Due rivendicazioni di molti attuali movimenti italiani di “dissenso” sono l’uscita dell’Italia dalla NATO e la chiusura delle basi americane presenti da decenni sul suolo nazionale, tributo da pagare per la sconfitta nella seconda guerra mondiale (il tentativo della borghesia italiana voltagabbana di salire sul carro dei vincitori con l’armistizio dell’8 settembre 1943, pietra tombale della sovranità italiana, non ci esentò dal pagamento di tale tributo). Tali rivendicazioni sono sacrosante, essendo intollerabile ed umiliante pensare al fatto che la terra in cui viviamo sia sotto occupazione da parte di truppe forestiere in armi, che nei nostri cieli decollino velivoli stranieri portatori di morte, da noi [1] e soprattutto altrove [2], e che la penisola italica venga pericolosamente usata come grande deposito per le armi (anche nucleari [3]) della più grande potenza globale.
Se tuttavia abbondano astio e critiche alla presenza americana in Italia non altrettanto si può dire su un altro tema collegato e sul quale diffusamente si tace: l’imperialismo italiano.
Lo Stato Italiano, stando ai dati ufficiali, dispiega attualmente circa 7.300 suoi militari in 24 paesi [4], dando un enorme contributo attivo a quelle missioni internazionali che non sono altro che operazioni di occupazione e brigantaggio imperialista, retoricamente edulcorate con definizioni come “peacekeeping” o “missioni umanitarie”.
Addirittura alcuni rami delle nostre forze armate sono talmente efficienti, strutturati e spendibili negli interventi esteri da fare scuola al resto del mondo, arrivando persino ad attirare l’invidia della superpotenza guerrafondaia numero uno, come riporta Fabio Mini, generale ex capo di Stato maggiore del comando NATO del Sud Europa e comandante della KFOR dal 2002 al 2003, nel libro “I Guardiani del potere; Eunuchi, templari, carabinieri e altri corpi scelti” (il Mulino, 2014): “…Il connubio tra poteri militari e poteri di polizia contribuisce a rendere l’Italia un paese a <<democrazia imperfetta>>, ma gli Stati Uniti, che si ritengono il paese democratico per eccellenza, ci invidiano proprio l’Arma dei carabinieri. In realtà i militari americani ce la invidiano essenzialmente perché all’estero si nota l’efficacia della doppia natura militare e di polizia interpretata a piacimento anche quando le leggi internazionali non lo consentirebbero. Le polizie militari di molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, hanno giurisdizione soltanto nei confronti e all’interno delle installazioni dei propri militari: non possono permettersi di arrestare civili o d’ignorare giurisdizioni locali. I carabinieri, sempre molto disponibili soprattutto nei confronti dei potenti, usano le loro prerogative nazionali anche all’estero, purché autorizzati dall’autorità militare dalla quale dipendono. Questo porta all’invidia degli americani: i carabinieri fanno per loro ciò che a loro non è consentito…”.
A proposito della benemerita, che pagò un grande tributo di sangue per la sua partecipazione alle operazioni in Iraq, è bene ricordare l’“Operazione Antica Babilonia” ed i vantaggi che da essa ricevette lo Stato Italiano, che in cambio dell’intervento militare ebbe in consegna la città irachena di Nassiriya ed i suoi ricchi pozzi petroliferi, sui quali l’italiana Eni aveva già dai tempi di Saddam espresso il suo interessato appetito [5].
Così come è sempre bene ricordare l’ombra degli interessi nazionali italiani che stavano (e stanno) dietro alle vicende dell’ex colonia somala e che culminarono con la grave guerra civile e l’intervento dell’Italfor nelle famigerate operazioni Ibis I e II (1992-1994), durante le quali alcuni militari italiani si dedicarono a sevizie, torture e crimini di guerra [6].
Si potrebbero citare molti altri casi ed esempi, dalla spartizione del Kosovo in aree di influenza (Kosovo nel quale degli alpini sono stati recentemente feriti mentre contenevano in assetto antisommossa una protesta della popolazione serba[7]) ai traffici legati alla produzione di oppio dell’Afghanistan [8], fino al controllo dei pozzi petroliferi libici e agli interessi legati alla presenza nello strategico Niger, dove gli italiani si sono inseriti militarmente dal 2018. In tutti questi ed in altri casi l’Italia ha giocato il suo ruolo e, seguendo la propria ragion di Stato, ha creato e difeso proprie sfere d’influenza nonché guadagnato grasse quote e favori.
Da questo quadro appena accennato risulta che il nostro paese è da anni complice di un ordine internazionale sì a guida ed egida USA, ma nel quale non è mero suddito bensì anche “stakeholder”. Da tale assetto lo Stato italiano può strappare margini di profitto, accedere a nuovi mercati, godere di certi privilegi (come sedere al tavolo dei “grandi” del pianeta) e avere delle briciole, ottenute da queste rapine perpetrate ai danni dei popoli oppressi, da distribuire al proprio interno, magari sotto forma di merci a basso costo o di metadone sociale (sussidi, welfare ecc.).
Sotto tale prospettiva risulta che i nostri governi, compresi i più recenti, pur sottostando alle regole dettate dal cuore dell’impero (gli USA) hanno seguito gli interessi nazionali, tutt’altro che in conflitto con l’ordine a guida americana vigente ma anzi beneficiari di esso.
Lo stesso sostegno all’Ucraina verrà ripagato all’Italia e alla sua borghesia, nel nefasto caso di una vittoria NATO-occidentale (sulla quale la premier Meloni pare averci scommesso con messianica fiducia [9]), al momento della spartizione della torta ucraina, sulla quale si è già aperta la golosa gara per accaparrarsi i lucrosi lavori di ricostruzione [10][11]. Questo pesante sostegno al regime di Kiev è certamente una grossa e pericolosa scommessa, colma di rischi, ma se azzeccata vedrà il nostro Stato sedere al tavolo dei vincitori per rivendicare la sua fetta, pasto succulento per la grande borghesia nazionale e fonte di briciole per il popolo italiano, da ricompensare per il consenso dato (attivo come passivo) e per la preziosa mansuetudine.
Nonostante questo nella galassia “antisistema” in molti continuano a gridare al mancato perseguimento degli interessi nazionali, quando a mio avviso, pur nei palesi limiti dettati da oltreoceano, questi vengono già perseguiti dai nostri governi, sebbene con forme e modalità diverse da quelle proposte e sostenute dagli accusatori.
A parer mio l’ossessione per gli interessi nazionali, diffusa negli ambienti del “dissenso”, mette in luce il prevalere di una forma mentis votata più o meno inconsciamente alla costante ricerca di pace sociale, di nazionale armonia tra sfruttati e sfruttatori e ad una idealizzazione nei confronti del ruolo dello Stato. Un approccio tra l’altro reazionario ed impotente che molte volte sfocia nella dichiarata nostalgia verso mitizzati “bei vecchi tempi”. I tempi del capitalismo espansivo post seconda guerra mondiale e pre-fase neoliberale (fase che peraltro ora si accinge a terminare in favore di un “capitalismo 4.0”, ossia di un strettissimo e totalitario oligopolio globale), di una prima repubblica che mai potrà tornare (sono cambiati equilibri geopolitici, contingenze storiche e congiunture economiche) o, in casi minori, di tempi ancora più remoti, ossia quelli del “sovranissimo” regime fascista che, in nome degli interessi nazionali, fondò pure un impero coloniale conquistato con il fosgene e l’iprite [12].
L’esistenza di un interesse veramente comune che leghi sfruttati e sfruttatori, anche dentro la comunità-nazione, è però spesso una chimera (disse d’altronde Platone: “non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti”) e inseguirla ossessivamente significa continuare ad accettare un postulato delle classi dominanti che in cerca di pace sociale, consenso e collaborazione spacciano come possibile ed auspicabile il fatto che, dentro le mura ideali della nazione, possano esserci volontà comuni e benigne per tutti.
Opporsi al contributo italiano dato ai piani di conquista occidentali e alle nostre missioni militari, finalizzate a mantenere storici domini neocoloniali o a guadagnarne di nuovi, significa opporsi ad un interesse nazionale, ma è proprio questo che un movimento di reale rottura dovrebbe fare, anche per coerenza ed onestà intellettuale. Se infatti vedere truppe statunitensi scorazzare in casa nostra genera in noi umiliazione e frustrazione, gli stessi sentimenti nutrono i popoli oppressi dalla presenza militare italiana nelle loro terre (tra l’altro sentimenti resi più dolorosi dalle condizioni di durezza e miseria nelle quali essi vertono e che noi, ancora immersi nell’opulento benessere consumistico, non possiamo nemmeno immaginare). Popoli che ora dimostrano di essersi stancati, di voler cambiare rotta (si pensi ai sommovimenti in molte nazioni africane e l’esemplare discorso del nuovo giovane leader del Burkina Faso, Ibrahim Traoré[13]) e di volersi liberare dal giogo neocoloniale, animati da una rinnovata speranza accesasi con il gesto di sfida che la Russia ha rivolto all’occidente il 24 febbraio 2022.
Globalismo e globalizzazione non sono state inaspettate peculiarità degli ultimi decenni quanto un coerente e moderno sviluppo di un sistema economico, sociale e politico votato per natura alla demolizione di confini e barriere di ogni sorta e che ora arriva, alle porte del mondo 4.0 e del grande oligopolio globale, a minacciare gli stessi limiti naturali propri dell’essere umano.
I centri di potere dell’occidente collettivo, di cui l’Italia fa appunto parte sotto comando americano, sono i primi custodi e assi portanti di questo sistema (di cui comunque, si badi, fanno parte anche i BRICS), ed ora come non mai è importante che questi centri di potere ricevano un duro colpo capace di accentuarne la crisi in atto e conseguentemente smuoverne le addormentate popolazioni, chiamate ad opporsi a questo antiumano sistema per non soccombere.
Saper ampliare lo sguardo oltre casa nostra, saper comprendere e tendere la mano agli altri popoli, facendo con essi fronte comune anche a discapito degli interessi nazionali, è oramai d’obbligo in questo mondo globalizzato ed unito sotto il dominio del Capitale, che ha nel mirino non uno, due, tre o cento nazioni (con i loro interessi) quanto ormai proprio l’essere umano in quanto tale.
Porsi contro la NATO e i nostri imperialismi, sostenendo le lotte di liberazione dei popoli delle periferie del mondo, significa sabotare gli Stati più potenti ed influenti del Capitale (tra cui il nostro), che oltre ad opprimere fuori casa opprimono terribilmente anche al loro interno, come palesatosi di recente con le campagne vaccinali coatte, l’instaurazione di regimi di apartheid e la repressione dei “non allineati” (giusto per fare degli esempi freschi). Che questo sabotaggio sia dunque anche una forma di lotta rivolta contro il “nemico in casa nostra” (anche se compatriota), ossia colui che collabora, beneficia ed è socio di un sistema criminale e con il quale noi non possiamo avere autentici interessi comuni.
L’unica prospettiva che credo capace di spezzare le nostre catene è quella di una liberazione portata avanti su scala internazionale da popoli veramente solidali tra loro, unica speranza di salvare le nostre (tutte) culture, identità, tradizioni e la nostra variegata natura umana.
Che questo arduo percorso, da costruire passo dopo passo, inizi lottando contro la NATO e l’imperialismo occidentale, compreso, per quanto sia un interesse nazionale, l’imperialismo tricolore.
Che dunque al grido di “Fuori la NATO dall’Italia” si aggiunga quello di “Via i militari italiani dal resto del mondo”, per una prospettiva di un mondo senza imperialismo, libero dal giogo del Capitale e a misura d’uomo!