbiamo dimostrato anche con la manovra finanziaria 2026, che aumenta in modo significativo il Fondo sanitario. Investiamo per assumere più personale, pagare meglio chi lavora nella sanità pubblica e continuare ad abbattere le liste d’attesa. Il diritto alla salute non è uno slogan, ma un impegno concreto.”
Purtroppo, tali dichiarazioni si scontrano con la realtà dei fatti. Il Governo ha effettivamente aumentato la spesa sanitaria, ma in misura tale da compensare appena l’aumento dei prezzi, che ancora si attesta oltre il 2%, e dunque di fatto non ha realizzato alcun incremento nelle prestazioni sanitarie, limitandosi ad adeguare la spesa sanitaria all’inflazione. In termini reali, cioè in termini di prestazioni sanitarie assicurate ai cittadini e al netto dell’effetto dell’inflazione, la spesa sanitaria italiana resta inchiodata intorno ai 121 miliardi di euro registrati nei primi anni del Governo Meloni, in totale stagnazione. E in effetti la spesa sanitaria resta bloccata intorno al 6,4% del PIL, a fronte di una media europea di oltre l’8%.
Tuttavia, occorre riconoscere al Governo Meloni una certa sensibilità almeno in un ambito del sistema sanitario: i profitti delle grandi multinazionali farmaceutiche. Infatti, nel medesimo disegno di legge di bilancio, viene incrementato il tetto di spesa farmaceutica del Fondo sanitario nazionale. Spieghiamo in poche parole di cosa si tratta: quando la spesa pubblica per farmaci eccede quel tetto, scatta il meccanismo del payback, secondo il quale le aziende farmaceutiche devono rimborsare la metà della spesa eccedente il limite fissato. Dunque, in un contesto di inflazione ancora elevata, l’aumento del tetto imposto dal Governo Meloni non significa affatto che verranno acquistati più farmaci. Piuttosto, significa che le imprese farmaceutiche potranno versare meno payback e dunque vedranno crescere i loro profitti: fanno pagare di più i farmaci, e lo Stato, alzando il limite alla spesa, abbassa la guardia sui prezzi e concede maggiori margini di guadagno sull’acquisto della stessa identica quantità di medicinali.
Se consideriamo i dati del disegno di legge di bilancio, ovvero una spesa sanitaria di 140,6 miliardi di euro, l’aumento del tetto farmaceutico dal 4,4 al 4,6% significa una riduzione del payback dovuto dalle aziende farmaceutiche allo Stato di circa 300 milioni di euro, regalati alle multinazionali del farmaco, mentre le prestazioni sanitarie ristagnano.
Contro questa deriva imposta dalle regole fiscali europee, contro l’asservimento della sanità ai profitti di pochi, contro un Governo che trova miliardi per la corsa al riarmo e taglia posti letto e prestazioni mediche, è fondamentale ribadire che un sistema sanitario nazionale universale, gratuito, equo e solidale rappresenta una linea rossa che non si può oltrepassare, se non si vuole precipitare nella barbarie. È una scelta di civiltà.




