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      • La fine di Trudeau viene da lontano: quando gli Stati Uniti cercarono di conquistare il Canada

      La fine di Trudeau viene da lontano: quando gli Stati Uniti cercarono di conquistare il Canada

      Il premier canadese Justin Trudeau, uno dei leader più rappresentativi del globalismo a livello mondiale, ha annunciato ieri, 6 gennaio, le proprie dimissioni da capo del partito liberal; e anche da primo ministro, quando sarà stato scelto un nuovo leader.

      Tutto ciò, a pochi giorni dall’insediamento di Donald J. Trump alla Casa Bianca, che – subito dopo le dimissioni di Trudeau – fa sapere sul suo social Truth di puntare alla caccia grossa:

       

      Molti in Canada AMANO diventare il 51° Stato. Gli Stati Uniti non possono più subire gli enormi deficit commerciali e le sovvenzioni di cui il Canada ha bisogno per rimanere a galla. Justin Trudeau lo sapeva e si è dimesso. Se il Canada si fondesse con gli Stati Uniti, non ci sarebbero dazi, le tasse diminuirebbero di molto e sarebbero TOTALMENTE AL SICURO dalla minaccia delle navi russe e cinesi che li circondano costantemente. Insieme, che grande Nazione sarebbe!!!

       

      La storia, il rapporto tra Canada e Stati Uniti è lungo e travagliato – e merita di essere compreso, soprattutto per provare a decifrare le mosse odierne, che – certamente – vengono da lontano.

      Buona lettura.

       

      Forse non tutti sanno che gli Stati Uniti d’America hanno tentato di conquistare e annettere il Canada circa 200 anni fa. Il fatto storico assume oggi una probabile rilevanza politica nella rinnovata lotta commerciale fra USA e Canada, con un particolare significato per la corsa all’Artico.

      Qualcosa come 200 anni fa

      È il giugno dell’anno 1812: gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Gran Bretagna, citando tra le proprie rimostranze la pratica di prelevare i marinai dalle navi mercantili americane per costringerli a servire nella marina britannica. Gli Stati Uniti si opponevano anche a un sistema di blocchi e licenze progettato per bloccare il commercio con la Francia napoleonica e alla presunta fomentazione da parte della Gran Bretagna di disordini tra i nativi americani. Contestualmente, il presidente americano James Madison approvò un attacco a Nord, contro il Canada, su ben tre fronti.

      L’idea era quella di una blitzkrieg, una guerra-lampo, perché la Gran Bretagna era occupata con le guerre napoleoniche. L’acquisizione del Quebec doveva essere il primo passo, come disse il presidente Thomas Jefferson, così come la conquista dell’Ontario e della città di Montreal. Gli inglesi controllavano Grandi Laghi, quindi riuscivano a spostare rapidamente le truppe e i rifornimenti, e godevano del sostegno dei canadesi e di molte tribù di nativi, che non volevano accogliere gli americani come loro “liberatori”.

      Gli USA erano impreparati: un esercito di circa 12.000 uomini, grezzamente addestrati, senza sufficiente preparazione strategica, ma con dei generali molto motivati a tentare l’impossibile.

      Il 12 luglio 1812, il generale William Hull portò i suoi uomini oltre il fiume Detroit e in Canada, dove emise immediatamente un proclama scritto in cui diceva agli abitanti che sarebbero stati “emancipati dalla tirannia e dall’oppressione”. Queste parole si rivelarono subito ridicole. Hull e i suoi uomini, dopo un breve assedio di Fort Malden, l’avamposto canadese principale, venne ricacciato da un esiguo contingente di guerrieri nativi, comandati dal capo Shawnee Tecumseh, e dalle truppe del comandante britannico Isaac Brock, il quale fece in modo che agli americani arrivasse un documento falso che parlava di un gran numero di nativi americani in avvicinamento a Detroit. Nel mese di agosto, Hull fu costretto ad arrendersi. Più o meno nello stesso periodo, gli inglesi catturarono Fort Dearborn, nell’attuale Chicago, e un avamposto americano sull’isola di Mackinac, tra il lago Huron e il lago Michigan. Hull fu poi deferito alla corte marziale e condannato per codardia e negligenza.

      Più a est, il generale americano Stephen Van Rensselaer preparò un assalto per l’11 ottobre a Queenston Heights, sul lato canadese del fiume Niagara, ma un ufficiale scomparve misteriosamente con tutti i remi delle sue barche, nel mentre che i nativi assalivano le truppe, decimandole.

      Nella terza fase dell’attacco, il generale americano Henry Dearborn marciò da Albany a Plattsburgh, New York, sulle rive del lago Champlain, con l’idea di catturare Montreal, ma i miliziani dello Stato si rifiutarono di lasciare gli Stati Uniti e finirono per spararsi accidentalmente addosso nel buio, senza mai entrare in Canada.

      La campagna canadese su caratterizzata da disastri, sconfitte, disgrazie, rovina e morte.

      Non convinti, all’alba del 1813, i soldati comandati dal futuro presidente William Henry Harrison, distrussero la flotta britannica sul lago Erie, conquistarono Fort George, strategicamente importante, vicino alla foce del fiume Niagara e recuperarono Detroit, per poi catturare Toronto (che ai tempi si chiamava York).

      Gli inglesi, allora, reagirono con forza, inviando nuove truppe dal Vecchio Continente, dove le guerre napoleoniche erano al termine, e sbaragliarono gli americani. Venne firmato un trattato di pace per concludere l’inutile messinscena. Sulla frontiera di Detroit si tenne persino un grande ballo di riconciliazione. Da allora, gli eserciti statunitense e canadese non si sono più scontrati e sono diventati forti alleati per la difesa.

      Il revival, anno 2025

      È così che arriviamo al 2025, anno che viene inaugurato con le minacce di Trump alle relazioni commerciali con il Canada e non solo [INSERIRE LINK ARTICOLO].

      Alla luce di quanto accaduto un paio di secoli fa, è curioso che nel perseguire il suo motto di campagna elettorale MAGA, Trump sia partito nuovamente all’attacco del Canada. Sembra quasi che questa spina nel fianco non passi mai per gli americani.

      Il fatto risulta ancora più interessante se si considera dal punto di vista strategico: per gli USA, la “conquista” del Canada o perlomeno di una parte di esso, di pari passo con la Groenlandia, significherebbe avere accesso non soltanto alle numerose prelibatezze energetiche che si trovano in quelle regioni, ma anche poter posizionare dei sistemi d’arma a medio raggio verso Russia e Cina.

      Sì, la white war è più realistica di quanto pensano certi analisti mainstream. La geografia non è una opinione e nemmeno le relazioni internazionali lo sono. Passare dal Nord, dalla zona polare, è più rapido che fare l’intero giro del mondo. Però c’è lo svantaggio della inospitalità del territorio, quindi occorre organizzare strategie di gestione di questo “nuovo” – si fa per dire – dominio, così da trovarsi a giocare su un teatro di possibile conflitto con una certa dimestichezza.

      L’urgenza di questa acquisizione strategica è molto forte. Un mondo multipolare, infatti, è più complesso da fronteggiare rispetto al vecchio modello, ma ancora è in una fase iniziale; quindi, la scappatoia nordica deve essere giocata con un buon tempismo. Se a questo aggiungiamo anche la storica antipatia per il Canada, la combinazione funziona alla perfezione.

      Politicamente tutto ciò può essere giocato anche in un’ottica di lotta al liberalismo e al globalismo: Trudeau è un leader progressista dem, andare contro la sua presidenza significa acquisire un po’ di consensi nell’area conservatrice internazionale. Un Canada più allineato è conveniente per tutto il blocco americano, secondo la prospettiva statunitense. Per di più, Trudeau è troppo vincolato all’Europa, perciò non conviene tenerlo lì dov’è. Non stupiamoci quindi se vedremo delle destabilizzazioni nei territori di confine fra USA e Canada, al di là delle solite tensioni migratorie: una lotta intestina al continente sarebbe una bella giocata per raggiungere gli obiettivi strategici della rotta nordica.

      Tutto ciò è coerente con la già nota dottrina del Northwest Passage, la via marittima che attraversa l’arcipelago artico canadese, collegando l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico attraverso le acque polari.

      La crescente accessibilità del Passaggio a Nord-Ovest, dovuta allo scioglimento dei ghiacci artici, ha aperto nuove possibilità per il commercio marittimo e lo sfruttamento delle risorse naturali, nonché per il raggiungimento di postazioni militari ottimali per “chiudere” dall’alto l’Eurasia. Tuttavia, questa situazione ha sollevato una serie di questioni geopolitiche, specialmente per gli Stati Uniti.

      Uno dei principali punti di disputa è il controllo della via marittima. Il Canada rivendica la sovranità sulle acque del Passaggio a Nord-Ovest, classificandole come acque interne. Gli Stati Uniti, al contrario, considerano il Passaggio una via d’acqua internazionale, sostenendo che dovrebbe essere aperta alla navigazione globale secondo le norme del diritto internazionale. Questa divergenza riflette un potenziale conflitto d’interessi, poiché il riconoscimento della sovranità canadese potrebbe limitare la libertà di movimento statunitense e quella di altri stati.

      La presenza di una rotta navigabile nell’Artico aumenta la necessità di monitorare e proteggere le acque settentrionali. Per gli Stati Uniti, questo significa sviluppare capacità militari e infrastrutture nella regione per prevenire intrusioni da potenziali rivali, come la Russia e la Cina, che stanno anch’esse espandendo la loro influenza nell’Artico.

      Sul piano diplomatico, gli USA avrebbero potuto cercare una alleanza più equilibrata con il Canada per oltrepassare le questioni territoriali, ma, a quanto pare, l’arroganza americana sta avendo la meglio.

      Gli Stati Uniti hanno in mente un bel revival. Chissà se finirà come il precedente…

      Non ci resta che concludere con l’ironia di Dmitry Medveded, che ha commentato su X la vicenda con queste parole: «Non è chiaro perché gli Stati Uniti, come Paese, dovrebbero annettere il Canada, la Groenlandia o persino la Gran Bretagna e riprendersi il Canale di Panama. C’è un modo più civile: Donald Trump ed Elon Musk possono semplicemente comprare il terreno, rendendolo una loro proprietà privata».

      Ad ognuno il Presidente che si merita.

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