Claudine è la madre di un giovane uomo disabile, che accudisce a casa, dove lavora come sarta. Tutti i santi giorni, tranne il martedì, quando prende il treno e va lontano. Oltre la diga della Grande-Dixence c’è un hotel dove sceglie un uomo, per piacere, per niente, senza legami. Italiano, inglese, tedesco, dopo uno scambio educato di battute incentrate sul paese d’origine dei forestieri, Claudine si invita a salire nella loro camera. Consuma un amplesso, ringrazia e se ne va. Poi un giorno incontra Michael, un ingegnere idrico affascinante e affascinato, che fa progressivamente deragliare la sua routine ascetica.
Incontrare Jeanne Balibar è un dono, un impulso poetico che Maxime Rappaz abbraccia col suo ritmo e la sua silhouette, discreta e fluttuante sopra le architetture di cemento, le cime rocciose e gli angoli scoscesi.
Una panoramica verticale scorre con la funivia lungo la facciata metallica di un hotel e coglie insieme una donna e un paesaggio sublimato dal suo passaggio, dai suoi infiniti riflessi.
Immerso in una fredda luce bianca, Solo per una notte appartiene a un genere inesauribile e non importa quante storie d’amore impossibili abbia collezionato, l’orizzonte del melodramma prende atto ogni volta della loro singolarità. Quella singolarità, come il movimento romantico, è incarnato dal corpo dell’attrice fino a piegare la rigidità delle linee che la sovrastano come l’amore grande per suo figlio. Così grande che non ne ha più per nessun altro. E per se stessa? È la domanda sommessa che pone questo ritratto sofisticato e classico, con il suo pudore antico e la sua deliberata lentezza.
Ambientata nel 1997, prima che i social network prendessero d’assalto le nostre vite e prima che la principessa Diana cedesse al suo tragico destino (il figlio di Claudine la venera insieme a Johnny Logan), l’opera prima di Rappaz annulla gli stereotipi di genere – la madre, la santa, la puttana – per raccontare soprattutto una donna. Una donna un po’ teorica a cui Jeanne Balibar dona carne, sangue e un dolore invisibile ma tangibile a chi, come Michael (Thomas Sarbacher), la guarda da vicino. Nei talami occasionali, Claudine vuole soltanto spegnere il mondo, accarezzare, farsi accarezzare, sentirsi viva con qualcuno che non vedrà mai più. Il mistero fuori campo della sua ‘libertina’ viene dissipato tra le mura domestiche, dove la scopriamo madre devota di un figlio (Pierre-Antoine Dubey) che dipende completamente da lei. È l’amore per lui a imprigionarla, a incatenare l’uno all’altra, senza commiserazione. Poi uno sguardo e un varco si apre in quel suo quotidiano a orologeria, nuovi gesti e nuove possibilità si spalancano per la protagonista che marcia su tacchi troppo alti, ficcati nel cuore di un uomo e di un impressionante impianto idroelettrico.
Presenza-assenza incandescente, Balibar dona sottotesti inaspettati a una storia di emancipazione intima e romantica, solcando un orizzonte apertamente anacronistico. Calamitati dalla sua aura non possiamo che salire in vetta, dove si procura la materia prima per scrivere lettere fittizie inviate al figlio ‘da un padre assente’. Tra le due vite di Claudine c’è un compartimento stagno che solo lei può attraversare e che il film si guarda bene dal giudicare, giocando su una dualità permanente, quella di una donna in altitudine che afferma il suo diritto a condurre la vita che crede – è la bella passeggera di un passaggio rituale – e quello di una madre a valle, dedicata e segreta dietro il grembiule di lavoro. Jeanne Balibar è il film, è un’ascensione solitaria e malinconica nella geometria obliqua di Maxime Rappaz.