Riportiamo qui, in ‘bella’ come si soleva dir un tempo, le riflessioni a caldo, solamente verbali, di un nostro lontano conoscente, spirito arguto e personaggio outsider giacché ebbe il privilegio sin a poco tempo fa di svolgere una professione, anticamente appellata come ‘piazzista’, ma che gli dette il quasi unico privilegio di scorrazzare in lungo ed in largo la Penisola italica, procacciandosi la pagnotta per sbarcar il lunario ed allo stesso tempo acquisendo una invidiabile, profonda, conoscenza dell’Animus intimo del nostro popolo.
Questo fu dovuto al fatto che il nostro personaggio fu tra i primi ad offrire una mercanzia rara quanto preziosissima e delicatissima: protesi ossee di fibra di carbonio. Questa particolare mercanzia gli permise di affacciarsi per così dire su una ‘terrazza’, sorta di ‘belvedere’ panoramico, più unico che raro nel panorama italico. Il perché è presto detto: la merceologia che propagandava, piazzava appunto, costituiva una sorta di autentico passepartout a destra e manca, al Nord quanto al Sud, tra gli sfortunati più miseri quanto, alla stessa stregua, tra gli abbienti più fosforescenti, dacché l’accidente, la sfortuna, l’incidente umano, purtroppo, non faceva e non ha mai fatto distinzioni di sorta. Stanco sebbene felice d’aver concluso il suo iter professionale ultra-decennale (era partito col lavoro nel 2ndo Dopoguerra) a chi gli chiedeva cosa aveva ‘portato a casa’ dopo quella lunga carriera, a parte le prebende del caso, rispondeva risoluto che aveva avuto una grandissima occasione, forse più unica che rara, di ‘leggere’ immergendosi profondamente sotto la scorza dell’animale umano italico come se fosse stato un entomologo in un vivaio affollato di insetti e simili. Siccome fu un racconto regalatoci noi ve lo (ri)raccontiamo intonso, così come lo abbiamo ricevuto, nel senso che ambasciatore in genere non dovrebbe portar pena.
Chi avesse chiesto al nostro figuro una descrizione sintetica sebbene non grossolana, icastica insomma, quasi a mo’ di slogan, del vero volto del Popolo Italico si sarebbe sentito rispondere che quest’ultimo gli ricordava il lazzo che vedeva contrapponentesi Epicuro ed Epitteto ove il secondo tacciava il primo in questa guisa: ʺQuesta è la vita che secondo te è apprezzabile: mangiare, bere, accoppiarsi, andar di corpo e russareʺ (libro II, Capitolo dei Discorsi, Epitteto). Chi non fosse azzittito, ammutolito all’istante dinanzi ad un giudizio così sprezzante, tranchant, così impietoso e tracotante del carattere, della Stimmung della stirpe italica ed incalzasse ulteriormente il Nostro invitandolo a chiosare, a svolgere, a dipanare di più il tema, avrebbe avuto inizialmente punto soddisfazione ma con sua grossa sorpresa, nell’immediato prosieguo sarebbe stato invero travolto da una vera e propria alluvione, tracimazione, di spiegazioni, di glosse, di esempi, di aneddoti che in qualche modo, a sua detta, ‘sostenevano’ e confermavano la stramba tesi del Nostro. Quindi scusandoci col lettore addossiamo ad onor del vero tutta la colpevolezza di prolissità alla immane verbosità del Nostro che dire incontenibile è dir nulla. Il lettore se avrà l’ardire di seguirci sino in fondo giudicherà da lui se sorbire questa filippica nazional-popolare, allo stesso tempo amara cicuta, avrà avuto senso o meno. Al lettore il rischio totale di addentrarsi in questa via senza ritorno alcuno. Inutile assai dire che al medesimo spetta l’onere di trovar col lumicino degno di un novello Diogene una via di uscita, di Speranza, da questa caverna abissale, che pare senza rimedio, in cui il Nostro prosaico Piazzista, come un volgare Caronte dei giorni nostri, ci sta trascinando ora, passo dopo passo, parola dopo parola, magneticamente, senza che noi adeguatamente ce ne rendiamo davvero conto.
Borbottando, incespicando coi lemmi, non è dato sapere se per celia o no, il Nostro coll’ausilio di un calice di rosso rubino di Ruchè, a mo’ di scioglilingua, indica un parallelismo tra involuzione, ‘degradazione’, dell’italianità corrente e di certa immigrazione: sentiamolo, a torto od a ragione. Egli afferma che l’irruzione della modernità sulle popolazioni in limine alle coste italiche (Albania e Marocco, per dirne solo alcune), irruzione veicolata dalla copertura delle variegate antenne TV ancor prima del diluvio mediatico dei social, ha infettato, insterilito, ha cortocircuitato immancabilmente, quanto di sano risiedeva, stava, nell’essere dell’individuo contadino, tipicamente il fellah egiziano, lo zappaterra nostrano, proiettandolo in una supposta sfera migliorativa, progressista, ‘avanzata’, ‘moderna’ appunto, quando in realtà, a conti fatti, non ha avuto, non ha sussunto né marcato alcuna crescita interiore.
In altre parole è come se si fosse verificata una scorciatoia, una scappatoia, un bypass, dalle problematiche antecedenti, colla (falsissima) illusoria promessa di superarle d’acchito, d’émblée, quando in realtà tali problematiche sarebbero riemerse, indefesse quanto perentorie nonché prepotenti, in un secondo tempo ed avessero ‘preso pieno potere’ su un tipo di individuo totalmente arrendevole, indifeso, eterodiretto, scarnificato, vacuo, ‘vetrinizzato’, a causa della mancata crescita interiore, effettiva. Questo stesso identico processo fenomenologico, colle stesse identiche modalità, ha avuto luogo a partire dagli scenari italici del 2ndo Dopoguerra, in quell’Italia a larghissima proporzione misera, contadina, villica, stremata, così ben descritta del resto, non a caso, negli affreschi tematizzati su situazioni ancor precedenti come quelli de Il Mulino del Po o de La terra trema, o ancor prima ne I Malavoglia. Per non dire di Cristo si è fermato ad Eboli.
Insomma, a farla breve, una lunga e sanguinosa scia di miseria autentica, verace. La miseria da cui procedeva allora l’Italia era doppia: materiale quanto culturale ma ciò, tuttavia, non impediva a quell’Italia povera in maniera ambivalente d’aver una sua dignità interiore di cui andar fieri. Dignità che risiedeva nel fatto acclarato di non far parte ancora dell’immane macchinazione capitalistico-industriale della Piena Modernità (e subito dopo dalla Post-modernità) che sarebbe da lì a poco esplosa in quello che giustamente si ebbe a definire la ‘società opulenta’.
Quella dignità vergine sarebbe stata ben presto dunque sporcata, avvelenata, inquinata, svenduta, corrotta, bruttata, ‘percolata’ dal massiccio avvento di quello status che oggi si definisce Old Economy, l’industrializzazione quanto l’inurbamento a tappe forzate. ‘Poveri ma belli’ si ebbe (non a caso) a definire gl’italiani di quel tempo ma di una bellezza di un’accezione ben diversa da quella attuale: una bellezza interiore molto prima di manifestarsi esteriormente. Tutto l’esatto contrario d’oggigiorno.
Prova provata di tutto ciò e qui si ritorna al feroce scherno di Epitteto verso Epicuro è proprio l’atto di rifocillarsi che è divenuto nel corso dello svolgersi della più recente Modernità un maniacale, patologico, stravolgimento della sua originaria funzione che ottemperava al bisogno di nutrimento quanto ad una legittima, sana, ma misurata soddisfazione dell’appetito. Infatti la realtà oggi ci mostra come la diffusa bulimia imperante porta sempre di più a veder la circolazione di un’obesità diffusa, straripante, che se non è arrivata ai livelli statunitensi ove si è costretti ad allargare le sedute di certi cinema è nondimeno preoccupante.
Bulimia che si estrinseca in un’ipertrofia fisico-muscolare (‘tutto bischeri e nulla cervello’ disse il Toscano…), vedi un fiorire canceroso di palestre (notori luoghi incubatori della Stupidità Umana) sviluppatasi su un ‘magna magna’ a base di pollo & riso sconditi condito coll’ingurgitamento doloso di steroidi, anabolizzanti e testosterone. In entrambi i casi, bulimia di opaco grasso flaccido e straripamento di lucide muscolature (ambedue ‘corpi’ privi di alcun valore atletico) si tratta di ‘corpi a perdere’, di nessuna utilità pratica. Un vero e proprio tic degli apparati gastroenterici ha mesmerizzato gli italiani verso un vero e proprio culto del ‘mangiare’ compulsivo, ossessivo, da qui non per nulla l’idolatria scatenata verso i clowneschi figuri dei soi disant arci-chef, un lemma ‘neologico’ già di per sé osceno. Questo andazzo già si intravedeva a dir il vero nel personaggio più volte rappresentato dal guitto Alberto Sordi (1), non a caso coacervo esemplificativo delle più rozze bassezze e vizi italici.
Situazione generale questa tanto più grave se si considera che siamo la patria della dieta mediterranea che abbiamo tradito, stravolto, lasciata ‘andar a male’ per averci aggiunto un eccesso di calorie quanto di significazioni anodine (la pastasciutta frammista all’hamburger nella stessa sessione della colazione e per soprammercato soprammercato una crassa e grassa torta profiteroles…) come se fossimo i ‘morti di fame’ che fummo illo tempore. ‘Morti di fame’ non siamo più ma siamo consegnati ad essere Morti di Senso.
Critica alla Ragion Pura Alimentare tra l’altro proveniente dal Nostro che era tutto meno che un’acciuga con almeno una taglia di pantaloni sopra la norma essendo egli un buongustaio gourmet di vaglia: non disdegnava certo la bagnacauda quando si trovava nel torinese, né tantomeno la Bersagliera nei pressi delle Langhe né il Cappon Magro nelle terre liguri … ecc. ecc. Ma questa ostentazione dell’omo di panza omo di sostanza, questa giaculatoria attorno al magnamagna come si connette con la presunta povertà, frugalità tanto famigerata del Sud Italia ad esempio? Avrà quindi una qualche ragione l’ultima fatica letteraria di Felice Manti che sostiene un Sud non arretrato economicamente per nulla in quanto uno sbocciare inconsulto di attività economiche le quali ovviamente assicurano largo impiego alla popolazione è dovuto al reinvestimento del denaro sporco attinente alla criminalità organizzata?
Chissà si chiedeva il Nostro… Quest’ultimo nella sua lunga ed intima frequentazione colle sponde nostre sudiste non aveva non potuto far a meno d’osservare da fino ‘interprete dei tempi’ qual era, il dispiego in grande magnitudo di quelli che un tempo erano definiti status symbol: i Santos, le Kelly, i DateJust, le Macan, le Cayenne, i Submariner, gli Hummer et cetera. Sarcasticamente commentava il Nostro che la famiglia degli orologi cosiddetti preziosi costituivano l’oggetto più stupido mai prodotto da mente umana nella Storia. Più che status symbol sono stupid symbols.
Nell’orizzonte del Sud coevo pare che l’Ideologia del Regresso Assoluto abbia guadagnato vastissimo terreno nonché aficionados a dispetto di dozzine e dozzine di anni di ‘coltivazione’ culturale linguista esperiti grazie al mezzo TV a partire da quella di Mike Bongiorno, quale magistero della lingua di Dante sebbene ad un livello basico, non quello da Accademia della Crusca per intenderci.
Prova provata di ciò è la reviviscenza virulenta dell’uso del dialetto quale sintomo di una chiusura al mondo, di un rintanarsi nelle coordinate geoculturali di una enclave, ristretta tanto fisicamente quanto nei propri orizzonti intellettuali. Il Nostro che sia chiaro non aveva nulla contro l’uso (latente) della lingua dialettale a patto che si abbia adeguata padronanza (patente) nel contempo di quella nazionale, quale mezzo di coesione e compartecipazione alla vita nazionale, alla stessa stregua di come ad esempio l’inglese permette il proprio inserimento e coinvolgimento in ambito internazionale.
Avviene invece l’esatto opposto: l’uso del dialetto ostensibilmente mostrato coram populo quale segno di appartenenza ad una enclave, ad una tribù, ristretta ove vigono solo le leggi endogame. Quindi è tutto un babelico birignao incomprensibile tale e quale il linguaggio degli schizofrenici, composto dagli immancabili: «’na matina me so’ svejata…; annamo a pija ‘sta robba…; artre vorte…; annò annate? je lo detto…; da canno ai fatto i sordi nun te fai più vivo…» e perle (suine) consimili… La costipazione alimentare non può non dar adito ad esalazioni esofagee sotto forma di guaiti, veri e propri rutti della fonia, suoni disarticolati onomatopeici, assai simili non per niente a quelle deiezioni cerebrali sputate sui muri dai cosiddetti graffitari: «zonk! Sput! Sigh!» dal significato pressoché nullo.
Un estetologo esponente massimo quanto ‘diva’ della gauche cachemire lo chiamò a suo modo giustamente ‘il grado zero della scrittura’. Il più alto inconsistente blablabla vacuo della Sinistra al Caviale – quella battezzata da La Terrazza di Ettore Scola su su sino al La Grande Bellezza di Sorrentino – abbraccia la fraseologia senza alcun senso dei parvenu popolani.
Ennesima prova provata dell’hard-core contadinesco la gens italica la propone ovviamente a tavola. Lì avviene, quando non addirittura i toretti italici sono seduti a totale torso nudo, un bofonchiare a bocca aperta mentre naturalmente si cerca di deglutire; un chinar il capo sul fiero pasto a mo’ di maiali nel trogolo; un costante penzolar del braccio sinistro dal desco a testimonianza del proprio aplomb bifolco; un compulsivo sbirciar i propri stupidissimi telefonini smartphone latori di stupidissimi gossip; (2) l’apportarsi il coltello in bocca, per giunta lappandolo; il costante vezzo di non nettarsi le labbra grumi di residui di cibarie onde poter con massima certezza lasciar una gora sul bordo del bicchiere; un impugnar la forchetta colla destra onde fiocinare i lacerti delle pietanze ed ‘imboccarli’ dal basso verso l’alto con somma impudenza cafonesca. Nulla poté il Trilussa che ci ammonì a suo tempo ricordandoci che ‘chi di gallina nasce ne convien che ruspi’. Inutili, vani, sono stati gli sporadici rigurgiti di rari nantes che si sono appellati ai diktat di un savoir faire, di un galateo: essi sono rimasti lettera morta, vox clamantis in deserto.
Percentuale del due per mille. Un magistrato, se non erriamo, ebbe a dire che se Falcone e Borsellino non avessero costituito all’incirca il due per mille della popolazione siciliana ma invece fossero stati il venti per cento di essa la dittatura mafiosa sull’isola sarebbe stata calpestata a morte per sempre nell’arco massimo di tre anni.
Peccato invece che i due, au contraire, sono rimasti ad incarnare il due per mille e basta della volontà generale. Anche la musica gioca un ruolo non marginale in questa discesa ad inferi nei gironi danteschi dello zoticame nazional- popolare. Quando va bene gli spotify del caso belano gli Apostoli della più vieta Banalità del pentagramma, a partire da Vasco Rossi per intenderci fino al bilderberghiano umbro Jovannotti (3).
Un signore in spiaggia, di lino bianco-vestito ed acconciato con un Panama in capo, nondimeno con i calzoni lunghi sotto l’amichevole umbratile riparo dell’ombrellone chiedeva con spirito faceto ad una moltitudine di ragazzini radio-chiassosi con i loro idoli a squarciagola latranti musica ‘trap’ se avessero nelle loro compilation Monteverdi o Palestrina… Ma i racconti dell’orrore del nostro piazzista di ossa hi-tech non finiscono qui. Ci poneva al corrente che un suo caro amico, imprenditore di successo, classico genialoide self made man italico, non si sia mai fatto vedere non diciamo neanche con un libro in mano ma neanche con un quotidiano! Solo ‘lavurer, lavurer, lavurer’, questo per dire che la crassa ignoranza zappazolle non alberga di certo solo nel profondo Sud.
È questo il profondo mistero etno-antropologico che attanaglia questa sommamente disgraziata Nazione e cioè quella di essere stata capace d’assurgere decenni fa a quarta nazione industriale del mondo ma non aver saputo esprimere talenti geo-politici, ‘giurisprudenziali’ degni di questo nome. I pochi che ci furono in passato, ne ricordiamo solo alcuni: Mattei, Craxi, Moro, Falcone, Borsellino, Pietro Calogero, Agostino Cordova, il primissimo De Magistris, Gioacchino Genchi… rappresentavano ancora una volta quello sparuto due per mille della società civile che non è bastato a mutar le sorti, oppure bastava e quindi dovevano essere soppressi da quelle Nazioni che temevamo il ruolo italico di portaerei di terra ferma proiettata sul mondo arabo. Il lettore ci faccia il piacere di non esercitarsi nella facile arte del far la punta agli spilli: alcuni personaggi di cui sopra forse non furono irreprensibili in toto.
Un sagace francese, del resto, ci ricorda sempre che dietro ogni grande fortuna c’è un delitto: in linea di massima tutti i citati avevano a cuore il bene ultimo della nostra Nazione, dote che oggi come oggi è latitante in ogni italiano, dallo zappazolle ai parvenu politici (4) che reggono le fila del potere.
L’Insostenibile Leggerezza del Nulla. Basti vedere, osserva di nuovo il nostro Piazzista, l’uso che la nostra ‘itaglietta’ (scritto col ‘gl’) riserva al Mare: uso che riporta alle funzioni corporali, in specifico della deiezione (l’acqua scambiata per un immane orinatoio, per un vespasiano en plein air, testimoniato dalla grande misura di persone le quali si bagnano solo ed esclusivamente sino alle pudende. Mosche bianche di converso sono i rari nantes che si accingono in una qualsiasi attività natatoria; ancor meno quelli che mettono in pratica una qualsivoglia arte di navigare perché ca va sans dire scarrozzare sulle tavole chiamate SUP, pagaiando come primitivi ancestrali o fendendo l’acqua sulle moto d’acqua non è navigazione. La navigazione è non a caso quella effettuata ad esempio da sedicenni bretoni che con un barchino a vela di appena 8 metri vanno in solitario dalle sponde dei Glénan sino all’irlandese faro del Fastnet e ritorno.
Per dire dello spartano esercizio del windsurf praticato in Germania od in Olanda in acque proibitive nonostante le mute. Inutile quindi rammentare ai non-acquatici italici che il dominio del mare si ha dalla padronanza delle acque e che questa padronanza ha determinato quella talassocrazia così ben descritta da Carl Schmitt in Terra e Mare delle nazioni nord-europee nel secolo scorso che ha come epifenomeno niente di meno che la dominazione coeva esercitata dalle élite tecnofinanziarie iniziatiche attuali sui Piigs e quindi su di noi! Il fatto è che l’italiano popolo a dispetto dei Santos, dei Daytona, gli ‘aipad’ (scritto così!), gli ‘aifon’ (scritto così!), dei telefonini intelligenti, è ed è rimasto un popolo intimamente plebeo, volgare in nuce, contadino e questo con l’aggravante di non aver conservato nulla o quasi di quel buono che era insito nell’essere contadino verace.
Come plebea moltitudine, come è sempre stato, il suo Destino è quello di esser dominato e dominato ovviamente da popolazioni più colte delle nostre sebbene non per questo più magnanime, anzi…
L’aneddotico apologo del famigerato ‘Spagna, Francia, purché se magna…’ volendo dire che l’italico Arlecchino multicolore non si curava di quale padrone foresto dovesse servire purché potesse riempire la pancia illustra magnificamente, ahinoi, la cecità della visione geopolitica culturale nazionale la quale baratta per una michetta di pane odierna la schiavitù sempiterna certa (vedi Europa, Mes, Recovery Fund, Troika et similia).
Ma se pel popolino, per la populace come la chiamano a casa Adelphi, Carl Schmitt è soltanto un terzino della squadra giovanile del Bayern München, allora ogni speranza è persa per noi tutti. Del resto pure a ‘terra’ l’orda dei Selvaggi col Telefonino non si smentisce mai. Essa pratica assiduamente tutta o quasi la pletora di giochi basati sulla palla notoriamente tra quelli di tutti gli sport che necessitano la più infima, minore, sofisticazione intellettuale tra tutti quelli del milieu agonistico.
Di converso i trogloditi adornati con l’Iphone come lo sono i Selvaggi del Borneo (coloro che parlando al cellulare coll’intento di lasciar un messaggio vocale mantengono quest’ultimo in posa orizzontale dinanzi alla propria bocca sono similari assai ai Primitivi coll’osso labiale) non reputano di perder tempo leggendo né tanto meno studiando nel vero senso della parola: sanno nella loro tronfia sicumera si saper tutto, tanto ab initio, quanto ex-cathedra. Se l’italiota s’imbattesse in un ipotetico mercato dove vendere una merce chiamata ‘Presunzione’ s’arricchirebbe a dismisura essendone dotato sino quasi all’infinito.
Il Piazzista rincarava la dose ammettendo però che non era una sua idea originale ma di un quidam di cui non ricordava francamente il nome e quindi la paternità di tale idea rimaneva insoluta; si riferiva il Nostro al sovrapporsi di due immagini che avevano in comune, come sfondo Piazza Duomo a Milano in un giorno di festa, forse domenica. La prima immagine datava anni Sessanta mentre la seconda era contemporanea. Nella prima si scorgevano inequivocabilmente una moltitudine che voleva abbellirsi pur con mezzi limitatissimi: gli uomini (il modello era Gregory Peck) tutti in camicia bianca ben stirata; pantaloni grigi; cintura di pelle; scarpe di italica fattura in vera pelle che conservavano la capacità del ‘far industria’ di allora; le donne (il modello era Grace Kelly) altrettanto ben vestite, in tailleur alcune volte.
La seconda mostra all’opera una vera e propria Arte del Bruttarsi, una congerie (il modello è un calciatore à la Beckham, oppure un trapper come Sfera Ebbasta od un non si neanche come definirla, un’Elettra Lamborghini) di sciammanati tutti jeans costosissimi lacerati; scarpacce da Skarpantibus, brandizzate per lo più nella patria della Coca-Cola, appestate di materie sintetiche da quattro soldi di manifattura ma di carissimo, esosissimo, prezzo di vendita, fatte con enorme verosimiglianza dai bambini schiavizzati dell’Oriente; agghindati con erte collane al collo neanche fossero bulldog, giacché il loro arbiter elegantia può esser benissimo un ordinario a più non posso come Kayne West; per non dire delle canottiere da camionisti in cui non risultava elegante neanche un giovanile Marlon Brandon (forse, la canottiera, il capo maschile più brutto in assoluto mai concepito).
Significativo l’audience di cui godono i jeans: capo nato per i bovari d’allora ed in estrema auge per i bovari collo smartphone d’oggidì. Da Vaccari a vaccari, passando per Gianluca Vacchi, nomen omen ed i suoi spot che andrebbero intitolati “Il Capitalismo della Seduzione”. In caudam venenum. Sui propri corpi, ora bulimici, ora steroidizzati, l’italiota dispiega una brulicante moltitudine di segni semiotici che, invero, farebbero buona rima con un neologismo: idiotici.
Tatuaggi uber alles. È bastato che un qualsiasi ‘coglione di successo’, un tira-palla calciatore che so io…; un latrante cantante di canzonette da 2 soldi privo di qualsiasi pudore canoro, altrimenti si sarebbe mozzato la lingua da sé; un cerebroleso ritratto su “GQ Magazine”, o su “Style” o che so io, su “L’Uomo Vogue” senza arte né parte, fosse cosparso di questa lebbra estetica e tutti dietro come una canea scodinzolante a seguito del Pifferaio Magico, il Coglione di Successo di turno. I Goym, come c’appellano una popolazione che ha l’Arte del Dominio nel proprio sangue, che significa, animali parlanti, hanno ubbidito senza fiatare ai comandi di quattro cialtroni di successo.
È stato giustamente notato che ele icone social della banda dei carabinieri piacentini nulla divergono ‘esteticamente’ dai partecipanti ai rave party od ai partecipanti dei concerti (concerti?) di sfera Ebbasta: coincidenza di intenti significativa. Le Affinità Elettive (dei manigoldi). Verrebbe da chiedere dove sta la povertà, la miseria, se si è così ben disposti a farsi bruttare un braccio intero per diverse centiana di euro: l’unica miseria che vediamo è nelle teste di tutti, come dicevano i Situazionisti.
Nulla importa ai beoti di turno che i tatuaggi sono stati sempre l’emblema della peggior feccia di questo mondo: galeotti, deportati, selvaggi d’ogni risma, cannibali, schiumatori del mare. La primitività coeva degli analfabeti funzionali giustamente si riconosce in quella primitività arcaica. Non basta. Orecchinati a tutto spiano: nei lobi, nelle sopracciglia, nella lingua, nei capezzoli, nell’ombelico, nel naso: certi Mori, certi arabi portavano l’orecchino e dunque il selvaggio odierno italico riconosce in quel lontano segno semantico la lezione portata avanti, che so io da un Averroè o da un Avicenna? Sarebbe una luce in fondo a questo buio tunnel.
Noi ne dubitiamo. Dopo questo peana il Nostro interlocutore ci avvertiva che anche da noi esiste una gens acculturata (non intendendo ovviamente con acculturati le lauree elargite col voto politico dei somari sessantottini né quelle, come dire? graziosamente elargite da certi pulpiti sudisti ove non si distingue nettamente se sia più grande l’influenza massonica, quella di uno Stato corrotto o quella della criminalità organizzata o tutte e tre le cose allo stesso tempo; vedi inchiesta demagistrissiana-genchiana “Why Not”). Peccato però che i pochi che sono acculturati lo siano al servizio dei Foresti, tali e quali con gli zoticoni del popolino descritti sino ad ora! Altrimenti un ammiraglio come il Maugeri, di SuperMarina, ai tempi del Fascio, come mai avrebbe potuto essere insignito di onorificenze al valor militare da parte … degli USA?
Che fosse un precursore di Mario Draghi? Quindi il nostro povero suolo è attanagliato da un verso da una morsa ferale, duplice: da un verso l’immane pletora di animali parlanti il cui unico atout è quello di farsi crescere una folta barba a comando subitaneo allorché “L’Uomo Vogue” del caso spiattella un barbuto in copertina, zombies senza arte né parte, i quali vivono per ‘magnare’, per ‘ingropparsi’, defecare, urinare e dall’altro canto una rarefattissima cerchia elitaria, iniziatica, tecnofinanziaria, però colta quanto basta, ove entrambi questi estremi (ma pur sempre due facce della stessa medaglia) concorrono a consegnare il nostro Paese alle nazioni foreste dominatrici, ove quelle stesse élite di cui prima sono INVECE totalmente pro patria loro!
A riprova di ciò chi avesse contezza delle dichiarazioni di novelli Machiavelli in salsa McDonald & Coca-Cola bensì stranieri ma di casa da noi (anche troppo per i nostri gusti), dichiarazioni che ‘magicamente’ trovano amplissimo risalto nei nostri media, tambureggiate dallo ‘stampista’ prezzolato di turno, scorgerebbe facilmente che i nostri figuranti politici sono sempre stati visti tali e quali le Maschere Nazional Popolari della nostra Commedia dell’Arte, con una sorta, per così dire, di chuptzah…
Non è difficile immaginare dunque chi sia, chi incarni i panni del Bertoldo, del Bertoldino e del Cacasenno di turno, o di Arlecchino o del Balanzone di turno finanche ad Alberto Sordi, coacervo simbolico non per nulla delle peggiori mostrate (almeno a livello mediatico percepibile) peculiarità nostrane: cinismo; servilismo; opportunismo; provincialismo; mania mangereccia; grossolanità; ordinarietà; pavidità. La ‘gente da basto, da bastone e da galera’, solo che il bastone è impugnato non da noi ma dai Foresti, con l’aiuto dei volenterosi complici italioti.




