Sul set, il regista Simon è a rischio di perdere il controllo: la storia già esplosiva degli operai di una fabbrica che lottano per salvare i posti di lavoro diventa complicata da gestire da entrambi i lati della cinepresa. Con la produttrice Viviane che minaccia tagli al budget e l’attore principale che protesta per tutto, Simon deve anche decidere a chi assegnare la realizzazione del “making of”. La persona più indicata sembra una delle comparse, Joseph, giovane pizzaiolo con ambizioni da cineasta.
Il regista francese Cédric Kahn gira Making of in una fase di grande fervore della carriera, nello stesso anno in cui fa uscire Le procès Goldman, con la sua energia vibrante che mette in scena un processo interrogandosi sulla sua natura di spettacolo raccontato. Parte di quella energia si conserva e si trasforma anche nella nuova opera, non meno preoccupata dal guardare all’essenza di tutto ciò che è performativo.
Stavolta è il cinema stesso a essere messo alla sbarra, in una cronaca caotica delle riprese di un film in cui tutto è sempre a un passo dall’andare a rotoli. Non si immagini della poesia concettuale e compiaciuta sull’arte che si guarda allo specchio, né echi felliniani o alla Truffaut: Kahn guarda al mestiere del cinema come pura sopravvivenza, impietoso pragmatismo, controllo delle masse e politica d’ufficio.
Sull’aspetto artistico Simon, affidato agli occhi malinconici di un interprete d’eccezione come Denis Podalydès, è amaro e disilluso (certo, non aiuta la vita personale con la moglie Valérie Donzelli lontana in molti sensi), convinto di essere finito; il dualismo tra il film e la sua costola lo contrappone all’idealismo di Joseph (altro ruolo per il talento in ascesa di Stefan Crepon), che sogna in grande ed è deciso a cogliere la sua occasione anche a costo di travisare completamente il concetto di un banale dietro le quinte.
Due modi di interpretare un set, due visioni di cosa sia – possa essere – il cinema. Eppure alla fine nessuna delle due è quella vera; più che una linea di dualismo, Kahn mette in scena un’ambigua sfumatura tra il reale e il drammatico che si fondono insieme, diventando a volte indistinguibili per come le lotte operaie della fabbrica rispecchiano quelle dei lavoratori della troupe a loro volta in pericolo.
Scene corali di discussione si aprono senza che lo spettatore sappia se sta assistendo all’una o all’altra. Perché cinema e lavoro sono in fondo la stessa cosa. E l’unica sua possibile testimonianza artistica rimane quella del buon Joseph, ancora non stremato da un’industria diabolica.