Analizzando informazioni informatizzate che gli utenti liberamente mettono in rete (siano esse nozioni di storia o l’aperitivo tra amici) si dispongono ulteriori prodotti informativi, ad hoc per l’utenza, da riversare massivamente sulla stessa, tutti i dati restano poi accessibili via codice, con una disponibilità esplicita che Byung-Chul Han definisce “pornografica”.
Nell’anti-eros della nudità collettiva, che io interpreto come ospedaliera, più che porno, trovano sfogo le recondite psicosi della società, e Big Data, che non è medico, ma vile affarista, le cavalca per il profitto di chi governa le sue redini. Il fantino è maniaco capo.
Ecco che operare nell’ambito dell’informazione, in un territorio che ha fatto della deontologia, dell’onestà intellettuale, della verità stessa, i propri strumenti di coercizione, diventa, in coscienza, profondamente conflittuale.
Da una parte ci si rivolge al lettore sperando di conferire contenuti di valore e significato, dall’altra si mettono questi a disposizione del guardone sotto forma di “infomi” che il malato mentale utilizzerà contro il nostro stesso progetto, che è in effetti quello di annientarlo.
Per parafrasare Jünger, come possiamo uscire dal giogo dell’ “universo delle statistiche”, oggi che “gli apparecchi” utilizzano la nostra stessa libera azione espressiva per calcolarle? È come se stessimo scegliendo l’adesione al panoptismo come sola possibilità di esistenza, affermando al contempo di volerlo combattere. Potrebbe sembrare un cane che si morde la coda, ma così non è. Lo stesso Jünger ci dice che “ il luogo della libertà è ben diverso dalla semplice opposizione”.
In uno dei suoi libri sul tema, Han sviluppa un discorso lucido, eppure non meramente razionale, sulle problematiche della nostra contemporaneità che sembra voler ad ogni costo dirigersi verso lo smembramento dei significati, ridicolizzando i significanti, a partire dalla materia stessa, nella – paradossalmente, bulimica – “infomania”, che trascina gli utenti nel riempimento nevrotico e non nutritivo, per lo più dannoso, non tanto della mente, quanto del tempo. Contesto immateriale e non-spirituale, dal contenuto dannatamente (arci)noto. Una dimensione numerica di intelligenza artificiale, cioè come assemblaggio di elementi predefiniti e, oggettivamente, nessuna autenticità creativa.
Nel capitolo in cui l’autore affronta il tema delle opere d’arte – al netto dell’aspra critica all’arte attuale, che condivido – riconosce in esse la qualità di non-cose, ma non per piattume intrinseco, come il mondo propone oggi l’irrealtà del monouso digitale, bensì per trascendenza, figlia dell’eccesso di significante e fatticità. Essere al punto tale da non più essere; sublimazione dell’essere verso l’altrove: misterioso, ignoto e, pertanto, pieno di propria essenza, cioè vuoto, ma sopra ogni altra cosa ispiratore di nuovo pensiero. Esse si realizzano per via di un desiderio.
Le opere d’arte sono in una condizione esistenziale di continua espansione produttiva, perciò infinitamente finite, mentre il materiale infospedaliero-pornosterile è in perenne estensione e, dilatandosi, disperde l’identità delle cose e ne smarrisce intensità e natura.
In questo attuale bellicista, il giornalista libero ed indipendente, oltre a svolgere la sua professione, pardon, la sua missione, nel rispetto del codice deontologico, ha responsabilità ulteriori, al suo incarico si somma il peso di quanto accennato in questo scritto, e che consiglio di approfondire attraverso le numerose opere dei grandi autori citati, e non solo. Il giornalista si trova ad informare e difendere la storia, consapevole di confluire nella ludica fine di essa, nell’infertile “infomania”, nel “mondo disincarnato”.
Così – a fronte dei miei studi sui linguaggi dell’arte – azzardo, se mi è concesso, l’ipotesi che forse proprio l’arte, in quanto lavoro di eccellente creazione, può portare una lezione al lavoro giornalistico odierno. Come un artista realizza le sue opere, metta il giornalista in relazione la ribellione e la bellezza, la tecnica e l’intuito, la narrazione ed i simboli, la forma, i contenuti, l’estetica, l’etica; non per orpello, ma per celebrazione del divino, per salvezza. Lotti quindi per difendere il proprio silenzio, necessario alla concentrazione e all’esercizio della misura, sappia dunque con che parole romperlo, parole che conducano all’ascolto attento del lettore, ad una fruizione dedita alla contemplazione dell’altro – che è l’opera – e quindi si raccolga in nuovo silenzio.




