In attesa di combattere un incontro al Madison Square Garden, Mikey Flanaghan, ex pugile di origini irlandese tornato a combattere dopo anni di lontananza dal ring, decide di sistemare i conti in sospeso della sua vita. Dalla mattina alla sera, l’uomo attraversa New York ripensando con dolore al passato (l’abbandono forzato della boxe, l’alcolismo, l’incidente che l’ha portato in prigione, la fine del matrimonio…) e incontrando le persone che ama: un amico di famiglia che lo aiutò dopo il suicidio della madre; un amico prete; l’ex moglie e la figlia nel frattempo diventata adolescente; il padre che lo sempre maltrattato. L’incontro sarà per Mikey l’occasione per dare un senso alla sua esistenza…
All’esordio da regista, l’attore Jack Huston, nipote del grande John, ritrova il compagno di set di Boardwalk Empire, il redivivo Michael Pitt, e gli affida il ruolo di un pugile maledetto a cui il destino ha regalato una chance per redimersi.
C’è tutta la retorica del cinema sulla boxe, in Day of the Fight (a cominciare ovviamente dal titolo che riprende il film di Kubrick): l’autodistruzione del campione che ha portato la violenza del ring nella vita privata; il retaggio di un passato familiare che grava sull’anima del guerriero; l’insperata seconda occasione che offre la possibilità del perdono; il rimorso per peccati impossibili da cancellare; il combattimento come testimonianza di un coraggio e una forza indomiti; il mito della caduta, della rinascita e, forse, della salvezza.
In un percorso dal chiaro valore simbolico, in cui di stazione in stazione il protagonista si distacca dalla vita terrena ed entra in una dimensione spirituale, la retorica non è solo narrativa, ma anche visiva, dal momento che Huston gira in un bianco e nero pastoso alla Toro scatenato (a sua volta omaggio al classici come Lassù qualcuno mi ama) e infarcisce il film slow motion, flashback a colori rapidi come ricordi improvvisi, uso massiccio della musica d’accompagnamento e di canzoni indie-folk, tra cui “The Book of Love” dei Magnetic Fields e “Have You Ever Seen the Rain”, eseguita dal vivo da Nicolette Robinson, interprete della moglie di Mikey.
Tutto è ricalcato e greve, in Day of the Fight, come se per il regista aderire al genere del film sulla boxe – com’è noto il più cinematografico degli sport, quello che meglio si adatta alla parabola dell’antieroe in cerca di riscatto – implicasse anche sobbarcarsi tutti i suoi cliché, senza alcuna ironia o senso della misura, e nel finale pure qualche scivolone nel kitsch.
Se qualcosa nel film funziona è, da un lato, il ritratto di una New York fine anni ’80 che da tempo non si vedeva così sporca e disperata (e il lavoro del direttore della fotografia Peter Simonite è onestamente splendido) e, dall’altro, la galleria di personaggi che Mikey incontra nel suo percorso e i loro magnifici interpreti: l’amico di famiglia Steve Buscemi, stanco ma compassionevole; il sacerdote John Magaro, compassionevole e sensibile; l’allenatore Ron Perlman, paterno e severo; il padre Joe Pesci, straordinario protagonista muto dell’unico momento emotivamente intenso del film. La prova di Michael Pitt, invece, per quanto intensa, è forse troppo caricata e prevedibile (volto deformato, movenze sgraziate, brama di vivere negli occhi) per essere sincera e per trasmettere lo stato di prostrazione del personaggio.