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      • Difendiamo l’intelletto dall’intelligenza artificiale: la sfida parte dal quotidiano

      Difendiamo l’intelletto dall’intelligenza artificiale: la sfida parte dal quotidiano

      “Intelligenza artificiale” è uno dei termini più scomodi e sfuggevoli in voga di questi tempi. Sfuggevole nonostante sia oramai sulla bocca di tutti e “sempre più parte integrante del nostro quotidiano” (così si sente dire in giro), poiché se non si è studiosi o addetti ai lavori è difficile darne una definizione. Prima di spargerlo a destra e a manca come il prezzemolo, infatti, sarebbe opportuno cominciare a fare alcune distinzioni: fra intelligenza artificiale generativa e non, ad esempio, oppure fra effettive innovazioni e “potenziamenti” di processi e strumenti già esistenti.

      “Scomodo”, invece, poiché a livello di connotazione rappresenterebbe in verità una truffa semantica bell’e buona. “L’intelligence artificielle n’existe pas” (tradotto: L’intelligenza Artificiale non esiste), è il titolo di un libro di Luc Julia [1], uno dei creatori dell’assistente vocale Siri. E d’altronde, fintantoché non esisterà una comprensione scientifica completa di un concetto come la “coscienza” (la cui natura profonda sfugge ancora ai riduzionisti che paragonano il cervello umano a una macchina [2]), sarà impossibile replicarne i meccanismi all’interno di una macchina o di un programma informatico.

      La preoccupazione apocalittica più diffusa – quello di “macchine intelligenti” che prendono decisioni autonome o che sanno replicare i meccanismi della coscienza umana -, dunque, non è che uno spauracchio adatto solo per i titoli clickbait sulle pagine di giornali poco seri.

      Né bisogna cascare nel tranello – molto caro ai vari “transumani” – di sentirci superati e inferiori come specie umana quando ci viene mostrato quanto sia “bravo” ChatGPT a scriverci un testo poetico su nostra richiesta in pochi secondi, oppure quando apprendiamo che la nuova versione del Programma X ha battuto negli scacchi o in altri giochi di strategia questo o quell’altro supercampione. Si tratta di informatica altamente potenziata, in fin dei conti: non è un confronto ad armi pari. Ci sentiamo forse delle nullità constatando la differenza fra la nostra velocità massima in corsa e quella di un’automobile? Si è mai fatto gareggiare Jesse Owens contro uno dei primi modelli di Mercedes-Benz per portare all’attenzione di tutti il superamento del fisico dell’uomo dinanzi alla potenza del motore?

      Nondimeno, secondo chi scrive, la cosiddetta intelligenza artificiale generativa [3] rappresenta un silenzioso rischio per determinate facoltà e concezioni del vissuto umano, il cui deteriorarsi non porterebbe né bene né progresso. Un esempio molto semplice: a chi si occupa di scrittura, capita ormai non di rado di sentirsi suggerire di usare ChatGPT o altri strumenti del genere come “aiuto”. Suggerimenti che vanno dal suo uso nella traduzione di testi, alla ricerca di informazioni, dal suggerimento di incipit, titoli e sottotitoli fino addirittura ad arrivare alla scrittura testuale stessa. E d’altro canto non manca affatto chi, essendosi reso conto della potenza di tali strumenti, li usa come “aiuto” in altri compiti che richiederebbero di far girare da sé i propri ingranaggi mentali o creativi: la propria tesi di laurea, un esercizio scolastico, una email di lavoro, l’idea per un messaggio pubblicitario e si potrebbe continuare all’infinito.

      Ciò, in realtà, non sembra avere un gran carattere di novità, se si pensa a quante tecnologie hanno sostituito negli ultimi secoli il “vecchio” modo di lavorare con soluzioni che permettono di “risparmiare tempo ed energia”. Eppure, un discorso è rendere automatico il processo “meccanico” di un calcolo a sei o sette cifre come fa una calcolatrice; ben altro è invece digitare un po’ di numeri e parole ed attendere che un maggiordomo informatico ti fornisca, oltre al risultato del calcolo, anche lo svolgimento, la soluzione finale e l’intuizione necessaria a risolvere l’intero problema di cui esso fa parte. Un conto è pensare e scrivere da sé un testo di qualsiasi genere e sottoporlo a un software (per esempio il semplice “controllo ortografico” di Word) per una revisione finale, ben altra cosa è limitarsi solo a quest’ultimo passo e far fare il resto – ossia il grosso del lavoro, quello che più richiede sforzo creativo e cognitivo – al maggiordomo informatico. Insomma, se l’automazione e l’informatizzazione di processi “analogici” non è certo cosa nuova, inedito è certamente il livello di compiutezza dell’IA generativa, la sua capacità di produrre e “sostituire” (a prescindere dalla qualità dei risultati) quasi interamente il soggetto agente in un compito inventivo. Ed è di questo che sarebbe opportuno preoccuparsi ed occuparsi al più presto.

      La mente, infatti, va allenata e tenuta in esercizio al pari di qualsiasi altra facoltà della persona. Cedere alla tentazione di delegare tale esercizio a un’intelligenza artificiale generativa, alla lunga, non farà altro che atrofizzare le nostre capacità mentali e prosciugare la nostra vena creativo-intuitiva, con esiti generalizzati e ripercussioni nell’intero tessuto sociale che chiunque può facilmente immaginare. Già oggi si legge o si sente proferire la cinica considerazione che le intelligenze artificiali saprebbero fare di meglio di molti “professionisti” umani: è in questa direzione che si intende andare, oppure è cosa buona e giusta battersi per una necessaria difesa e rivalorizzazione dell’intelligenza umana? A causa di diversi fattori, non certo da ultime le nuove tecnologie e i modelli di “contenuto” in voga nei social media, la soglia dell’attenzione dei più giovani è drasticamente compromessa, così come lo sono la capacità espressiva, il bagaglio di conoscenze e il corretto uso della lingua italiana: è preferibile cercare di invertire questa tendenza con l’auspicio di risollevare questa danneggiata società? Oppure è meglio acconsentire felici al “progresso” e fornirle anche la stampella dell’IA generativa per aiutarla a zoppicare più rapidamente verso il baratro?

      Oltre all’atrofizzarsi delle capacità cognitivo-creative, la questione dell’IA generativa va ad intaccare il vissuto sociale su un piano ancora più sottile, ovvero quello della serietà dei ruoli e della loro definizione. È in nome dello stesso significato primario di termini come “studente”, “giornalista” o “scrittore” (ovvero: colui che compie l’atto di studiare/colui che compie l’atto di scrivere) che una società seria non dovrebbe parlare di “affrontare le sfide poste dall’intelligenza artificiale” o “trovare compromessi”, bensì relegare a tempo indeterminato nel cesto della pattumiera del progresso [4] tutte le sue applicazioni fin qui criticate. Colui che usa la bici elettrica in modalità di pedalata assistita è ancora definibile ciclista o è piuttosto un semplice amante dei giri in bici ben lontano dalla serietà e dai connotati atletici intrinseci al termine? Si è mai visto partecipare a gare o a semplici allenamenti un canottiere che voga a bordo di un mezzo a motore acceso?

      Evidentemente nel nostro modo di pensare permane un forte dualismo mente-corpo che ci fa percepire come accettabile e non distorta l’idea di affrontare con la pedalata assistita il percorso necessario a portare a termine un compito mentale; evidentemente, parlando di lavoro intellettuale, la differenza gerarchica di serietà fra chi “suda” e “si allena con fatica” e chi invece adotta comode scorciatoie non è ritenuta determinante. Questo, naturalmente, a detrimento di un corretto inquadramento dei ruoli, delle capacità e della professionalità che essi richiedono. Mi si potrà obiettare, pensando alla scrittura, che esiste già da tempo immemore il fenomeno del ghostwriting, certo, ma la domanda fondamentale a mio avviso resta questa: abbiamo proprio bisogno di “abbracciare” o piegarci al nuovo? Oltre al ghostwriting umano, dobbiamo anche preoccuparci di quello digitale cercando di mantenere un atteggiamento aperto ed edulcorato per non urtare la sensibilità degli entusiasti del progresso tecnico?

      Vi sembrano forse considerazioni reazionarie, tecnofobe, luddiste? Le questioni di principio sollevate da questi ragionamenti vi suonano frutto di una visione bigotta della tecnologia? Beh, allora vi lancio una sfida: provate a presentarvi a una competizione di ciclismo con un mezzo a pedalata assistita e mettetevi a dare del “luddista” in tono spregiativo a chi vi criticherà. “Basta con i polpacci di ferro e con tutto questo sudore – dite ai colleghi in sella – sono cose da vecchi bigotti, il vero futuro dello sport è la bici elettrica!” Nel nuovo mondo smart l’importante è tagliare il traguardo, non importa chi o che cosa compie la fatica di arrivare a fine percorso.

      Provateci, se ne avete il coraggio. Poi fatemi sapere quanti ciclisti in sella siete riusciti a convincere, mi raccomando.

      NOTE

      [1] Julia tiene anche diverse conferenze e interventi sull’argomento, ad esempio: https://www.youtube.com/watch?v=yuDBSbng_8o

      [2] A sviluppare con profondità e ricchezza di dettaglio quest’affermazione è Federico Faggin – il fisico italiano che progettò il primo microprocessore informatico – nel suo saggio “Irriducibile”. Proponendo l’ipotesi della coscienza come fenomeno di natura quantistica, Faggin dimostra quanto le scienze siano in realtà lontane da qualsiasi formulazione di questa entità e dunque anche da qualsiasi sua replicabilità artificiale. Allo stato dell’arte, dunque, manca quel “di più” necessario ad affermare che le macchine sappiano andare oltre lo svolgimento di processi puramente logici.

      [3] Il termine indica quei sistemi di IA in grado di generare testi, immagini, video o musica a partire dai “prompt”, ossia le “richieste” effettuate e digitate dall’utente. ChatGPT ne è l’esempio più comune.

      [4] Poetica espressione usata da Joseph Conrad in “Cuore di Tenebra”: “for an everlasting rest in the dust-bin of progress”.

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