Tre storie di vite spezzate sul lavoro: Raffaella, una camionista di Fondi rimasta paralizzata; Lucia, una vedova con due figli dopo il crollo del cantiere dove stava lavorando il marito Luca; Sandro, un operaio morto in una cartiera toscana. Il documentario dà voce ai sopravvissuti, esplorando l’impatto umano delle tragedie e restituendo dignità alle vittime, trasformandole da numeri a persone.
Ispirato agli articoli del giornalista Marco Patucchi e al libro “Operaicidio”, scritto insieme al magistrato Bruno Giordano, il documentario rende onore e memoria ai morti sul lavoro.
A volte bisogna essere chiari, semplici e diretti. Anche perché non tutti i temi che un documentario può trattare sono ovviamente uguali. Così Luca Bianchini, che ha scritto e montato (con Giovanni Cavallini anche direttrice della fotografia), ha deciso di ridurre al minimo qualsiasi intervento esterno e di ‘finzione’ nel raccontare le tre storie di persone morte sul lavoro nel suo Articolo 1 che, vale la pena di ricordarlo sempre, recita che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Dare dunque voce a chi non ce l’ha più sia come memoria passata ma anche come ammonizione futura, perché siano entrambe viventi.
Come nel libro “Operaicidio. Perché e per chi il lavoro uccide. Le storie, le responsabilità, le riforme”, il documentario va oltre i dati statistici che, drammaticamente, registrano in Italia la media di tre morti di lavoro al giorno, e di un infortunio al minuto, senza contare i casi nascosti del lavoro nero. Perché la scelta fondamentale in questi casi (e su questo ha contato il lavoro del giornalista Marco Patucchi con la sua rubrica on line su La Repubblica “Morire di lavoro”) è quella di focalizzarsi sui singoli casi per raccontare storie che diventano immediatamente universali anche perché passano da chi ha conosciuto le persone morte sul lavoro. Ma c’è anche un altro aspetto decisivo, che è quello di ricordare chi non c’è più e che, appunto, finisce nel computo generale e spersonalizzante delle cosiddette “morti bianche”.




