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      • La guerra segreta di Israele contro l’Iran sui social media

      La guerra segreta di Israele contro l’Iran sui social media

      Il 3 ottobre Haaretz ha pubblicato un’inchiesta straordinaria, rivelando come per anni l’entità sionista abbia condotto clandestinamente delle “operazioni online” dedicate a promuovere l’immagine pubblica di Reza Pahlavi, il figlio maggiore dello Scià dell’Iran e pretendente ad trono ormai inesistente, a livello locale e internazionale. Gli sforzi erano altamente sofisticati e di ampia portata, con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, di ogni tipo di manipolazione dei social media e altre tecniche di guerra online volte a convincere il pubblico che Pahlavi era il legittimo sovrano in esilio di Teheran.

      Centinaia di personaggi online fasulli, con foto, profili e biografie fraudolente create dall’intelligenza artificiale, che invocano il ripristino della monarchia nella Repubblica Islamica e condividono foto e video di Pahlavi, sono gestiti da un battaglione ombra di persone di lingua persiana reclutate appositamente dai servizi segreti israeliani per il progetto. Le reti di bot e troll amplificano la loro produzione, con messaggi costantemente aggiornati sulla base dell’analisi del pubblico. Un’altra componente della blitzkrieg online riguarda la glorificazione di Gila Gamliel, membro del governo di Benjamin Netanyahu e “persona di riferimento di Tel Aviv con Pahlavi”.

      I cyberguerrieri sionisti al lavoro

       

      La rete è stata smascherata da ricercatori digitali indipendenti dopo che Gamliel aveva pubblicato sui social media un video generato dall’intelligenza artificiale intitolato “Next Year in Free Tehran” (L’anno prossimo in una Teheran libera). Il filmato fittizio, pubblicato il 15 giugno – tre giorni dopo l’inizio della fallimentare guerra dei 12 giorni dell’entità sionista e, per coincidenza, lo stesso giorno in cui Netanyahu aveva previsto un imminente cambio di regime in Iran – “ha avuto un’enorme visibilità, per lo più probabilmente inorganica”. Il video mostrava Netanyahu, sua moglie, Gamliel, il suo compagno, Pahlavi e sua moglie mentre camminavano per le strade di Teheran.

      “Il video ha ricevuto molte più visualizzazioni rispetto alla maggior parte dei post su X del ministro, e questi e altri tentativi di amplificarlo” hanno aiutato i ricercatori a “individuare” una rete di bot e falsi utenti che amplificavano artificialmente le “frequenti” richieste di Gamliel di un cambio di regime in Iran e i suoi legami con Pahlavi. “Molti di questi account erano stati aperti nel 2022, al culmine delle cosiddette proteste contro lo hijab in Iran”, riporta Haaretz. Oltre 100 ulteriori “account alleati” erano stati lanciati durante la Guerra dei 12 giorni per amplificare ulteriormente la produzione della rete sovversiva.

      Haaretz rivela in modo criptico che “questa non sembra essere l’unica campagna condotta da Israele su questo tema”. Tuttavia, le sensazionali rivelazioni del giornale confermano che l’entità sionista – se non altre potenze straniere ostili, compresi gli Stati Uniti – era segretamente impegnata in iniziative di guerra psicologica per creare consenso all’insediamento di Pahlavi come sovrano dell’Iran in due momenti critici della storia recente, quando il cambio di regime a Teheran era apertamente promosso dai funzionari israeliani, dai governi occidentali e dai media mainstream.

      Questi tentativi erano falliti. Sebbene Pahlavi riceva occasionalmente una copertura positiva dai media occidentali, non gode di alcun sostegno tra la popolazione iraniana e persino la maggior parte dei detrattori della diaspora rifiuta l’ipotesi che egli possa assumere il potere nel Paese. In realtà, la reputazione dell’aspirante monarca è così velenosa che il suo appoggio è un vero e proprio bacio della morte per qualsiasi sfida al governo di Teheran. Il fatto che l’entità sionista abbia investito – e apparentemente continui a investire – ingenti risorse in un’impresa così inutile rappresenta un fallimento imbarazzante di proporzioni epiche.

      “Account monarchici”

      Ulteriori dettagli sulle oscure arti israeliane online destinate a promuovere Pahlavi si trovano in un rapporto del luglio 2023 della società di analisi dei dati Social Forensics, sulla “manipolazione delle piattaforme sponsorizzata dallo Stato” durante le proteste del 2022 in Iran. L’indagine aveva concluso che Teheran era stata vittima di operazioni di guerra cibernetica su vasta scala durante tutto questo periodo. Ciò includeva “disinformazione, diffamazioni e minacce” provenienti da una vasta rete di bot e troll su Twitter. Sebbene il rapporto non attribuisca in modo definitivo la responsabilità di questa attività maligna, i suoi risultati puntano inequivocabilmente nella direzione di Tel Aviv.

       

      Social Forensics aveva identificato diverse “comunità” distinte e ben definite di account utilizzati come armi contro la Repubblica Islamica durante questo periodo, come ad esempio i “progressisti”. Tuttavia, la comunità più influente era quella dei “monarchici”. Tutti gli account di questa categoria avevano un numero significativo di follower e i loro post generavano un coinvolgimento considerevole, sia non autentico che organico. Migliaia di presunti utenti sfoggiavano emoji con corone nei loro nomi, a indicare la loro fedeltà monarchica. Complessivamente, oltre il 95% di questi account era stato identificato da Social Forensics come “sockpuppet” automatizzati:

      “La maggior parte… sono inautentici e hanno la funzione di inondare Twitter di immagini e contenuti monarchici e filo-Pahlavi per far sembrare che su Twitter ci sia una base di sostenitori monarchici più ampia di quella che riflette la realtà”.

      Nel marzo 2023, centinaia di bot filo-Pahlavi erano stati sospesi per aver violato le regole di Twitter/X sulla manipolazione della piattaforma. Nonostante molti fossero rapidamente riapparsi con nomi utente quasi identici e avessero continuato le loro attività, diverse figure di spicco anti-Teheran avevano condannato il divieto generalizzato sugli account automatizzati. Tra questi Alireza Nader, ex alto funzionario del famigerato gruppo di pressione sionista filo-Pahlavi Foundation for Defense of Democracies e dell’organizzazione in esilio dai finanziamenti poco trasparenti National Union for Democracy in Iran. Social Forensics aveva scoperto che Nader seguiva e amplificava diversi account monarchici non autentici.

      La società di analisi aveva anche scoperto che numerosi account ufficiali del governo israeliano sulla piattaforma seguivano allo stesso modo i più influenti account fittizi filo-Pahlavi. È sorprendente che uno su otto degli account seguiti da @IsraelPersian, che si rivolgeva al pubblico iraniano, fosse un “account monarchico non autentico” che sosteneva “il rovesciamento della Repubblica Islamica e il ritorno in patria del principe ereditario in esilio Reza Pahlavi come leader di una monarchia costituzionale”. Ma le prove inconfutabili della gestione da parte di Tel Aviv di questa rete di bot militarizzata non finiscono qui.

      Un utente autentico seguito da @IsraelPersia, tra gli altri account ufficiali dell’entità sionista, è Emily Schrader, CEO dell’agenzia di marketing digitale Social Lite Creative. Al momento dell’indagine di Social Forensics, il sito web della sua azienda vantava apertamente di lavorare con “organizzazioni governative di alto livello e ONG in Israele, tra cui l’IDF”. L’indagine della società di analisi aveva concluso che il numero di follower di Schrader “era gonfiato e i suoi tweet erano amplificati artificialmente dagli stessi account non autentici” che incitavano all’insurrezione in Iran, compresi i bot monarchici.

      Da quando sono state modificate le voci sul sito web di Social Lite Creative

       

      “Diffondere sfiducia”

      La Schrader ha dichiarato apertamente che il fatto che tra i suoi clienti figurino diverse entità statali israeliane, compreso il suo esercito genocida, è un motivo sufficiente per ipotizzare che Tel Aviv fosse in ultima analisi responsabile della campagna monarchica di “manipolazione della piattaforma”. Altrettanto sospetto è il fatto che le proteste che avevano accompagnato la campagna erano iniziate dopo che il Pentagono aveva condotto per anni una guerra clandestina online contro l’Iran. Questi sforzi erano stati smascherati dai ricercatori digitali dopo che Twitter e Meta avevano bandito una vasta rete di account gestiti dall’esercito statunitense che “utilizzavano tattiche ingannevoli per promuovere narrazioni filo-occidentali” in Asia centrale e occidentale.

      L’Iran era un obiettivo preponderante e gli specialisti delle operazioni psicologiche del Pentagono gestivano diversi media antigovernativi che pubblicavano contenuti in farsi con canali social media di accompagnamento e una panoplia di account di bot e troll. Questi personaggi pubblicavano spesso contenuti non politici, tra cui poesie iraniane e foto di cibo persiano, al fine di aumentarne l’autenticità. Interagivano anche con iraniani reali su Twitter, spesso scherzando su argomenti banali come i meme di Internet. I profili fittizi coprivano un ampio spettro ideologico e utilizzavano tecniche narrative diverse a seconda del pubblico.

      Ad esempio, alcuni bot e troll “iraniani” del Pentagono promuovevano opinioni “integraliste”, criticando la Repubblica Islamica per essere troppo liberale a livello interno e non sufficientemente aggressiva nell’affermare i propri interessi a livello regionale. Altri si presentavano come esponenti della sinistra, laici e come elementi dell’opposizione. Era un attacco digitale a tutto campo. In modo inquietante, molti di questi account promuovevano i diritti delle donne e le proteste contro lo hijab. Un meme diffuso dal Pentagono aveva paragonato il trattamento delle donne all’estero con quello in Iran, contrapponendo le foto di astronaute occidentali e di una presunta iraniana vittima di abusi domestici.

       

      La distruzione dello hijab era stata il simbolo centrale delle proteste che erano poi scoppiate a Teheran, che aveano suscitato una copertura mediatica estera capillare e un coro di richieste di cambiamento di regime in Iran. Rapidamente, Pahlavi e i suoi stretti alleati, come Masih Alinejad, un veterano delle campagne di propaganda finanziate dagli Stati Uniti contro la Repubblica Islamica, che invocava attacchi sionisti contro il Paese e l’assassinio dei suoi leader, si erano autoproclamati leader dei manifestanti. Tuttavia, il loro tentativo di appropriarsi delle proteste aveva portato alla fine immediata dei disordini a livello locale.

      Un’aspra analisi post mortem sul “perché la rivoluzione iraniana ‘donne, vita, libertà’ era fallita”, scritta da Mariam Memarsadeghi, legata alla lobby sionista, che promuove anch’essa un cambio di regime a Teheran, aveva attribuito la colpa al tentativo di Pahlavi di associarsi alle proteste. Aveva osservato che gli stretti collaboratori del falso re promuovevano un “nazionalismo iraniano” estremo, invocando “violenza punitiva [e] esecuzioni sommarie” dei nemici, mentre “diffondevano sfiducia e attaccavano altri leader dell’opposizione sui social media”. Queste tendenze avevano fatto perdere l’appoggio degli iraniani all’interno e all’esterno del Paese, lasciando Pahlavi irrimediabilmente compromesso.

      Nell’aprile 2023, Pahlavi aveva fatto una comparsa a sorpresa a Tel Aviv. Nonostante non avesse suscitato alcun interesse da parte dei media occidentali, i mezzi di informazione israeliani avevano promosso con entusiasmo la sua apparizione come un evento di importanza epocale. Il Times Of Israel aveva affermato che la visita “storica” era stata un “processo di guarigione per molti ebrei iraniani”, visto che li aveva lasciati con un “senso unico di gioia, ottimismo e una sensazione di guarigione”. Durante una conferenza stampa, a Pahlavi era stato chiesto quale fosse la reazione dei comuni cittadini iraniani al suo viaggio. Aveva dichiarato che il loro veemente sostegno era evidentemente chiaro:

      “Non credete alle mie parole, cercate sui social media… su Twitter, Instagram, qualsiasi piattaforma. Se fate voi stessi una ricerca, non avrete bisogno di farmi questa domanda. La risposta è proprio davanti ai vostri occhi”.

      Naturalmente, quella “risposta” era stata fornita da persone che non esistevano, grazie alle “operazioni online” condotte da Israele e probabilmente da altri Stati che cercano un cambio di regime in Iran. Evidentemente non scoraggiato dal fallimento della campagna del 2022, Pahlavi era stato nuovamente promosso in modo fraudolento da un’iniziativa sui social media orchestrata dai sionisti durante la Guerra dei 12 giorni, con risultati del tutto controproducenti. Un rapporto di luglio dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale di Tel Aviv aveva concluso che il sostegno monarchico all’insurrezione durante il conflitto aveva solo rafforzato il sostegno locale al governo, “richiamando il pubblico attorno alla bandiera”:

      “È quindi consigliabile evitare, quando possibile, legami con i gruppi di opposizione iraniani (compresi alcuni circoli monarchici della diaspora) che sono percepiti da ampi segmenti dell’opinione pubblica iraniana come corrotti e colpevoli di aver tradito l’Iran nel momento del bisogno. Sebbene l’allineamento con i gruppi della diaspora filo-occidentali e filo-israeliani che spingono per un cambiamento rivoluzionario possa sembrare naturale, tali associazioni possono, in realtà, minare la credibilità dell’opposizione interna e, in ultima analisi, ostacolare il risultato desiderato”.

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