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      • Il governo ed i suoi tre padroni

      Il governo ed i suoi tre padroni

      Non si possono servire due padroni, dicono i cristiani, perché l’amore per l’uno ci porterebbe a odiare l’altro. Perché i due padroni vogliono cose inconciliabili tra loro.

      Il Governo Meloni ha trovato un modo davvero singolare di rispettare il precetto evangelico: non si possono servire due padroni, quindi ne serve tre, e lo scrive a chiare lettere nel Documento programmatico di bilancio (DPB) inviato alla Commissione europea lo scorso 14 ottobre. Il miracolo, è proprio il caso di dirlo, ha una sua logica: i tre padroni in questione vogliono cose che si conciliano perfettamente tra loro, guerra, austerità e profitto.

      Il padrone americano chiede soldi per il riarmo, per alimentare quella guerra permanente che serve a puntellare il suo progetto imperialista. Il padrone europeo chiede tagli alla spesa pubblica, per continuare a traghettare il vecchio continente dal modello sociale europeo ad una moderna economia capitalistica orientata al profitto. Il padrone italiano, vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro, si accontenta delle briciole, strappandole ai settori sociali più vulnerabili ed esposti all’inflazione.

      I documenti di finanza pubblica adottati dal Governo Meloni sono interessanti da decifrare perché contengono questa equazione miracolosa che tiene insieme una prospettiva di aumento della spesa militare, in ossequio ai padroni americani, il rispetto dei vincoli di bilancio europeo, in ossequio alle élite di Bruxelles, e qualche mancia per i padroncini italiani, perché le elezioni politiche si avvicinano.

      L’Italia, come tutti i Paesi membri dell’Unione europea, non è libera di articolare la sua politica economica sulla base delle priorità politiche stabilite dal Governo di turno, che sia di destra o di sinistra, ma si è vincolata a limitare la propria azione economica all’interno di una serie di parametri fissati nel Patto di stabilità e crescita, peraltro resto ancora più vincolante nella sua nuova formulazione.

      Questa impostazione ha prodotto 30 anni di politiche di austerità, che hanno accomunato governi di centrodestra e di centrosinistra, e l’attuale governo di destra si pone in perfetta continuità con i Draghi, i Renzi, i Monti e con i Prodi che lo hanno preceduto nel tagliare la spesa sociale e rendere sempre più iniqua la distribuzione del carico fiscale.

      Questo dato politico si coglie facilmente guardando il dato finanziario del saldo primario del bilancio pubblico, che ci dice in buona sostanza se lo Stato mette soldi nell’economia per sostenere l’occupazione e la domanda, spendendo più di quanto incassi con le tasse, oppure se agisce sottraendo risorse all’economia, spendendo per scuola, sanità, istruzione e servizi pubblici meno di quanto incassi con le tasse (realizzando quindi un avanzo primario).

      Dati alla mano, è esattamente dal 1992 (Governo Amato) che l’Italia – governi di centrodestra o centrosinistra – ha mantenuto un avanzo primario del bilancio pubblico fino alla pandemia. Dopo la crisi pandemica, il Governo Draghi ha dato il via al percorso di rientro dal deficit primario che si era accumulato per fronteggiare gli effetti del Covid sull’economia, un percorso che il Governo Meloni ha proseguito con serietà e rigore, riportando l’Italia in avanzo primario già nel 2024, dopo appena un anno di governo.

      Nel DPFP il Governo scrive a chiare lettere che non solo si conferma ma si rafforza l’applicazione delle politiche di austerità, con un avanzo primario che passa dallo 0,9% del PIL registrato nel 2025 all’1,2% nel prossimo anno, su un sentiero di tagli che porterà il saldo primario del bilancio pubblico a sfiorare il 2% nel 2028.

      Il Governo ci sta dicendo che il prossimo anno sottrarrà all’economia circa 25 miliardi di euro: questa la dimensione dei tagli alla spesa sociale e degli aumenti di imposte che l’austerità europea ci impone per il tramite del Governo Meloni.

      Peraltro, proprio per rispettare la disciplina fiscale chiesta dalla Commissione, una parte di questi tagli è stata decisa oggi per riportare la spesa tendenziale (quella che non considera la manovra di bilancio appena approvata in Consiglio dei Ministri, e che oggi sarebbe all’1,7%) in linea con l’1,6% imposto da Bruxelles per il 2026. Inoltre, si badi bene, quando si parla di “crescita” della spesa (pure con questi numeri irrisori) lo si fa sempre in termini di spesa nominale, che cioè non tiene conto dell’aumento dei prezzi (e quindi a numeri apparentemente crescenti corrisponde una minore possibilità di acquistare beni e servizi).

      Con questo vincolo, rappresentato da una traiettoria di crescita massima della spesa primaria fissato da ciascuno Stato membro nel Piano strutturale di bilancio di medio termine, l’Unione europea mette al guinzaglio proprio l’aggregato di spesa che contiene lo stato sociale, i diritti, i servizi essenziali.

      E il Governo Meloni sembra stare molto a suo agio, al guinzaglio.

      Infatti ha approvato, nel Consiglio dei ministri del 17 ottobre scorso, la manovra di bilancio più limitata degli ultimi 12 anni, pari a circa 18 miliardi di euro per il 2026 – meno dell’1% del PIL. Proviamo a chiarire prima quale sia il contenuto e la forma di questa mini-manovra, e poi perché le scelte politiche adottate dal Governo Meloni abbiamo portato con sé, come necessario corollario, uno spazio di manovra così limitato.

      Precisiamo innanzitutto che per il 2026 le nuove misure varate dal Governo sono interamente finanziate da tagli alla spesa e aumenti di imposte: le risorse si tolgono da una parte e si mettono dall’altra, insomma.

      In attesa di conoscere i dettagli della manovra, già oggi sappiamo che su un livello di spesa pubblica complessivo che si attesta oltre i 1.000 miliardi di euro, solamente 2 (due!) aggiuntivi sono stanziati per il sostegno dei salari, e altri 2 (due!) aggiuntivi sono destinati alla sanità, con una spesa sanitaria che resta abbondantemente al di sotto dei livelli degli anni Dieci, quando superava il 7% del PIL.

      Piuttosto, il Governo concentra il grosso della manovra per sostenere i profitti attraverso una pletora di crediti d’imposta (che sono lo strumento più comunemente utilizzato oggi per far rispondere alle richieste delle imprese: Nuova Sabatini, Credito d’imposta ZES e ZLS, Superammortamento), il congelamento di tasse come la plastic tax e la sugar tax e infine la rottamazione delle cartelle esattoriali per agevolare l’evasione fiscale.

      Peccato che il grosso della manovra consista comunque di un ammontare di risorse molto contenuto, inadeguato persino a sostenere i profitti dei padroncini italiani nel turbolento contesto internazionale caratterizzato da un’inflazione ancora molto elevata (e che ha avuto come conseguenza il rialzo dei tassi di interesse, per far pagare ai lavoratori l’inflazione stessa), dal rallentamento delle principali economie europee (in primi della Germania) e dai primi significativi effetti dei dazi USA sulle esportazioni italiane, che hanno iniziato a contrarsi in misura molto rilevante già dal mese di agosto, crollate di quasi un quarto nei confronti degli Stati uniti.

      Dunque resta da capire perché, a poco più di un anno dalle elezioni politiche, il Governo Meloni abbia deciso di partorire il topolino della manovra di bilancio più ridicola degli ultimi lustri.

      E veniamo così al terzo padrone, quella NATO a guida statunitense che ha imposto a tutti i suoi partner un significativo incremento delle spese militari.

      Al riguardo, l’Unione europea ha introdotto un’eccezione all’austerità, una clausola che consente ai Paesi membri che abbiano dimostrato di avere i conti in ordine di porre gli aumenti della spesa militare richiesti dalla NATO al di fuori dei rigidi parametri di bilancio. Insomma, l’Unione europea impone tagli allo stato sociale ma consente, a chi li applica, di aumentare la spesa pubblica che serve a fare la guerra.

      È proprio questa la ragione per cui il Governo Meloni ha deciso di applicare in maniera così rigida i parametri dell’austerità europea per il 2026: i tagli alla spesa sociale e l’aumento delle imposte porterà, secondo gli auspici del Governo, il rapporto tra il deficit pubblico e il PIL al di sotto del limite del 3% indicato dall’Unione europea per individuare il confine tra i Paesi virtuosi e quelli indisciplinati.

      In questa maniera – ecco la scommessa politica del Governo Meloni – l’Unione europea dovrebbe consentire all’Italia, a partire dal prossimo anno, di aumentare la spesa militare come imposto dalla NATO. Il punto è che questa “salvaguardia” si esaurirà a partire dal 2029, quando anche la spesa militare rientrerà nei calcoli del deficit e l’effetto di spiazzamento della spesa sociale sarà ancora più inevitabile.

      Lo smantellamento dello stato sociale imposto con la manovra appena varata serve dunque a liberare, negli angusti margini dell’austerità europea, lo spazio per aumentare la spesa militare su cui si basa la prova di forza internazionale in atto.

      Una scommessa politica sulla pelle dei settori sociali più deboli, in Italia e in Europa, e sulla pelle dei popoli che soffrono le guerre alimentate dall’imperialismo statunitense.

      C’è dunque un filo rosso che lega le grandi mobilitazioni dei giorni scorsi in difesa della Palestina e le lotte contro il progressivo arretramento dei salari e dei diritti dei lavoratori, un arretramento scolpito nei documenti di programmazione economica appena varati dal Governo: è la resistenza di chi si oppone ad un futuro dominato da austerità, guerra e profitto.

       

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