Holly è una studentessa di Fisica che ritiene di non piacere a nessuno, men che meno a se stessa. Lavora presso una pista di pattinaggio, si relazione agli altri proponendo piccoli ricatti per ottenere piccoli favori, e non si fida di anima viva. Un giorno si imbatte in Arabella, una bambina che le assomiglia fisicamente e che ha un pessimo rapporto con il padre, scrittore di successo ma affetto dal complesso di non essere Jonathan Franzen. Arabella fa immediatamente leva sul senso di immedesimazione che Holly prova verso di lei, le dice di chiamarsi anche lei Holly, e la giovane donna si convince che l’universo le abbia dato una seconda possibilità di rivivere (meglio) la propria vita. Ma le cose non andranno secondo i suoi piani, e la sua fuga in avanti rischierà di dirigerla verso l’abisso.
Alla sua seconda regia e sceneggiatura dopo Amanda, Carolina Cavalli scrive e dirige Il rapimento di Arabella come il tentativo di una giovane donna borderline di riscrivere il proprio passato, incarnando uno smarrimento generazionale che anagraficamente le appartiene, e dando voce ad un dolore esistenziale riconoscibile.
Ma il problema è una forma filmica eccessivamente debitoria del cinema indie americano: durante tutta la messinscena ci si aspetta di veder spuntare Harry Dean Stanton, si respira un’aria da Sundance Institute e si intravvede in filigrana il lavoro di autori come Sean Baker, Jonathan Dayton e Valerie Faris, il primo Wes Anderson e tutte le Coppola.
Molti personaggi si assomigliano fra loro, o assomigliano a qualche icona indie: uno per tutti il già citato poliziotto (ben interpretato da Marco Bonadei) che pare un sosia di Nick Cave, nonché la versione adulta del bambino Topper che Arabella incontra lungo il suo percorso. Cavalli ha una mano felice di regia, ma la messa in scena è eccessivamente (e talvolta inutilmente) artificiosa, così come la sceneggiatura è competente dal punto di vista “tecnico” ma troppo concentrata sulla sua “quirkiness”. La formazione di Cavalli comprende relazioni internazionali, come quella con il regista Babak Jalali (qui in veste di montatore), in una sorta di factory che è una bellissima idea di cooperazione artistica globale, ma rischia di schiacciare l’individualità dell’autrice. Anche il casting di Chris Pine nel ruolo di Oreste, il padre di Arabella, uno scrittore italiano, appare più un tributo alla distribuzione americana che una reale necessità creativa.




