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      • Imperialismo del dollaro: drenare ricchezza dal resto del mondo per continuare a comandare

      Imperialismo del dollaro: drenare ricchezza dal resto del mondo per continuare a comandare

      Recentemente sulla prima pagina del Sole24ore è stata messa in dubbio la sostenibilità del debito pubblico statunitense, ossia la capacità del governo di onorare i pagamenti dei titoli di debito emessi dal Tesoro (1).

      La notizia viene da una indagine rivolta a 40 Banche centrali di tutto il mondo, la UBS Asset Management’s Reserve Manager Survey. Più precisamente, il 47% dei rispondenti ritiene possibile, in futuro, uno scenario di ristrutturazione del debito pubblico americano. Per ristrutturazione si intende la più o meno ampia insolvenza sul debito pubblico.

      Non si tratta di una notizia da poco. Secondo le parole del Sole24ore sarebbe “un evento catastrofico, senza precedenti, che avrebbe ripercussioni devastanti per il mondo intero” (2) . Perché sarebbe così grave? Per rispondere dobbiamo ricordare che il dollaro è la valuta di scambio commerciale e soprattutto di riserva mondiale. Il debito pubblico statunitense, essendo in dollari, assume un ruolo centrale nell’economia mondiale, dal momento che è usato come riserva da organismi ufficiali, come le banche centrali di tutto il mondo, ma anche da organismi quasi e non ufficiali. Se il debito non venisse onorato, anche solo in parte, verrebbe meno la fiducia negli Usa e quindi verrebbe minato lo status di riserva del dollaro. Questo creerebbe una grave instabilità a livello finanziario mondiale e finanche una grave crisi generale.

      Il debito americano, cioè i suoi titoli di stato, è da lungo tempo considerato un investimento sicuro, anzi l’investimento sicuro per eccellenza, specie nei periodi di crisi. Sulla capacità degli Usa di onorare il loro debito si fonda non solo la stabilità finanziaria mondiale, ma anche il dominio economico e soprattutto valutario degli Usa. Grazie al fatto che il dollaro è valuta di riserva mondiale gli Usa fino ad oggi hanno potuto finanziare un sempre più grande debito pubblico.

      La situazione sta diventando, però, sempre meno sostenibile. In primo luogo, perché il debito pubblico è cresciuto fino ad arrivare alla cifra stratosferica di 36,22 trilioni di dollari, il che significa, visto che il Pil statunitense è di 29,18 trilioni, il 124% sul Pil. In secondo luogo, per le scelte dell’amministrazione Trump. Il magnate newyorkese aveva promesso tagli alle imposte, finanziandoli con tagli alle spese pubbliche, che erano stati demandati a Elon Musk, messo a capo del “Doge”. Il bilancio federale Usa, però, non è stato ridotto come Musk prospettava, tanto che il magnate ha dato le dimissioni dal “Doge”.

      I tagli si sono scaricati su alcune migliaia di dipendenti statali licenziati e sui programmi sanitari e di assistenza per i più poveri, ma non hanno intaccato le voci più importanti, come quelle per la difesa, che, secondo le dichiarazioni iniziali di Trump, si sarebbero dovute ridurre del 30% nel giro di pochi anni e che, invece, cresceranno nel 2026 fino a 1000 miliardi di dollari. I tagli alle tasse, in particolare a quelle sul capitale, dovrebbero, secondo Trump, dare una spinta all’economia americana. Ma, non appare chiaro come Trump intenda finanziare tali tagli.

      A questo punto, entra in ballo l’altro grosso inciampo dell’economia statunitense, il sempre maggiore deficit commerciale con l’estero.

      Infatti, secondo Trump, il deficit commerciale è provocato dalla sopravvalutazione del dollaro verso le altre valute, che rende per gli statunitensi più economiche le importazioni e più costose le esportazioni. Anche la deindustrializzazione di tanta parte degli Usa dipende, secondo Trump, dalla sopravvalutazione del dollaro. Ora, normalmente una valuta dovrebbe adattarsi all’andamento della bilancia commerciale, rafforzandosi quando la bilancia è positiva e indebolendosi quando è negativa, come sarebbe nel caso degli Usa. Allora, perché il dollaro è sopravvalutato? Perché è la valuta di riserva mondiale.

      A questo proposito, Stephen Miran, che è l’economista di riferimento di Trump, individua due strumenti per ridurre il deficit commerciale e reindustrializzare gli Usa. Il primo è l’introduzione di dazi (3).

      Questi avrebbero una doppia funzione. Da una parte, scoraggiare le importazioni e, dall’altra parte, essendo i dazi una tassa, garantire agli Usa entrate sufficienti per finanziare il loro debito e mantenere la promessa di riduzione delle imposte. Il secondo strumento è rappresentato dalla svalutazione del dollaro.

      Questa permetterebbe agli Usa di scaricare sugli altri paesi avanzati e alleati, come sta del resto accadendo a proposito dei dazi, il peso dei costi per rafforzare l’economia e la manifattura statunitense. È quello che accadde nel 1985 con gli accordi del Plaza, quando alcuni dei principali paesi avanzati accettarono una svalutazione controllata del dollaro. Risultato di quella operazione fu la frenata dell’economia giapponese che passò da uno sviluppo molto forte a una lunga fase di stagnazione.

      Ma la politica dei dazi di Trump presenta due tipi di incognite. In primo luogo, non è detto che i dazi assicurino le ingenti entrate fiscali che Trump si aspetta. In secondo luogo, il modo brutale in cui è stata impostata, ha provocato reazioni negative da parte del capitale finanziario statunitense e mondiale, che si sono tradotte in un calo delle borse di Usa e Europa, in un aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato Usa (il costo degli interessi ha superato i 1000 miliardi annui (4), e nella svalutazione del dollaro verso le altre valute del 13% dall’inizio dell’anno (5).

      Trump ha dovuto così fare parzialmente marcia indietro sui dazi generalizzati annunciati ad aprile. La svalutazione del dollaro presenta due aspetti. Il primo, positivo dal punto di vista di Trump e Miran, consiste nel fatto che la svalutazione del dollaro rende più costose le importazioni e più economiche le esportazioni americane. Il secondo, negativo, è che l’indebolimento del dollaro potrebbe mettere in discussione il suo status di valuta di scambio e di riserva internazionale e con esso l’attrattiva del debito pubblico Usa agli occhi degli stranieri.

      Quest’ultima è una questione controversa. Infatti, sempre nella citata indagine dell’UBS, il 79% delle banche centrali ritiene che il dollaro non perderà lo status di valuta di riserva nei prossimi anni. Le banche centrali, che sono lente nel modificare la composizione dei loro portafogli, ritengono di non avere valide alternative al dollaro “anche se vi sono chiari segnali di diversificazione verso altre valute, con l’euro come principale beneficiario” (6). Del resto, le riserve in dollari detenute dalle banche centrali sono passate dal 72,7%, il massimo del 2008, al 57,7%, il minimo del 2025 (7).

      Quindi, sintetizzando, la scommessa di Trump è quella di ripetere quanto fatto dagli Usa con gli accordi del Plaza nel 1985, ossia drenare ricchezza dal resto del mondo e in particolare dai loro alleati, attraverso i dazi e la svalutazione del dollaro, non dimenticando, però, l’imposizione di un aumento delle spese militari ai Paesi della Nato, che si tradurranno nel finanziamento dell’industria bellica statunitense.

      Tutto questo – ed è una questione fondamentale-, senza mettere in discussione lo status di riserva del dollaro e l’appetibilità dei titoli di stato americani. Una eventuale parziale ristrutturazione del debito pubblico statunitense rientrerebbe in questa strategia.

      Del resto, la svalutazione del dollaro e l’aumento dell’inflazione rappresentano dei modi per ristrutturare surrettiziamente, riducendone il valore reale, il debito pubblico statunitense.

      In questo modo, sarebbe possibile ristrutturare il debito, evitando lo scenario potenzialmente catastrofico evocato dal Sole24ore. In pratica, si tratterebbe di niente altro che dell’ennesima manifestazione del potere dell’imperialismo valutario statunitense, basato sul potere del dollaro, di drenare ricchezza dal resto del mondo.

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