Il trentenne argentino David, ebreo, omosessuale e sovrappeso, fa rientro a Buenos Aires dall’Italia (dove nel frattempo si è lasciato con il compagno) per la morte dello zio. Ad accoglierlo trova la sorella, la madre anziana e un’altra zia e fin da subito rivela il suo carattere introverso, capriccioso, eternamente musone. Dopo il funerale David viene a conoscenza anche della notizia più sconvolgente: sua madre ha deciso di staccare suo padre dal respiratore artificiale che lo tiene in vita. E David, che con il genitore ha da sempre una relazione complicata, cade in uno stato di profonda crisi.
Presentato nella sezione Acid di Cannes, un piccolo film argentino dominato dalla figura originale di Iair Said, regista, sceneggiatore e interprete che si è cucito addosso il ritratto di un disadattato alla vita chiamato a confrontarsi con la morte.
L’impudicizia dello stesso autore è uno degli aspetti interessanti di La domenica muoiono + persone (la grafia con il simbolo del “più” è quella corretta): nella prima sequenza del film Said si mostra seminudo, con la carne molle e in eccesso, implorare inutilmente un amante invisibile di perdonarlo, di non lasciarlo, senza vergogna, senza filtri tra l’esposizione del proprio corpo e l’umiliazione della resa alle proprie emozioni. David, del resto, per l’intero film dimostrerà di avere mai veramente un posto dove stare o dove sentirsi a suo agio: su un aereo, dentro l’abitacolo di una macchina, nella stanza di un ospedale. Anche i vestiti che indossa, quando è costretto a fare ritorno in Argentina, non gli appartengono, così come la famiglia a cui fa ritorno, come se la sua natura lamentosa e capricciosa nascondesse un bisogno d’attenzione mai accolto.
Nella tradizione ebraica di lingua yiddish, David è lo schlemihl, l’idiota, l’inetto, a cui l’interpretazione stralunata di Said aggiunge un tono di malinconia e rassegnazione e la natura queer del personaggio un elemento di languore e frivolezza insieme (geniale la gag del lucidalabbra azzurro). Il paradosso di David è che la sua piattezza emotiva, come di qualcuno da sempre abituato a passare inosservato o incapace di essere felice, è annullata da una fisicità imponente, ingombrante, impossibile da non notare… E proprio da questo contrasto nasce il senso del film di Said, in cui l’uomo che non sa affrontare la sua vita si trova costretto a confrontarsi con la morte di una persona cara.
Come in molto cinema argentino contemporaneo – viene in mente Arturo a los 30 di Martín Shanly, visto al Torino Film Festival due anni fa, in cui un altro giovane regista si divertiva a mettere in scena sé stesso e la propria inettitudine – la gravità delle domande di un film è soppesata dalla semplicità minimalista della sua messinscena, votata a un realismo spicciolo, cinico o grottesco a seconda degli umori, spietato e talvolta umanista.
I dialoghi sono semplici, ordinari; le situazioni pure, salvo restare sospese tra il grottesco e il dramma; il ritmo è laconico, distratto, salvo, ancora, concentrare l’emozione in pochi, decisivi momenti. La stessa durata complessiva, che non arriva all’ora e venti di film, riduce lo spazio per il dramma – o meglio, il melodramma – a cui la vita stessa di David tende, tra l’esagerazione della prima sequenza e l’indifferenza scioccata del ritorno a casa.