Los Angeles. Il sassofonista Fred Madison è perseguito dall’invio di una serie di videocassette che riprendono la sua vita da vari punti di vista. Sposato con Renée, partecipa con lei a un party dove viene avvicinato da un misterioso uomo che si prende gioco di lui e lo terrorizza. Il giorno dopo, Fred riceva una VHS in cui si vede il corpo di Renée massacrato. Arrestato per omicidio, in prigione soffre di lancinanti emicranie e una mattina, in cella, al posto suo si risveglia un altro uomo, Pete, giovane meccanico che viene immediatamente rilasciato. Al soldo della malavita, Pete diventa l’amante della ragazza del boss, Alice, straordinariamente somigliante alla moglie di Fred. La donna coinvolge Pete in un colpo ai danni di un regista di film porno: tutto però va storto e l’uomo entrerà in un regno di follia e mistero…
Tornare su un film che ha fatto epoca, grazie al ritorno in sala, è un buon modo per verificarne la tenuta, l’importanza per l’evoluzione del suo regista e del cinema venuto in seguito.
A metà anni Novanta, attraverso il lavoro iniziato con la serie Twin Peaks, David Lynch abbraccia il mondo dell’inconscio e abbandona la superficiale razionale che ancora caratterizzava il noir di Velluto blu e il road movie di Cuore selvaggio. Con Strade perdute, i suoi film entrano in un territorio che sta oltre il reale, irreale e insieme surreale, che poco alla volta erode le certezze dei personaggi e dello stesso spettatore, entrambi confusi (e minacciati e terrorizzati) da atmosfere oniriche incerte e inspiegabili.
Subito rinnegato dal successivo Una storia vera (che con la sua precisione e la sua nettezza diventa però il contraltare del mondo di Lynch, l’altro versante della medaglia), ma poi esaltato dai capolavori Mulholland Drive e INLAND EMPIRE, lo stile del regista americano, fatto di immagini curatissime e lucide, di atmosfere metalliche e iper-illuminate o scurissime, oltre il genere noir e le implicazioni hitchockiane (a cominciare dalla presenza di personaggi femminili doppi, di femme fatale bione e brune) distrugge le convenzioni del cinema di genere e dà forma visiva all’invisibile realtà dell’immaginazione.
Di cosa parla Strade perdute? Di un uomo che scopre di essere spiato da qualcuno, che viene arrestato per un omicidio che non sa di aver commesso, che si sveglia in prigione nei panni di qualcun altro. O forse, chissà, di un protagonista che viene sostituito da un altro protagonista, che è lui e al tempo stesso non è lui, come se due universi distinti entrassero in collisione, paralleli e incrociati al tempo stesso, presenti e assenti l’uno all’altro.
L’assoluta gratuità dell’intreccio – che in maniera fin troppo evidente rinuncia a qualsiasi tentativo di spiegazione – evidenzia il senso di gratuità del cinema stesso, arte che fin dalle sue origini fa rivivere sullo schermo la realtà e per questo la apre inconsapevolmente al suo opposto, all’irrealtà. Nel film non c’è nulla di logico, se non il cinema stesso, che proprio perché è in grado di rappresentare un evento e la sua negazione, il corpo e il suo sostituto, l’essere qui e anche l’essere altrove (come dimostra l’ingresso da incubo de misterioso uomo alla festa, forse la creazione più spaventosa di tutto il cinema di Lynch), diventa la sola forma di rappresentazione capace di trovare una sintesi tra realtà e sogno, ragione e follia.
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