IL GOVERNO MELONI E LA RIFORMA DEL MES: FEDERALISMO COERCITIVO E DIFESA DELLA SOVRANITÀ NAZIONALE
Il 30 novembre 2022 i partiti della maggioranza di governo hanno votato a larga maggioranza una mozione che impegna il governo “a non approvare il disegno di legge di ratifica della riforma del Trattato istitutivo del MES alla luce dello stato dell’arte della procedura di ratifica in altri Stati membri e della relativa incidenza sull’evoluzione del quadro regolatorio europeo” (Parlamento italiano – Camera dei Deputati 2022a).
A questo proposito avanziamo due tesi. La prima è che si è trattato di una decisione giusta, anche se la sua formulazione lascia alcuni margini di ambiguità che andrebbero quanto prima chiariti. La seconda che la posta in gioco in questa decisione sia ben più alta ed importante della semplice revisione di alcune procedure di controllo sull’andamento del deficit e del debito degli Stati membri dell’Unione europea. Esaminiamo distintamente le due tesi che, come emergerà chiaramente, sono tra loro connesse. Nel fare questo riprenderò in sintesi temi ed argomenti che ho avuto modo di sviluppare in modo molto più approfondito in altra sede (Lanzalaco 2022).
Prima è però opportuno un chiarimento. Dietro l’etichetta MES nel dibattito politico e nel discorso pubblico corrente si collocano due differenti referenti che, seppur strettamente collegati, vanno tenuti distinti (European Commission 2022, 19-20). Da un lato, vi è il cosiddetto Fondo salva stati che, istituito durante la crisi dei debiti sovrani (2010-2012) per offrire assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà, è stato riformato all’inizio del 2021. Dall’altro, invece, vi è il Patto di Stabilità e Crescita, cioè l’insieme di procedure di sorveglianza e controllo sui bilanci pubblici e, successivamente, sugli indicatori macroeconomici (inflazione, bilancia dei pagamenti, ecc.) degli Stati membri. Con “riforma del MES” ci si è riferiti a volte al primo provvedimento, altre al secondo. Questa ambiguità emerge anche dal dibattito parlamentare che si è svolto il 29-30 novembre 2022. Sebbene i due dispositivi siano collegati in quanto “il processo di riforma del Mes, (…) va osservato nel contesto più generale di una riforma del sistema di governance dell’Unione europea”, come afferma la mozione presentata dal Movimento 5 Stelle (Parlamento italiano – Camera dei Deputati 2022b), qui ci concentreremo sul provvedimento relativo alla governance economica approvato il 30 novembre 2022.
Una decisione giusta. Il 9 novembre 2022 la Commissione europea ha presentato la proposta di riforma del sistema di governance economica dell’Unione europea (European Commission 2022). Il progetto modifica per alcuni aspetti il Patto di Maastricht del 1992 e il Trattato di Stabilità e Crescita del 1997 – quelli che, per intenderci, imponevano il tetto massimo del deficit e del debito rispettivamente al 3% e al 60% del Prodotto interno lordo (Pil). Questo “vincolo stupido”, così lo definì Romano Prodi (De Ioanna e Degni 2019, 39, nota 1), è stato assai poco rispettato, ha creato palesi tensioni sia tra gli Stati membri che tra questi e le Istituzioni comunitarie e nel tempo ha subito numerose riforme che lo hanno reso vieppiù vincolante per le politiche economiche nazionali (European Commission, 2021).
La tappa finale di questo accidentato percorso riformatore è costituita dalla proposta di riforma del 9 novembre 2022. Senza entrare nei dettagli tecnici, conviene focalizzare l’attenzione sui suoi aspetti salienti. L’obiettivo della riforma è “facilitare una sorveglianza economica efficace (…) che integri la dimensione fiscale, delle riforme e degli investimenti” (European Commission 2022, 1-2). Già da qui emerge chiaramente che si è andati ben oltre al semplice controllo della disciplina fiscale (“tenere i conti in ordine”), invadendo anche il terreno delle riforme strutturali e degli investimenti. Gli strumenti per realizzare questo obiettivo – che verrà poco dopo definito “olistico” (European Commission 2022, 6) – sono essenzialmente quattro.
Anzitutto, l’articolazione degli interventi in una prospettiva di medio-periodo. Vedremo tra poco in cosa consiste concretamente il “medio periodo”, ma già fin da ora emerge come si sia usciti ampiamente da una logica emergenziale, per conferire invece alle istituzioni comunitarie, in particolare alla Commissione e al Consiglio, un ruolo permanente di direzione politica sovranazionale.
Secondo strumento, la differenziazione degli Stati membri a seconda della loro situazione debitoria: c’è il gruppo dei Paesi virtuosi, con un debito inferiore al 60% del Pil, quelli con un debito moderato tra il 60% e il 90% del Pil e, infine, quello dei Paesi con una forte esposizione debitoria oltre il 90% del Pil tra cui, ovviamente, compare l’Italia. È opportuno notare fin da ora come la collocazione di un Paese nell’uno o nell’altro di questi gruppi costituisca un chiaro messaggio ai mercati finanziari sul rischio associato ai titoli pubblici che ognuno di essi emette. E a maggior rischio corrispondono, come noto, maggiori interessi i quali implicano maggiori spese e, come ci insegna il caso greco, un ulteriore indebitamento.
Il terzo strumento, che dovrebbe costituire il nucleo qualificante ed innovatore della riforma, è associare ad ogni Paese, a seconda della sua situazione debitoria, un percorso nazionale approvato dalla Commissione e dal Consiglio per garantire il rispetto dei vincoli di bilancio. Alla regola in vigore che impone a tutti gli Stati membri un rientro annuo del debito del 5%, si dovrebbero sostituire dei piani di risanamento ritagliati sulle caratteristiche di ogni singolo paese: “i piani nazionali di medio-termine dovrebbero assicurare un percorso di riduzione del debito attraverso un graduale consolidamento, riforme e investimenti” (European Commission 2022, 8).
Alcuni organi di stampa hanno interpretato questa come maggiore flessibilità, preferibile alle rigidità delle regole in vigore. Si tratta di una interpretazione benevola e, in ultima analisi, fuorviante in quanto, il “vincolo stupido” – deficit al massimo del 3% e debito del 60% del Pil – rimane inalterato viene solo “concesso” di realizzarlo gradualmente, sotto la guida e il controllo della Commissione, seguendo delle politiche di risanamento, o meglio di austerità, conformi alle esigenze di ogni Paese.
Vediamo, quindi, in cosa consistono questi percorsi differenziati (European Commission 2022, 12). I Paesi con un debito inferiore al 60% debbono presentare un piano che garantisca che il loro deficit non supererà nei successivi 10 anni – si inizia a capire in cosa consiste il “medio periodo” – il 3% del Pil. Si tratta di una norma curiosa e inquietante al tempo stesso: anche i Paesi “virtuosi” diventano oggetto di controllo e sorveglianza. Da qui emerge chiaramente che obiettivo della riforma non è far tenere i “conti in ordine” agli Stati membri, bensì condizionare stabilmente e in modo invasivo le loro politiche economiche al fine di farli convergere verso lo stesso modello di sviluppo. Ma proseguiamo.
I Paesi con un debito maggiore del 60% ma inferiore al 90% debbono assicurare che il loro debito nei successivi 10 anni seguirà “plausibilmente” – la vaghezza del termine dà ampio spazio alla discrezionalità nel giudizio – una traiettoria discendente, mantenendo comunque il vincolo del 3% di deficit sul Pil.
Infine, i Paesi con una esposizione debitoria superiore al 90% debbono presentare un piano di risanamento di 4 anni, rinnovabile per altri 3 (e siamo a 7 anni di “medio periodo”), in cui vengono specificate dettagliatamente le misure fiscali, le riforme e gli investimenti pubblici che si intendono effettuare. La Commissione, non solo approva il piano, ma ne controlla la puntuale esecuzione con relazioni annuali in cui vengono segnalate eventuali inadempienze (European Commission 2022, 15). Anche qui due brevi notazioni, necessarie in quanto è esattamente questa la prospettiva futura per l’Italia se passa questa riforma. In primo luogo, quello che si prospetta per i Paesi “indisciplinati” è un vero e proprio commissariamento, praticamente identico ai Memorandum imposti alla Grecia. In secondo luogo, ogni relazione annuale, anche solo blandamente critica, costituisce un messaggio che può scatenare il panico sui mercati, penalizzando ancor di più i paesi già in difficoltà finanziarie. Insomma, la nuova governance dell’economia europea proposta dalla riforma sembra essere più che un meccanismo per evitare le crisi, un dispositivo per generarle. E questo, si noti, vale anche per la riforma del Fondo salva stati approvata nel 2021, che adottando la stessa logica, ruota intorno alla distinzione tra differenti linee di credito (Lanzalaco 2022, 434).
E qui passiamo al quarto strumento. Qualora questi meccanismi di sorveglianza (termine che ricorre ben 36 volte in 27 pagine) falliscano, scattano quelli di enforcement (termine utilizzato 20 volte), cioè di imposizione e rispetto dei piani di rientro. Quello che era stato concesso sul piano della (presunta) flessibilità, viene tolto quando si passa alle misure disciplinari. “Una più forte imposizione (enforcement) ex post dovrebbe essere la necessaria controparte di un meccanismo di sorveglianza basato sul rischio che concede agli Stati membri una maggiore libertà di azione di stabilire i loro percorsi di aggiustamento” (European Commission 2022, 16-17).
Insomma, la Commissione dice agli Stati: voi siete liberi di decidere, sotto la nostra guida, in quanto tempo rispettare i vincoli, che noi vi abbiamo imposto, ma se non li rispettate andate incontro a gravi sanzioni, stabilite da noi. Più che di sanzioni, a dire il vero, si tratta di veri e propri interventi punitivi (European Commission 2022, 17). Le sanzioni pecuniarie vengono ridotte, non per magnanima benevolenza, ma per renderle realisticamente comminabili in quanto la loro attuale consistenza le rende minacce poco credibili. Possono poi subentrare sanzioni reputazionali (sic!), consistenti in una sorta di ammenda pubblica dei ministri del Paese inadempiente di fronte al Parlamento europeo. Infine, se non vengono rispettati i vincoli della condizionalità, cioè non vengano attuate misure efficaci per ridurre il deficit, scatta la sospensione dei finanziamenti comunitari quali i Fondi strutturali o il Fondo di rinascita e resilienza. L’euro, attraverso l’erogazione o la sospensione degli “aiuti” finanziari, è quindi il meccanismo disciplinatorio, per dirla con Foucault, di cui si avvalgono le Istituzioni europee per imporre le loro politiche attraverso la condizionalità politica.
Il progetto di riforma ha suscitato numerose perplessità da varie fonti e ben poche note di plauso. In alcuni casi sono stati rivolti appunti a specifici passaggi tecnici della riforma (Messori 2022, Minenna 2022). In altri, invece, sono state rivolte critiche radicali ed è stato vivamente consigliato di non aderire alla riforma (De Romanis 2022, Piga 2022).
I punti su cui vertono queste critiche radicali sono essenzialmente tre. In primo luogo, il Patto di Stabilità e crescita in vigore tutto sommato ha funzionato, come ammette lo stesso documento della Commissione (European Commission 2022, 3-4), per quale motivo riformarlo? Secondo punto, l’Italia rientra sicuramente tra i Paesi molto indebitati e la “proposta di riforma rischia di mettere nei guai il nostro paese, soprattutto a causa della disattenzione con cui è stata accolta” (Giro 2022, 12). Approvarla significherebbe sancire il nostro commissariamento, assoggettando le nostre politiche economiche e sociali alle valutazioni della Commissione per un periodo minimo di 4 anni estendibile a 7. Si verrebbe a creare sostanzialmente un regime di “austerità permanente” al quale sarebbe impossibile sottrarsi, date le pesanti sanzioni previste nel caso di inadempienze (la Repubblica 2022). Infine, è stato fatto notare come gli interventi comunitari previsti dalla riforma essendo estremamente invasivi, lascerebbero minimi spazi di manovra al governo che diventerebbe semplice esecutore di decisioni prese da altri.
Se a queste motivazioni, totalmente condivisibili, aggiungiamo la discrezionalità delle valutazioni della Commissione e l’incertezza che questa può generare sui mercati, la riforma è sicuramente da respingere. Cosa che il governo Meloni ha saggiamente fatto il 30 novembre 2022 alla Camera dei Deputati.
Dove la posizione del governo è invece criticabile è nel tono “attendista” e dilatorio che emerge dalle conclusioni della mozione approvata dai partiti di maggioranza. La mozione afferma, lo ricordiamo di nuovo, che “oggi, diciassette su diciannove Stati membri hanno ratificato gli accordi e depositato i relativi strumenti di ratifica presso il Segretariato generale del Consiglio dell’Unione europea. Germania e Italia non hanno ancora completato i rispettivi iter nazionali; le modifiche al Trattato per entrare in vigore richiedono che tutti gli Stati membri procedano alla sua ratifica; in Italia la procedura prevede la deliberazione del Consiglio dei ministri del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica e la successiva approvazione parlamentare ai sensi dell’articolo 80 della Costituzione” e quindi la Camera dei Deputati “impegna il Governo a non approvare il disegno di legge di ratifica della riforma del Trattato istitutivo del MES alla luce dello stato dell’arte della procedura di ratifica in altri Stati membri e della relativa incidenza sull’evoluzione del quadro regolatorio europeo” (Parlamento italiano – Camera dei Deputati, 2022a).
Da queste ultime parole, tutt’altro che chiare, sembra che la maggioranza – dopo aver dato una chiara indicazione politica, cioè di non approvare il testo della riforma – vincoli il suo comportamento futuro alle decisioni della Germania e della sua Corte costituzionale. Sappiamo che questa era la posizione di Mario Draghi ed è anche quella dell’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze, il leghista Giancarlo Giorgetti (Ciriaco 2022, Ducci 2022). Non è chiaro se sia anche quella del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del suo partito Fratelli d’Italia.
Questa ambiguità va sciolta al più presto per due ragioni. La prima è evidente: non può un partito che ha il sovranismo nel suo DNA, vincolare le proprie scelte politiche alle decisioni di un altro Stato. Soprattutto quando è in gioco una decisione che, come abbiamo visto, mette chiaramente a repentaglio l’interesse nazionale. Quindi, il rifiuto della riforma dovrebbe essere definitivo, a prescindere da quello che farà la Germania e dal pronunciamento della sua Corte costituzionale.
La seconda ragione è ancora più importante in quanto riguarda la reale posta in gioco nella riforma del Mes che, ripetiamo quanto detto all’inizio, va ben oltre la sostenibilità del debito e la solidità delle finanze pubbliche degli Stati. Il progetto di riforma del Mes proposto il 9 novembre 2022 non è nato dal nulla, non è una estemporanea invenzione della Commissione, ma è in perfetta continuità con il disegno politico-istituzionale che dalla crisi greca in poi guida le élite europee. Con il pretesto di arginare la crisi greca e di salvare l’euro si è inaugurata la nuova governance delle politiche economiche e sociali – dal Fiscal compact al Semestre europeo fino al nuovo Mes – e il processo di integrazione europea ha assunto sempre più i connotati di una forma di federalismo coercitivo (Lanzalaco 2022, 385-395).
Il concetto di federalismo coercitivo è stato utilizzato per connotare alcune trasformazioni paracostituzionali – cioè a costituzione invariata – nel federalismo negli Stati Uniti e in Australia. In sintesi, il federalismo coercitivo consiste nella centralizzazione dei processi decisionali di pertinenza degli Stati presso il governo federale che così facendo riesce a determinare le politiche pubbliche in aree che formalmente sarebbero invece di competenza degli stati nazionali. Questi diventano così delle semplici agenzie amministrative del governo federale, con il conseguente annullamento della sovranità politica dei singoli Stati – non a caso negli USA è stato ampiamente riveduto – e un palese deterioramento della qualità della democrazia a livello nazionale.
La riforma del Patto di Stabilità e crescita proposta il 9 novembre 2022 si inserisce perfettamente in questo disegno di federalizzazione dell’Unione europea. La sua approvazione richiede l’unanimità, cioè il parere favorevole di tutti i 19 Stati membri. Ponendo il proprio veto definitivamente, cioè a prescindere da quello che farà la Germania, l’attuale governo ha la possibilità di imprimere una svolta alla storia politico-istituzionale dell’Europa, bloccando il progetto di federalismo coercitivo e salvaguardando quello che resta della democrazia e della sovranità nazionale. Giorgia Meloni saprà cogliere questa opportunità?