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      • ARRIVANO I CYBORG: L’ACCOPPIAMENTO DELL’IA CON LE CELLULE CEREBRALI UMANE

      ARRIVANO I CYBORG: L’ACCOPPIAMENTO DELL’IA CON LE CELLULE CEREBRALI UMANE

      Se si leggono e si crede ai titoli dei giornali, sembra che gli scienziati siano molto vicini alla possibilità di fondere il cervello umano con l’intelligenza artificiale. A metà dicembre 2023, un articolo di Nature Electronics ha scatenato un’ondata di entusiasmo per i progressi compiuti sul fronte transumano:

      “Un ‘biocomputer’ che combina tessuto cerebrale cresciuto in laboratorio con hardware elettronico”.

      “Un sistema che integra le cellule cerebrali in una macchina ibrida è in grado di riconoscere le voci”.

      “Brainoware: fusione pionieristica di intelligenza artificiale e organoidi cerebrali”.

      Se gli scienziati stanno cercando di iniettare tessuto cerebrale umano nelle reti artificiali, è perché l’IA non funziona così bene come siamo stati indotti a credere. L’intelligenza artificiale utilizza un’enorme quantità di energia per il suo tipo di elaborazione parallela, mentre il cervello umano utilizza circa la potenza di una lampadina per fare la stessa cosa. I progettisti di IA stanno quindi cercando di cannibalizzare alcune parti dagli esseri umani per far funzionare le reti artificiali con la stessa efficienza dei cervelli umani. Ma lasciamo da parte per il momento le carenze dell’IA ed esaminiamo questa nuova innovazione cyborg.

      La scoperta nel campo della biocomputazione, riportata da Hongwei Cai et al. su Nature Electronics, prevede la creazione di un organoide cerebrale. Si tratta di una palla di cellule staminali coltivate artificialmente e indotte a svilupparsi in neuroni.

      Le cellule non vengono prelevate dal cervello di una persona, il che ci solleva da alcune preoccupazioni etiche. Ma poiché questo grumo di neuroni non ha vasi sanguigni, come il normale tessuto cerebrale, l’organoide non può sopravvivere a lungo. Quindi, in ultima analisi, la prospettiva di addestrare gli organoidi ad elaborare insiemi di dati non sembra al momento praticabile, almeno dal punto di vista economico.

      Ma questo non fermerà la ricerca. La spinta ad integrare senza soluzione di continuità biologia e tecnologia è forte. Ma si può fare? E perché così tanti ricercatori e agenzie di finanziamento pensano che sia possibile?

      SPERANZE TRANSUMANE

      Alla base delle speranze del transumanesimo c’è una filosofia materialistica che segue una logica del tipo: i sistemi viventi sono composti da materia ed energia, le interazioni di materia ed energia possono essere espresse in un codice e il materiale usato per creare il biohardware dovrebbe essere irrilevante e può essere sintetico.

      In base a questi presupposti, i transumanisti pensano di poter migliorare l’”hardware” biologico con materiali non biologici, di essere in grado di riprogrammare il “software” biologico, dopo averne decifrato il “codice”, e di poterlo combinare con l’elettronica per aumentare le capacità umane.

      Quando i ricercatori integrano il tessuto cerebrale in una rete artificiale, lo trattano come se fosse l’hardware con cui sono abituati a lavorare. Vedono ogni neurone come se fosse acceso o spento, come un interruttore elettronico, e vedono i dendriti che si collegano ad altri neuroni come dei fili.

      Le connessioni più forti tra i vari neuroni vengono “pesate”, in senso statistico, attraverso interazioni differenziali e ripetute.

      Se queste persone particolarmente predisposte esercitassero la loro influenza nel campo dell’istruzione, probabilmente tratterebbero gli studenti come reti neurali che possono essere programmate con la memorizzazione ripetitiva e presumerebbero di poter stimolare la risposta desiderata semplicemente applicando premi e punizioni. Questa tecnica produce automi, non pensatori critici. Ma questo è un argomento per un altro articolo.

      GLI ORGANOIDI POTREBBERO AVERE UN ALTRO TIPO DI INTELLIGENZA

      Se i ricercatori pensano ai sistemi viventi come a computer digitalizzati, avranno dei problemi con i loro organoidi. E se i neuroni elaborassero le informazioni in modo assai diverso da come fanno le reti neurali artificiali? E se i neuroni comunicassero tra loro propagando onde bioelettriche attraverso un mezzo? E se, quando elaborano, fosse come se delle gocce di pioggia creassero anelli concentrici in uno specchio d’acqua, con gli anelli concentrici che si scontrano creando modelli di interferenza? E se fosse un fenomeno complesso?

      I ricercatori del mio campo, la Biosemiotica, si stanno ponendo queste domande. Nella loro visione dell’attività cerebrale, i neuroni non sono solo collegati  con dei fili, ma si coordinano tra loro in virtù del loro ambiente condiviso. Quando un cervello umano è in attività onde bioelettriche tridimensionali investono il tessuto e creano connessioni virtuali: i gruppi interessati dall’onda diventano momentaneamente coordinati. Non credo che ci sia un processo analogo in una rete neurale artificiale, dove la fluidità è solo una metafora e la struttura del sistema è molto più fragile e fissa.

      Un sistema incredibilmente complesso come un organoide non può essere compreso a fondo paragonandolo ad un sistema meno complesso come un circuito stampato. Ogni neurone ha il vantaggio di miliardi di anni di evoluzione; le condizioni ambientali possono indurre il DNA a produrre una varietà di proteine per ogni tipo di utilizzo. Ogni cellula è dotata di piccoli organelli complessi (che discendono da creature protiste che si muovevano in libertà!) per gestire l’elaborazione di ogni sorta di segnali diversi provenienti dall’esterno. Ogni cellula ha recettori e piccoli pori ionici che filtrano i segnali.

      Ma non sono una snob della biologia. I computer sono strumenti incredibili nelle mani delle persone. Ma i computer digitali possono/devono essere strumenti all’interno della testa delle persone o il tessuto cerebrale può/deve essere incorporato nei computer digitali?

      BRAINOWARE: COME FUNZIONA

      La configurazione dell’invenzione descritta nell’articolo di Nature Electronics è straordinariamente semplice. L’organoide viene posizionato su un array multielettrodo (MEA) 2D ad alta densità, che emette impulsi elettrici ai quali i neuroni dell’organoide rispondono producendo propri schemi elettrici. Questo dispositivo è stato chiamato “Brainoware” ed è in grado di riconoscere le voci.

      Da “Brain Organoid Reservoir Computing for Artificial Intelligence“, di Hongwei Cai et al.

      In primo luogo, le registrazioni vocali vengono effettuate e digitalizzate in un modello 2D che può essere modellato sul MEA 2D. Questo modello vocale digitalizzato è l’input utilizzato per stimolare l’organoide cerebrale che, a sua volta, produce un modello che riflette sia il modello vocale che la struttura interna della dinamica dell’organoide stesso. I neuroni stimolano e sono stimolati da altri neuroni in modo non lineare, e questo significa che alcune caratteristiche possono essere smorzate, altre amplificate.

      L’illustrazione della struttura sopra riportata è tratta dall’articolo vero e proprio, non da una versione semplificata per lettori pre-scolastici.

      L’esperimento è stato dichiarato un successo quando, dopo l’addestramento, l’organoide ha migliorato la sua capacità di distinguere i suoni vocalici di una voce maschile da altre sette voci maschili e femminili. Prima dell’addestramento, l’organoide era in grado di distinguere il parlante circa il 51% delle volte, mentre, dopo l’addestramento, la precisione era del 78%.

      MA, UN MOMENTO!

      Prima di entusiasmarci troppo per questo successo di fusione tra uomo e macchina, per la possibilità di utilizzare cellule cerebrali asservite per costruire un computer in grado di origliare le nostre conversazioni, faccio notare che, più di vent’anni fa, ERA stato fatto un esperimento assai simile analizzando le increspature nell’acqua contenuta in un secchio, che svolgeva un ruolo simile a quello dell’organoide cerebrale.

      In quell’esperimento, l’acqua veniva utilizzata per distinguere tra le registrazioni vocali delle parole “Uno” e “Zero”, con un tasso di errore di appena l’1,5%. Di seguito è riportata un’immagine dei modelli tridimensionali delle parole pronunciate da questi ricercatori.

      I modelli di “Zero” sono a sinistra e quelli di “Uno” a destra. Da Fernando e Sojakka.

       

      Ritengo che i ricercatori di Brainoware non stiano sfruttando appieno il potenziale neuronale, se un secchio d’acqua può “elaborare” le informazioni meglio di un organoide cerebrale. È un po’ come usare la raccolta delle opere di Shakespeare come fermaporta.

      In “Pattern Recognition in a Bucket“, Chrisantha Fernando e Sampso Sojakka fanno notare che esperimenti simili erano stati condotti presso l’Unconventional Computing Laboratory, gestito dal diabolico Andy Adamatzky dell’Università del West of England, a Bristol, nel Regno Unito. Da molti anni Adamatsky utilizza sostanze chimiche (che formano onde di reazione-diffusione) e funghi mucillaginosi per fare calcoli e funzionare come riserva di memoria.

      Ecco come appaiono i modelli Zero e Uno nell’acqua del secchio. Da Fernando e Sojakka.

      COS’È UN RESERVOIR COMPUTER?

      Ho dovuto informarmi sull’argomento [anche il traduttore]. A me, filosofa della scienza che aveva iniziato con la teoria della letteratura, leggere articoli di informatica ricorda la lettura di Jacques Lacan e Derrida: un sacco di terminologia inutilmente opaca che copre affermazioni tutto sommato banali.

      Deduco che un serbatoio può essere un qualsiasi tipo di sistema fisico costituito da singole unità che possono interagire tra loro in modo non lineare, e queste unità devono essere in grado di essere modificate dall’interazione. A quanto pare, anche un secchio d’acqua può funzionare come serbatoio. Miguel Soriano lo spiega in questo modo in “Viewpoint: Reservoir Computing Speeds Up”.

      I serbatoi sono in grado di immagazzinare informazioni collegando le unità in cicli ricorrenti, in cui l’input precedente influenza la risposta successiva. Il cambiamento di reazione dovuto al passato permette ai computer di imparare a portare a termine dei compiti specifici.

      Spero sia d’aiuto.

      I serbatoi vengono anche chiamati “scatole nere” perché i ricercatori non conoscono (o non devono conoscere) le complesse dinamiche che avvengono durante la trasformazione dell’input in output. Visto che ogni parola pronunciata non è mai due volte la stessa, penso che, per poter identificare la stessa parola più volte in contesti molto diversi, un sistema non lineare debba elaborare il suono in modo da catturarne l’essenza.

      Riprogettare il computer?

      La fantascienza è spesso in anticipo rispetto alla ricerca vera e propria. Nel film Ex Machina, la donna fatale ha un cervello artificiale fatto di gel, non di chip di silicio e interruttori elettronici. Potrebbe essere uscito dal laboratorio di informatica non convenzionale di Adamatsky.

      Uno dei miei colleghi, J. Augustus Bacigalupi, nel 2012 aveva proposto una riprogettazione del computer chiamata Synthetic Cognition (cognizione sintetica), basata sul fatto che l’elaborazione biologica delle informazioni assomiglia un po’ di più a questo:

      che a questo:

      Bacigalupi aveva ipotizzato una sorta di terreno emergente nel medium interneuronale e aveva immaginato che l’intersezione dei segnali diffusi, l’interferenza, avrebbe potuto essere sfruttata come un segnale utile. Suggeriva che un approccio così diverso avrebbe reso i computer molto più efficienti, in quanto avrebbe integrato più segnali in modo naturale e senza costi aggiuntivi.

      Da quella prima conferenza sulla cognizione sintetica, poco seguita (mentre le conferenze TED di Nicholas Negroponte del MIT Media Lab – secondo cui saremo presto in grado di ingerire Shakespeare digitalizzandolo in una pillola – ottengono molte più visualizzazioni), Bacigalupi ha continuato a specializzarsi in biosemiotica, scrivendo articoli con me e con il nostro collega comune, Don Favareau, come l’ultimo sul Journal of Physiology.

      Una dozzina di anni fa Bacigalupi pensava che nel nostro futuro ci sarebbero stati i cyborg, se solo avessimo usato la nuova tecnologia da lui proposta, in grado di sfruttare ciò che di speciale c’è negli organoidi cerebrali e nei funghi mucillaginosi.

      Ma l’integrazione tra uomo e macchina deve affrontare sfide banali, come la putrefazione della materia organica e l’infiammazione delle cellule a contatto con le varie sostanze chimiche dei dispositivi elettronici.

      C’è un motivo per cui la maggior parte dei primati degli esperimenti Neuralink di Elon Musk non ce l’ha fatta. Un problema simile è quello degli effetti collaterali non voluti (speriamo!) dei prodotti farmacologici di sintesi, che sono la rovina dell’industria. Le cellule biologiche tendono ad interpretare i segni, non a decifrarne rigorosamente il codice. Questa flessibilità permette la creatività adattativa, ma anche esiti terribili e imprevedibili, come, ad esempio, le varie malattie autoimmuni.

      Anche una tecnologia transumana relativamente semplice, come quella dei pacemaker e delle protesi d’anca, può provocare in alcune persone reazioni allergiche ai metalli.

      Un corpo che rifiuta il proprio pacemaker in quanto estraneo e tossico

      E non vedo il motivo di cannibalizzare la biologia per permettere agli informatici di far superare il Test di Turing ai robot. Capisco, ad esempio, il lavoro del team Artemis della NASA che utilizza una tecnologia riprogettata per creare robot migliori, la cui propriocezione si avvale di un mezzo fluido in grado di generare schemi di interferenza che li mettono in grado di orientarsi durante l’esplorazione della superficie lunare. Imitare il modo in cui gli organismi biologici elaborano le informazioni per creare strumenti migliori, più affidabili ed efficienti, sembra un’operazione di buon senso.

      Ma non vedo il motivo di far sembrare umani degli strumenti o di mescolare parti umane ed elettroniche.

      SCHIAVI DEL COMPUTER

      Come chiarisce Ian McEwan nel suo romanzo del 2019, Machines Like Me, lo scopo di creare un robot umanoide è quello di usarlo come giocattolo sessuale e come lavastoviglie. La spinta a disumanizzare le persone in cyborg o a umanizzare i robot deriva probabilmente dal fatto che non è più considerato accettabile ridurre in schiavitù gli esseri umani normali (o i coniugi).

      Ho il sospetto che chi desidera un computer umanoide voglia un compagno perfetto, che sappia tutto del padrone, che possa anticipare ogni suo pensiero e movimento e che risponda di conseguenza. Una tale perfezione in un compagno non gli permetterebbe di esprimere le proprie opinioni o di elaborare i propri obiettivi e scopi.

      Vale la pena di andare oltre il clamore dei titoli dei giornali e approfondire questi temi. Così facendo, possiamo imparare molto su noi stessi. Conduco un webinar mensile intitolato We Are not Machines (Non siamo macchine) attraverso l’IPAK-EDU, in cui io e i miei studenti esploriamo questo tipo di problemi.

      Nonostante gli sforzi concertati per terrorizzarci, non credo che stiamo per essere sostituiti come forza lavoro (si perderanno solo i lavori di merda) e non credo che i computer saranno in grado da un momento all’altro di prendere il sopravvento e trasformarci in operai-robot o in batterie.

      Siete straordinari così come siete, con i vostri neuroni strambi e il vostro cervello viscoso. E, se perfezioneremo i nostri strumenti esterni e li useremo con saggezza, potremo essere ancora migliori.

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