Se non ci fosse chi crea una realtà altra ricorrendo alle parole, saremmo forse tutti obbligati a diventare scrittori. Il desiderio connaturato in noi, di crearci una doppia vita, esplorare mondi sconosciuti o semplicemente vivere un’avventura quasi impossibile persino da sognare, ci avrebbe indotto a diventare tali. Anche il cinema o la televisione danno ad ogni persona la possibilità di sforare dalla realtà quotidiana per entrare in una dimensione diversa, ma non con la stessa potenza della buona letteratura. Ma forse dovremmo eliminare l’aggettivo “ buona” per convalidare un concetto che non sempre è chiaro: la letteratura per fregiarsi di questo titolo o è buona oppure è altro. La forza della parola scritta infatti sta nella sua incompletezza, nel suo stato di arte fondamentalmente povera rispetto al cinema ad esempio. Per essere più chiari, diciamo che il medium cinematografico utilizza le immagini scelte da altri escludendo quindi “l’allenamento del muscolo della fantasia“. A scanso di una improbabile contestazione di questa affermazione, che dovrebbe comunque essere corredata da prove, possiamo dire con una grossa percentuale di veridicità che affidare il nostro bisogno di bellezza solo a tv e cinema crei un deficit nell’esercizio dell’immaginazione.
A carico di questa tesi, c’è il giudizio spesso negativo che esprimiamo su film tratti da romanzi. Le immagini suscitate dalle pagine di un libro infatti, sono quasi sempre più significative e belle di quelle che ci propone il film che utilizza la sceneggiatura tratta dallo stesso romanzo. Naturalmente bisogna tenere in considerazione il dato tecnico con cui il cineasta si deve misurare, un ostacolo che la nostra fantasia non deve superare. Quale disciplina quindi può essere più esente da costrizioni di sorta della letteratura che utilizza le sole spoglie parole lasciando alla nostra immaginazione il compito di inventare le immagini di corredo? Il grande scrittore deve godere di una immensa libertà per inventare e il lettore di riflesso riceve in dono l’immenso potere di reinventare lo stesso mondo. E’ evidente in questo ragionamento una chiara accusa alle immagini, specificatamente ad un certo tipo di immagini allineate alla cultura di carattere consumistico, di minare fortemente l’immaginario collettivo. A proposito di tale asserzione, citiamo Pasolini, che in un’intervista (ma lo fece in innumerevoli casi) di molti anni addietro metteva bene in evidenza la forza di coercizione della televisione. Egli affermava che il mezzo televisivo è un mezzo autoritario che non permette una circolazione a doppio senso della comunicazione ma si rivolge ad un pubblico senza potere di replica e fondamentalmente inerte. Di conseguenza, tale pubblico con il tempo perde quella forza dirompente della vivida fantasia tipica di una mente in buona salute. Ecco, questa forma di gabbia a cui ci abitua il racconto di immagini, nella pagina scritta non esiste. Ci sono persone che non possiedono un televisore ( il sottoscritto è stato per anni uno di essi ), ai quali di conseguenza è preclusa la possibilità di accedere al cinema o alla TV , per lo meno in casa, eppure stando ad ascoltare ciò che dicono, e io confermo, vivono benissimo, facendosi bastare i libri. Quale lettore non ha costruito visi, città, paesaggi con la propria mente nell’istante in cui il proprio occhio si è posato sulla pagina scritta?
Questa magia è un flusso che passa dalla mano dello scrittore alla mente del lettore.
Affinchè si sviluppino i mondi evocati dallo scrittore però, è necessario che il seme lanciato dalla sua mano atterri su un terreno fertile di ricettività, cosa di cui non tutti i lettori sono dotati allo stesso modo.
E’ quindi infine, un incontro tra due predisposizioni distinte e separate, che però, in alcuni casi confinano e in altri addirittura si confondono.
Accade allora, che gli anfratti reconditi di tanti lettori più sensibili di altri, vengano così modificati, potenziati nella loro capacità di immagazzinamento, fino al punto da creare una pressione tale da indurre chi è “vittima” di tale fenomeno a cercare una valvola di sfogo… e cioè la parola scritta!
Il lettore ad un certo punto, vuole cambiare la sua posizione: da consumatore di letteratura sente la spinta irresistibile a generare egli stesso altri mondi, o meglio, a dare veste al suo universo interiore cresciuto a dismisura nutrendosi di scritti altrui. E se la sensibilità del lettore è particolarmente affinata ed è naturalmente portato ad appropriarsi dei linguaggi artistici, e intendiamo in questo caso la prosa, può scattare la molla dell’emulazione o quella immensamente più interessante che permetterà di proiettare nel nostro campo visivo un nuovo talento. Essere artisti, e in particolar modo scrittori per innumerevoli persone occupa la posizione più alta nella propria personale scala dei valori.
Ma andando più a fondo, possiamo arrivare a pensare che il seme della letteratura fecondi in noi la piantina, che a volte appassisce prematuramente mentre altre volte cresce rigogliosa, nell’età giovanile.
Per tale motivo essa lascia segni che possono modificarsi nel tempo ma che comunque resteranno per sempre indelebili.
La letteratura diventa infatti motore della crescita e parte costitutiva del DNA. Si tramuta in vero e proprio cibo del pensiero, esattamente come la pasta col pomodoro è stato l’alimento che ha disegnato la nostra morfologia. Guida la nostra esperienza dall’adolescenza all’età adulta, condizionando scelte che segneranno per sempre la nostra esistenza. Essa diventerà così preponderante nella scelte anche più spicce della nostra quotidianità, che l’idea di rendere ciò che abbiamo
assorbito, proprio come se fossimo una spugna, diventa un vero e proprio bisogno irrinunciabile. Veniamo dunque a una domanda che ci poniamo da tempo, e cioè, il motivo per cui in Italia come ovunque sul pianeta un immenso numero di persone scrive senza che questo costituisca il loro lavoro. Possiamo solo fare congetture, ma a dimostrazione che l’argomento è intricato, piuttosto che intravedere risposte siamo colti da altre domande. Insomma, la bellezza e le emozioni che un libro ci può dare non sono forse la corrispondenza di una nostra intima predisposizione celata sotto l’ansia della vita quotidiana inesorabilmente spesa nella corsa alla sopravvivenza?
Siamo poeti prestati alla concretezza?
Siamo fatti di spirito molto più di quanto sospettassimo?
Perché ci arrovelliamo spesso, con tutti i problemi che ci piovono addosso, sul fatto di non riuscire a mettere insieme un periodo che sia all’altezza non diciamo di Dostoevskij ma più modestamente di Fabio Volo?
Quando siamo presi dal magone al cospetto di un paesaggio mozzafiato non è forse la reminiscenza di un libro letto anni prima che innesca l’epifania percettiva?
E’ forse il desiderio di girare agli altri questi frammenti di catarsi liberatoria che abbiamo ricevuto in regalo ad indurci a scrivere anche se non sappiamo farlo?
Lettere segrete mai rese pubbliche, libri autoprodotti, poesie impolverate dal tempo chiuse a chiave nei cassetti, creative liste della spesa, i casi in cui la letteratura si travasa nel sangue delle persone sono sterminati. Il desiderio di riuscire nell’impresa di comunicare l’incomunicabile ci prende la mano, il folle progetto di dare una forma riconoscibile al magma emozionale che ci governa per proporlo al prossimo e uscire dal solipsismo esistenziale, ci attanaglia. Creare un ponte con gli altri retto sui ponteggi della nostra più recondita natura si profila come una possibilità che potremmo avere a portata di mano. Cerchiamo di rendere intellegibili ad altri, istanze che hanno origine in noi ma di cui noi stessi abbiamo smarrito o non abbiamo mai posseduto la chiave di lettura. La letteratura è tra le tante cose un invito perentorio all’introspezione che in alcuni può assumere il carattere dell’esame impietoso a cui sottoponiamo la nostra coscienza. Il tentativo di tramutare l’input immaginativo in pagine seducenti è una strada che può portare lontano, senza neanche sapere dove, ma che è sicuramente riconducibile alla frequentazione dei libri. Leggiamo quindi siamo, questo sunto è arbitrariamente proposto dal sottoscritto, ma credo che abbia un forte connotato di verità per moltissimi altri.
Se la comparazione della nostra esperienza non può avvalersi di un confronto con quella di altri, cosa saremmo? E leggere, non è in ultima analisi anche misurarsi con l’altro; l’autore?
“Delitto e castigo” non è forse uno degli esempi più eclatanti di quanto sia ineludibile nella nostra vita il peso della coscienza? Quante volte di fronte al desiderio di forzare i limiti della morale per mettere alla prova il superuomo che alberga in noi ci è venuta in mente la parabola di Raskol’nikov?
Sappiamo comunque che la scrittura sprona non solo i lettori più selettivi a misurarsi con essa, ma anche agli affezionati della letteratura rosa, a quelli che leggono solo sotto l’ombrellone e a volte addirittura ai lettori per caso.
Certo, poi si tratta di maneggiare una lingua difficile, in cui per dire la stessa cosa abbiamo in alcuni casi, innumerevoli vocaboli. Una lingua che propone una quantità vertiginosa di soluzioni per vestire lo stesso pensiero, al punto che il più delle volte scegliere si rivela una fatica fuori dalla nostra portata.
Ma ciò è piuttosto trascurabile, perché la cosa veramente importante è che o in veste di semplice lettore oppure di aspirante scrittore, si accetti la sfida racchiusa nella pagina scritta. Riconosciamo infine che si, la letteratura è una vera e propria malattia, per la quale fortunatamente c’è una cura, e cioè quella di viverla appassionatamente, in un modo o nell’altro.




