L’aspetto più stupefacente del tempo presente è la forma di sereno abbandono che i popoli vivono a una sorte che appare, per l’umanità intera, già scritta. Il donarsi, fiducioso in quanto sincero ed irrinunciabile, a quel “pilota automatico”, a quelle “scelte al riparo dal processo elettorale”, che il buon pastore ha scelto per loro.
Beninteso, chi scrive ha assai chiara l’idea che, oramai, poco distingua un popolo da un altro, una nazione da un’altra, una lingua da un’altra, un governo da un altro, finanche un sesso dall’altro. Troppo avanti è andato il processo di omogeneizzazione economica e, quindi, culturale.
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Con l’intenzione sincera di evitare un fastidioso sussiego, mi si conceda un breve passo di glossario interpretativo.
Tre parole dal Greco antico ci confortano nell’analisi: la prima è tèchne, la seconda è mantàno, la terza è òikos.
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La τέχνη (tèchne) è, nella lingua che più ha informato la cultura europea dotta, l’arte del far bene, del fare in modo corretto e razionale, del fare con la perizia dell’esperienza maturata. Questa si è riprodotta, più o meno, nel medesimo significato, in tutte le lingue occidentali. Niente però nella radice, prevede l’univocità, anzi, è forse vero il contrario: prevede la disponibilità.
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Il verbo μανθάνω (manthàno) ha un significato, invece più sdrucciolevole da interpretare, per il sistema di pensiero modernista-positivista.
Come ogni verbo (in Greco antico, così come, quasi, in ogni lingua che ho avuto la fortuna di studiare), dipende intimamente dal λόγος (lògos), che a sua volta ha un’interpretazione ancora più scivolosa. Il lògos è la parola, ma è anche il discorso, ma anche, vieppiù, il tessuto che sottende la realtà fenomenica, e in quanto fenomenica, affabile. D’altra parte, l’incipit di un certo libro recita “In principio era il Verbo”(nella traduzione in koinè, sull’aramaico debbo abbandonarmi alla sapienza degli antichi).
Il significato di manthàno, conseguentemente al breve excursus, varia in base al tempo e al modo in cui è coniugato e alla frase, in diversi significati, principalmente individuati in “imparo-conosco, perchè ho visto”, oppure “scorgo da lontano” anche nel tempo. Per estensione, “prevedo”.
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Il termine οἶκος (graficamente prevedibile, oikos), indica la casa, la famiglia, ma anche la casa della divinità, il tempio. Mutato il grado fonico della vocale, diventa la radice del termine “economia”.
Riallacciandomi a quanto espresso nell’intestazione, provo a produrre una definizione del “tecnomante”: non per una particolare voglia di crear categorie nuove (che dovrebbe essere appannaggio degli intellettuali veri; quelli che lo fanno di mestiere, o per infelice coscienza), bensì per la necessità di dare un nome e un volto al mio nemico politico, a chi, cioè, declina lo stare insieme, la società, in senso negativo.
Raramente, il tecnomante si addentra in riflessioni costruttive del concetto di “comunità desiderabile”: tipicamente, piuttosto, cavalca, in modo vigliacco, il diffuso disgusto pubblico per il presente, come incapace di produrre civiltà – sia perché troppo poco somigliante all’antico ormai perduto, sia quando stolidamente incapace di interpretare le istanze di un futuro che frettolosamente va inseguito. Ma, sempre, nella misura in cui lo stesso presente, resta troppo vincolato a momenti contrattuali pubblici, che descrive come vetusti schemi di controllo. Che si tratti di contratto sociale, legislazione costituzionale, diritto marittimo o costumi condivisi, poco conta.
Il tecnomante, dunque, per la natura futurista del suo immaginare, è un giovanilista a prescindere che definisca sé stesso progressista o conservatore: in via principale, è definito, nella sua statura politica, dalla soluzione, sempre negativa, e contraddittoria, che egli offre al reale (va da sé, sgradito): “meglio meno passato, benché il passato abbia creato me”.
Il tecnomante ha bisogno di meno Stato, meno nazione, meno lingue, meno popolo, perché in ultima istanza, è terrorizzato dalla varianza (politica) che potrebbe ribaltare la sua auto-avverantisi previsione tecnica del futuro, che, completamente libera nel fine, è vincolata solo alla sua visione di un’umanità riformata al proprio compiacimento. Alla stessa maniera, vive il terror sacro della legge e del territorio in cui il diritto può essere esercitato, per la stessa ragione.
Non può esistere lo stesso prodotto di controllo, in giurisdizioni tanto diverse, nevvero?
Il tecnomante ha rifiutato qualsiasi altra forma di “validazione del reale” che non sia la scienza, di cui però ignora i canoni diversi da if, and e or.
Sbeffeggia la religione, e ignora la filosofia. Qualsiasi costruzione, che non sia basata sul direttamente osservabile, quindi misurabile, è per lui semplicemente inaccettabile.
Mi si accappona la pelle a rileggere quanto sopra: avrei potuto aver descritto il vicino di casa, la barista di fronte, il collega di lavoro, il dirigente, l’usciere o il ministeriale, o l’instagrammer con le labbra fillate. Non è così.
Quanto distingue il tecnomante dal conformista dismorfico, è la potenza trasformata in atto; codesta volontà di potenza è iscritta nelle leggi della scarsità che egli stesso impone, con somma violenza, al reale, dunque nell’economia.
Il tecnomante, nella sua misura di uomo limitato dal suo essere fisico, che desidererebbe tendente all’eterno e all’infinito, come già accennato sopra, soffre in maniera viscerale le infinite possibilità di informazione (cioè, creative, di possibili altri oggetti, ma soprattutto soggetti) del mondo, che la molteplicità numerosa dei corpi (esponenzialmente moltiplicata dalle loro menti, e vieppiù, dalle loro anime – religione e filosofia), dona al mondo. Dovete credere, ma solo nella mia scienza – in questo il tecnomante nasce come elemento totalizzante, prima ancora che totalitario, che è il suo sviluppo teleologico.
Vuole, meno, di voi.
In quanto, sostanzialmente, espressione del complesso militare-industriale (se si va scrutando nelle carte, non v’è nulla di nuovo nei brevetti di Jobs, Musk, Gates, Zuckerberg – quattro ragazzi e un garage, è una bella copertina da vendere, quanto quella di “Abbey Road”), non ci si può attendere da lui la pace, la grazia o la bellezza, per la sua natura inquieta di impositore (o impostore?) di una futura società automatica: lo “stato eccezionale di guerra” fa parte del suo disegno costitutivo (sia essa dichiarata o no, o contro chi).
Anche per questo, il tecnomante si trova nella condizione di predire un futuro sviluppo, completamente assurdo, potremmo dire allucinato, in forma di uomini bionici (quindi sotto il suo diretto controllo algoritmico. Verrebbe da dire: più di così?) o di vita interplanetaria su pianeti che sarebbero ostici anche per un tardigrade.
Dovete credere.
Si potrebbe andare avanti per ore, ma né io né voi, ne abbiamo voglia.
Sarà, infine, la carenza di energia, a regolare il conto con il suo teorema di controllo; a spengere i server: solo allora, se l’essere umano sarà ancora, vi sarà un possibile ritorno a quanto di umano rimasto nel DNA dei nostri figli.
In ultima analisi questo soggetto politico, intende controllare, perché terrorizzato dalla finitezza terrena della propria condizione di primazia (quanto manca Hegel!), finanche la vita e la morte delle persone.
Aborto, gravidanze assistite, eutanasia, sono le condizioni cardinali di ogni tavolo a cui si sieda il tecnomante.
Voglio uno Stato confessionale, allora? Assolutamente no.
Voglio uno Stato etico, dunque. Assolutamente sì.
Voglio più Stato? Be’, meno di così è tecnicamente (!) impossibile.
“Vogliatevi bene, che è l’unica cosa che conta”
-Peter Goodwin
Di Solaria
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P.S.
Ah, colpevolmente ho dimenticato un aspetto: questi elementi tecnomantici, si presentano in figura privata, come mi sembra di aver chiarito. Esiste, però, una loro controparte pubblica, che sono i governanti tecnici. Sarebbe troppo lungo (e inutile, il mio pubblico lo sa già) prendere a calcioni i Marii, Monti o Draghi. L’austerità espansiva o la pace col condizionatore, la lasciamo al giudizio dei comici: sparare sulla “Croce Rossa” è generalmente uso a una certa amministrazione pubblica di uno Stato transterritoriale, ma non appartiene all’estensore di questi quattro stracci.
P.P.S.
Piantedosi (un prefetto agli Interni), Crosetto (un mercante di armi alla Difesa), Nordio (un giudice alla Giustizia), Valditara (un ehm, al ehm). Possiamo consolarci con Salvini ai Trasporti (sotto attacco perenne, poro stronzo) e Lollobrigida alle Caciotte (pure lui sotto attacco perenne, poro stronzo). Nessun tecnico al governo!