George Orwell morì pochi mesi dopo la pubblicazione di Nineteen Eighty-Four. Non ha quindi mai dovuto vivere la distopia da lui stesso evocata, ma probabilmente sarebbe rimasto sorpreso dal modo in cui, in particolare, l’Unione Europea sta realizzando il suo incubo in questi giorni. La disumanizzazione nel mondo totalitario di 1984 ci sta ora investendo sotto forma di protocolli e regole infinite sotto la bandiera della “sicurezza”, dell’‘inclusione’ e della “fiducia”.
Il cuore pulsante della realtà politica di 1984 è il Ministero della Verità. Non si tratta di un semplice ufficio di propaganda, ma di una fabbrica che crea una realtà completamente nuova. Il protagonista Winston Smith lavora lì per “rettificare” vecchi articoli, modificare statistiche, rimuovere foto e riscrivere la storia. Tutto ciò che non è in linea con la politica del Partito scompare nel famigerato “buco della memoria”: un pozzo verticale che convoglia il contenuto contestato verso i forni di distruzione del Ministero. Il passato viene così cancellato e sostituito da nuove verità. Il Partito non mente: ricrea la realtà.
“Chi controlla il passato controlla il futuro”, scrive Orwell. “Riscrivendo continuamente il passato, i cittadini perdono la capacità di distinguere la verità dalla menzogna e diventano sempre più dipendenti dal Partito”.
Eric Arthur Blair scrisse il suo capolavoro con il suo pseudonimo di scrittore George Orwell in quasi un anno, dall’inverno del 1947 all’autunno del 1948, sulla remota isola scozzese di Jura, malato, tossendo sangue sopra la sua macchina da scrivere, una classica Remington, mentre figurava già nei fascicoli dei servizi segreti MI5 dal suo ritorno dalla Spagna, dove negli anni ’30 aveva vissuto la violentissima guerra civile spagnola. Lì aveva visto come i suoi compagni scomparivano, come i giornali venivano riscritti, quanto fossero spietate sia le forze comuniste che quelle fasciste. Ma vide anche come a Londra e Washington i servizi segreti si occupassero di propaganda e di esperimenti psicologici, e come i fatti venissero manipolati dal dipartimento di propaganda della BBC, dove lui stesso aveva lavorato. Previde che dopo la seconda guerra mondiale quella macchina non sarebbe venuta solo dall’Est, ma anche dall’Occidente stesso, e che sarebbe stata sempre più rivolta contro la propria popolazione. Si rese conto che quel totalitarismo non si sarebbe basato tanto su carri armati o figure alla Hitler, quanto su tecniche sottili e malvagie: operazioni psicologiche che non reprimono le masse, ma le condizionano.
Orwell spiegò le sue intenzioni in lettere, saggi e discorsi radiofonici, ma non riuscì a impedire che il suo capolavoro, dopo la pubblicazione nel 1949, fosse immediatamente strumentalizzato dalla politica. La destra lo utilizzò come pamphlet anticomunista, la sinistra lo interpretò come una critica al fascismo. Il termine “orwelliano” divenne popolare e fu usato avidamente per identificare e combattere le tendenze totalitarie, soprattutto all’interno del comunismo. Ma Orwell, che si considerava un socialdemocratico, non si concentrava su una particolare corrente politica. Metteva in guardia da qualsiasi sistema che volesse manipolare il linguaggio, l’informazione e la storia, perché, come affermava: “Non appena un potere è in grado di farlo, ogni colore politico perde di significato”. Per Orwell il totalitarismo è un sistema, non un’ideologia. Nelle sue parole: “Un sistema che non lascia spazio all’umanità. Non vuole solo obbedienza, ma ridurre l’uomo stesso a un ingranaggio che gira di sua spontanea volontà, e ci riesce rendendo il nostro modo di pensare e di parlare così omogeneo da rendere quasi impossibile qualsiasi deviazione”.
È quindi ironico che oggi siano proprio le istituzioni progressiste – dalle commissioni europee alle università e agli istituti di ricerca – ad aver costruito una forma moderna del Ministero della Verità. Sono così concentrati sul “pericolo della destra” da essere ciechi di fronte alla costruzione del potere tecnocratico di cui essi stessi fanno parte.
Il Ministero della Verità in 1984 non è una macchina propagandistica che cerca di convincere le persone, ma un apparato che le confonde, con l’obiettivo di far loro credere tutto ciò che il Partito vuole. Questa è l’essenza di ciò che nel libro viene chiamato “doublethink”: la capacità che ogni cittadino deve avere di ritenere vere due cose contraddittorie allo stesso tempo. Gli slogan che il Partito martella – “La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza” – sono strumenti per imporre la docilità. All’inizio Winston Smith sa ancora che sta mentendo quando falsifica i dati, ma col passare del tempo, con suo grande sgomento, non ricorda più quale fosse la verità originale. Per poter continuare a funzionare, impara a credere contemporaneamente a due verità contraddittorie. Ma anche questo non è abbastanza per il Grande Fratello. Nella sala delle torture, la Camera 101, la sua ultima resistenza crolla e impara ad amare il Grande Fratello. Il suo desiderio di sicurezza si rivela più forte delle sue convinzioni. Il messaggio di Orwell è che il potere diventa incontrollabile quando si insedia nell’animo delle persone, così che queste non si rendono più conto che i loro pensieri sono guidati dall’esterno.
I meccanismi che spezzano Winston Smith, il doppio pensiero, la pressione del gruppo, l’autocensura, esistono oggi in forme così civili che sempre meno persone li riconoscono. Il telescreen del romanzo è ora uno smartphone che noi stessi consultiamo volontariamente centinaia di volte al giorno. Il Grande Fratello non è più una persona, ma la somma dei sistemi in cui riversiamo i nostri dati più intimi, le nostre paure e i nostri desideri.
Uno strumento importante con cui i detentori del potere in 1984 condizionano i loro sudditi è il linguaggio. Anche il potere moderno opera restringendo il nostro vocabolario, attraverso una terminologia politicamente corretta, codici accademici e quadri morali imposti con il pretesto della sicurezza e del buon costume. Le università prescrivono codici di inclusione e uso del linguaggio. Chi non si conforma viene cancellato. Il Democracy Shield introdotto questo mese dalla Commissione Europea rientra in questo schema, così come la richiesta dei media mainstream di un controllo più severo da parte del governo sulla “fornitura di informazioni affidabili”. Si tratta di tentativi di centralizzare il flusso di informazioni e di mettere a tacere le voci dissidenti.
Non solo l’UE e i media cercano di imporre la propria verità, ma anche le grandi aziende tecnologiche con i loro sistemi di intelligenza artificiale. Modelli con centinaia di milioni di utenti funzionano sempre più spesso come una sorta di confessori digitali, dove le persone depositano le loro paure, i loro dubbi, le loro opinioni e persino i loro pensieri più intimi. Ma gli stessi sistemi controllano la qualità delle informazioni, riformulano il linguaggio e determinano quali punti di vista vengono rafforzati o filtrati. Forse è una fortuna che questi due gruppi stiano ora lottando per il controllo dello spazio informativo. Durante il periodo del Covid, il governo e le grandi aziende tecnologiche hanno collaborato per la prima volta in modo esplicito: i governi hanno determinato la narrativa desiderata e le piattaforme hanno adattato i loro algoritmi e le loro politiche di moderazione di conseguenza. Ciò ha creato una visione orwelliana in cui era possibile una sola narrativa.
Nel 1984 Winston dice alla sua amante clandestina Julia: “Vivi nella verità e il sistema inizierà a vacillare”. Oggi questo è più difficile che mai, perché la maggior parte delle persone non sa nemmeno più di vivere in una menzogna. Dopo decenni di influenza sottile, la grande massa ha perso la sua capacità di pensare in modo autonomo e implora la prossima iniezione di “informazioni affidabili”. Questo è forse l’aspetto più preoccupante: il nuovo totalitarismo sembra così ragionevole che nessuno si accorge più che siamo entrati nella Stanza 101 già da tempo.




