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      • LE INSIDIE DEL FANTASTICO MONDO DI BARBIE

      LE INSIDIE DEL FANTASTICO MONDO DI BARBIE

      Conosco già l’obiezione. Con tutti i disastri e i cataclismi che si abbattono per il mondo, ti metti a parlare di un filmetto frivolo come “Barbie”? Purtroppo sì, perché è un prodotto filmico che è riuscito a riportare nelle sale cinematografiche gente che le disertava da tempo. E pure a sbancare i botteghini. E i fenomeni di massa interessano sempre e comunque. Aspettatevi un’orgia di carinerie, di birigneo e birignao, di 50 sfumature di rosa (dal rosa confetto al rosa shocking, passando per il fucsia), di pellicciotti, costumini, berretti, borsette, camicie, nastri, scarpette, occhiali e suppellettili…tutti rigorosamente in rosa. Ma dietro a tutto ciò, non c’è la vie en rose: tutt’altro.

      Mi dicono che alle prime di Milano la gente – impazzita- entrava al cinema vestita in rosa o con qualche indumento in rosa bene in vista. Del resto, dopo  i confinamenti pandemici, è facile rincretinire le persone già sufficientemente provate: basta promettere un po’ di evasione.

      L’inizio del film promette una nuova palingenesi con il brano  musicale “Così parlò Zaratustra” già adottato da Kubrick in “2001 Odissea”. E’ solo che invece di vedere i primati pelosi che scagliano per aria tibie e ossa spolpate, ci sono bambine che si ribellano alle bambole classiche, spaccando teste e facendo volare e gli arti. Volano teste di bambocci perché le femminucce si ribellano e non vogliono fare la fine delle loro madri: partorire nel dolore e allevare marmocchi nutrendoli, vestendoli e portandoli alle soglie della maggiore età con sacrifici.  Qualcuno ha voluto vedere in ciò, un’apologia all’aborto. Ma per fortuna, arriva lei, la bambola-Diva bella, elegante, raffinata, ben vestita, ben pettinata, ben truccata, super accessoriata,  nella quale le bambine possono proiettare le loro ambizioni e le loro vanità di future donne. Fu creata dall’imprenditrice Ruth Handler per la figlia Barbara alla quale voleva dare una bambola speciale, già ispirata a Lilli, una bambola tedesca bionda e longilinea. Il personaggio di Ruth compare da anziana, anche nel film prodotto dalla Mattel stessa, la ditta che ha fabbricato Barbie. Una multinazionale già presente da tempo sulla scena commerciale mondiale che si trasforma, per la bisogna,  in una Corporation cinematografica come la Fox o la Metro Goldwin Mayer, e che ha messo in piedi un’astuta operazione di marketing del tutto autoreferenziale. 

      La trama è legata a un viaggio avventuroso tra lei e il suo boy-friend Ken, che escono dalla casa di bambole per affrontare il mondo reale. Ma nella Barbie Land ci sono tante altre tipologie di Barbie di varie etnie, e di converso nel Kendom (regno di Ken), varie tipologie di Ken di tutte le razze (si può dire?): dal wasp al latino, passando per l’orientale e l’africano, perché sì, il mercato non deve conoscere confini.  Insomma Barbie è e dev’essere all inclusive secondo la formuletta mercatista che – guarda caso  – è diventata poi  anche una formula del più trito politichese “progressista”: inclusivo,  parola-tormentone che ormai ci esce dalle orecchie.  Nel magnifico mondo di Barbie c’è spazio per tutti, tant’è vero che vi partecipano un attore gay e un(una) trans.  Ma in mezzo a tanto glamour,  a tanto sfarfallìo e a tante stravaganze, passano quasi inosservati. Ecco un’altra furbata: inserirli in un caravanserraglio  multicolore in modo da renderli accettabili agli occhi di chi guarda.  Come leggero e superficiale è ogni tentativo di critica sociale che scaturisce dai personaggi. Nel rutilante mondo arcobaleno “barbista”, c’è posto per tutti, tranne che per una donna incinta. Non si può, perché la maternità non sarebbe “trendy” né “cool” come si dice nel demenziale gergo anglofono. E poi la gravidanza guasta la linea, perciò, scordiamoci che possa esserci una Barbie-mamma. Del resto Barbie è tutto e alla fortunata bambina che la possiede non resta che sognare cosa farà da grande, grazie a lei : astronauta, manager, donna in carriera, avvocato, dottoressa, atleta, ecc. C’è solo l’imbarazzo della scelta.

      Barbie, prova ad aggiungere un altro elemento, ancora più delicato da gestire nei dialoghi, ovvero quello di critica sociale. Lo fa in maniera superficiale, perché, pur venendo rappresentata nel film come una forza antagonista, l’impresa Mattel è in ogni caso tra le case produttrici del film. Dal canto suo, l’azienda i cui top manager compaiono nel film mentre cercano di  fermare la loro diabolica invenzione in rosa,  si presta in maniera opportunistica a questo ruolo, consapevole comunque che l’intera produzione rappresenti un’enorme occasione di  business, grazie alla quale pagherà i suoi dividendi e incasserà i suoi utili.

      La sceneggiatura di Barbie  firmata da Noah Baumbach,  pur con diverse trovatine pungenti, gioca secondo le regole del sistema mercatista  che vorrebbe mettere in discussione, finendo per bilanciare in maniera astuta e conciliatoria elementi di rottura e  con elementi di tradizione: la paura di tagliare fuori importanti “fasce di mercato” fa novanta e la si coglie per tutto il film che vorrebbe riuscire nell’impresa impossibile di piacere a tutti. Tu chiamale se vuoi, piacionerie di mercato.  E tanto peggio se poi ne verrà vietata la distribuzione in paesi come la  Russia o in Brasile. L’importante è che se ne parli.

      Margot Robbie, la bionda protagonista che  è  anche co-produttrice del film, interpreta la Barbie più canonica che ci sia: lo stereotipo della bambola di Mattel, che vive ogni giorno perfetto nella sua casa dei sogni a Barbie Land, sorridendo continuamente a 32 denti, tutti scintillanti, sfoggiando abitini frou-frou, molti dei quali a quadretti bianchi e rosa in stile BB anni ’50.

      Ryan Gosling è un Ken bravissimo a fare l’allocco in Paradiso che vive di luce riflessa, con la zazzera biondo-rosata, i bermuda coloratissimi e i giubbini modaioli.  Ma per quanto ce la metta tutta a mantenere un basso profilo allo scopo di non oscurare la sua bella, alla fine è lui la vera star  che risalta nel film. Infatti Ryan-Ken balla, suona e canta a meraviglia (l’attore protagonista di La La Land è anche musicista e compositore). Il resto del film è prevedibilmente intriso di cultura woke e di femminismo elementare e didascalico che deve comprendere, ovviamente la guerra tra i sessi, quando i vari Ken,  cercheranno di riappropriarsi del patriarcato perduto, dedicandosi ai cavalli e alla vita da rancheros alla John Wayne (forse la scena più divertente del film), perché stufi del gineceo in rosa.  La leggerezza del musical e del film-giocattolo  non riesce però a cancellare la voglia di lanciare messaggi  gender fluid, da parte della regista Greta Gerwick, femminista dichiarata.  Ed è questo che alla fine rende il film diseducativo e inadatto a un pubblico di  bambini. La voglia di spensieratezza che ci trasciniamo dietro da tre anni a questa parte – anni cattivi e in cattività – anche questa volta viene vanificata dalla famigerata Agenda 2030, alcuni elementi della quale, riescono a far capolino qua e là, in modo intrusivo nella trama filmica. Si strizza l’occhiolino anche alla maternità surrogata e all’elemento transumano,  tanto per finire in banalità, quando Barbie, dichiaratamente asessuata e priva di genitali, nella scena finale si reca dal ginecologo in presumibile gravidanza. Ovviamente non sarà figlio di Ken né di nessun altro, ma solo figlio suo.  Questo, il film lo allude, ma  non ce lo dice apertamente. What a wonderful world!

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