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      • L’operazione speciale del neofemminismo

      L’operazione speciale del neofemminismo

      Quando Putin decise di invadere l’Ucraina il 24 febbraio 2022, definì la sua iniziativa militare “operazione speciale” e si rifiutò sempre di definirla guerra. Circa vent’anni prima gli Stati Uniti avevano presentato all’opinione pubblica le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq come “operazioni militari volte a introdurre la democrazia e i diritti umani in aree soggette a feroci dittature”. Oggigiorno anche nelle democrazie non impegnate direttamente in conflitti bellici, è un profluvio di terminologie ed espressioni utilizzate per confondere più che per denominare in modo preciso i loro referenti: fascismo, patriarcato, colpo di stato, ecc..
      La lingua è ormai piegata alle esigenze dell’onnipresente propaganda. Ma se nei suddetti due casi, russo e statunitense, è relativamente facile cogliere la discrepanza tra le parole e i fatti, non lo è altrettanto quando si fa riferimento alla propaganda in tempo di pace nei sistemi formalmente democratici, perché si ammanta di terminologie virtuose e inclusive. Può nascondersi il lupo sotto la pelle dell’agnello? Certamente sì.

      Oramai siamo oltre la banalità del male argomentata da Hannah Arendt. Il male che si diffonde nelle democrazie non è più banale, ma sempre più diventa dialetticamente impregnato di moralismo: è diventato “buono”. Con questo non si vuol certo negare che il male non sussista ancora nella sua forma più schiettamente riconoscibile di primo acchito, sarebbe follia, semplicemente che questa non è l’unica e neppure quella prevalente in UE e in genere in Occidente. Il male non è, infatti, solo violenza fisica o platealmente psicologica, ma è anche manipolazione, contraffazione, mistificazione, odio imbellettato da belle parole.

      Nel diffondere questo tipo di male, che già Dante puniva tra i più gravi nel suo poema, il neofemminismo è maestro. La sua “operazione speciale” non mira a invadere territori e ad annetterli, bensì da tre decenni circa a invadere menti, maschili e femminili, e a trascinarle nelle sua orbita di influenza. Negli ultimi anni però assistiamo a un crescendo, perché essa non si limita più al fronte interno occidentale, ma tende sempre più a estendersi oltre i suoi confini, ricorrendo per di più alle armi convenzionali, da guerra guerreggiata, come il fronte orientale testimonia.

      È ormai tempo che si ponga l’accento sul ruolo politico che svolge a livello UE la più grande lobby europea, ossia quella neofemminista. Una tesi di laurea del 2010, che si può liberamente recuperare on line, presenta in maniera dettagliata la struttura e le attività di questa lobby, costantemente finanziata con i soldi dei cittadini europei, a loro insaputa ovviamente. Così inizia l’abstract della tesi della dott.ssa Forteschi

       

      La pratica politica dell’European women’s lobby: “La tesi colma un vuoto storiografico presente in Italia come in Europa sul lavoro e le pratiche politiche di una coalizione, quella della Lobby Europea delle Donne (European Women’s Lobby – EWL), a tutt’oggi posta sempre in secondo piano dalla gran parte degli studiosi e delle studiose di politica e di sociologia. Si tratta, dunque, di un lavoro di riscoperta di una organizzazione che dal 1990 ad oggi ha saputo riunire e coordinare all’incirca 4000 organizzazioni femminili e femministe in tutta Europa. Uno studio che, partendo dai concetti di lobby e di lobbismo, analizza e descrive l’impegno politico di quella che ad oggi è una delle più grandi coalizioni europee. In questo senso manca anche, e soprattutto, un dibattito critico a riguardo; una lacuna che permette di avere solo una visione incompleta e frammentaria dell’argomento. In Italia, gli studi sociologici e storico-politici sembrano deliberatamente [la sottolineatura è mia] non tenere in considerazione questa istituzione: nei numerosi testi che affrontano il lobbismo e le lobbies raramente si fa menzione alla Lobby delle Donne, come ho potuto evincere dai numerosi autori e autrici cui ho fatto riferimento per il presente lavoro…”.

       

      Oggi la lobby è più attiva e forte che mai, per quanto rappresenti, è bene sottolinearlo, solo una delle tantissime ramificazioni del potere globale neofemminista che è ormai diventato espressione del potere tout court in area UE e nell’intero Occidente (preferisco utilizzare il prefisso neo, in quanto evidenzia la nuova fase di questo movimento ideologico diventato oramai establishment e pronto a integrare qualsiasi minoranza di genere o etnica possa essere strumentalizzabile). Questa lobby ha costanti rapporti con i vertici della Commissione europea e ne influenza l’operato (si contano 34 riunioni ufficiali con la Commissione europea dal 18-12-14 al 29-03-23, 25 con il Parlamento europeo dal 17-11-21 al 09-12-23; è facile supporre che invece i contatti informali siano assai più numerosi, forse costanti), facendo parte di quell’anticamera del potere che è a tutti gli effetti potere.

      Questo potere onnipresente in area UE, e generalmente occidentale, ha però bisogno del supporto dell’élite capitalista, non solo in termini di finanziamenti ma anche di risorse mediatiche, indispensabili per poter diffondere la propria propaganda, strumento manipolatorio di cui il neofemminismo fa un utilizzo massiccio e diffuso. Si è così venuto a creare uno stretto legame tra èlite globalista e neofemminismo (il capitalfemminismo come lo definisco), che ha contribuito a trasformare questo movimento ideologico nel principale pilastro sovrastrutturale dell’odierna fase del capitalismo (il trumpismo-sovranismo rappresenta l’ala meno globalista e più tradizionalista dell’attuale sistema capitalista, e ciò basta a quella “progressista” per avversarlo nonostante sia anch’esso parte del sistema).

      Si tratta di un tacito accordo che conviene a entrambe le parti, perché anche il capitalismo ha il suo ritorno d’immagine potendosi indirettamente fregiare delle reclamizzate campagne neofemministe impregnate di moralismo e buonismo d’accatto, usufruendo al contempo della strategia del “divide et impera”(che il neofemminismo garantisce con il suo operato) da sempre a difesa dello status quo (a titolo di esempio tra i tantissimi, si pensi alla presenza costante dell’ultrafemminista Lilli Gruber dal 2012 alle segretissime e influentissime riunioni del gruppo Bilderberg o alle dichiarazioni della femminista critica Nancy Fraser:

      «Il femminismo liberale [cioè praticamente tutto, ndr] è una sorta di partner progressista di Wall Street, della finanza, del capitalismo digitale».

      Il processo che ha portato il femminismo a trasformarsi in neofemminismo è di durata più che trentennale, ma la novità più recente è che questo potere sta sempre più assumendo contorni “imperialistici”, perché sempre più deciso a imporre la sua “visione del mondo” anche in quelle aree che non sono state ancora “redente”, quindi femministizzate, come la Russia putiniana o la Bielorussia di Lukashenko. Lo si è osservato negli ultimi anni sia dalla continua attività di creazione e supporto di iniziative antiputiniane “di genere” in Russia, dal sostegno alle Pussy Riott (“Putin un terrorista patriarcale”) fino alla più recente trasformazione della vedova Navalny in un’eroina per la libertà (da candidare e supportare, ovviamente in caso di caduta del regime attuale, con un programma facilmente immaginabile), ma soprattutto dall’odierna retorica guerrafondaia che vede le neofemministe, e i partiti in cui militano più massicciamente, irriducibili sostenitrici dell’armiamoci e partite. Non porta avanti più solo una guerra psicologica interna all’Occidente, affidata alla propaganda ma anche a metodi più repressivi, ma anche esterna, ossia contro il maschio “patriarcale” in quelle realtà politiche che ancora non controlla, come nel caso della Russia o dell’Iran, finendo per intrecciare le proprie velleità politico-ideologiche con quelle più materiali e geopolitiche dell’élite globalista, che trova nel partito democratico statunitense, nei suoi epigoni europei e nelle grandi istituzioni sovranazionali espressione politico-governativa.

      Il ruolo del neofemminismo nella scelta UE di percorrere ostinatamente la strada della guerra, senza mai passare per un qualsiasi tentativo diplomatico e di mediazione tra le parti direttamente belligeranti, non va affatto trascurato come tanti intellettuali fanno, invece messo affianco alle motivazioni più note, da quelle geopolitiche a quelle economiche. Molti esperti di politica internazionale, veri o presunti, lo ignorano, sia perché condizionati da un pregiudizio positivo (un’idea anacronistica di questo movimento ideologico, che considerano ancora “femminismo” ossia nella sua versione europea pre 1989), sia perché abituati a ragionare in base a schematismi novecenteschi.

      Tanti, comprensibilmente, non riescono a trovare una logica nella politica estera UE dal febbraio 2022 a oggi o faticano a intravederne una razionalità pragmatica (e infatti che cosa ci può essere di razionale nel supportare una guerra costata circa 150 miliardi di euro più spese varie per armamenti, nonché un’inflazione alle stelle e una crisi industriale per essersi privati del gas russo a buon mercato, e soprattutto nell’esporre i cittadini europei, mai interpellati, ai rischi di una potenziale guerra nucleare, tutto per un Paese che non fa parte della UE né della NATO?). Ebbene, il neofemminismo è, dal punto di vista dell’interesse collettivo, irrazionale e irresponsabile, e non bada certo alle ricadute negative delle proprie iniziative, ma solo al suo tornaconto immediato. Considera Putin un cattivo maestro, che gode di troppo seguito in Occidente, e questo è sufficiente per avversarlo con l’ostilità che tipicamente esprime nei confronti dei suoi oppositori.

      La Russia è per il neofemminismo una spina nel fianco, come l’Ungheria di Orban, perché testimonia che una società non femminilizzata in Europa è possibile e può essere, limitatamente alla relazione tra i sessi, perfino preferibile a quella che si sta imponendo nell’Occidente neofemminista, che Putin, con i suoi mille scheletri dentro e fuori dall’armadio sia chiaro, definisce a ragione decadente e nichilista. La UE e il partito democratico statunitense, alla testa dei quali il neofemminismo ha piena voce in capitolo, non possono essere che ferocemente antiputiniana, considerando il leader russo il male assoluto in quanto “patriarcale”.
      Senza questo tassello di carattere ideologico (la guerra russo-ucraina è anche una guerra ideologica per quanto non di vecchio stampo) ci si vota inevitabilmente all’impossibilità di ricostruire il puzzle.

      Ne consegue che la sacrosanta critica e opposizione al neofemminismo debba arricchirsi di una nuova pagina, che ne metta in evidenza l’influenza nelle politiche imperialistiche occidentali, dirette o indirette che siano, com’era d’altronde parso intuibile già all’inizio del nuovo millennio, quando le guerre neocolonialiste che gli USA e i suoi alleati intrapresero contro l’Afghanistan prima e l’Iraq poi vennero giustificate anche grazie alla copertura ideologica neofemminista.

       

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