Uno degli slogan più iconici del periodo pandemia-Covid è stato senz’altro «Andrà tutto bene». A distanza di poco tempo, ci si rese subito conto che no, non sarebbe andato affatto tutto bene; ma, quello che forse non si era calcolato, era che i conti di diverse scelte gestionali, e l’incredibile incapacità degli Stati di dotarsi di un piano pandemico a 360 gradi sarebbe costato caro, continuando a pagare anche a lungo termine e in campi forse impensabili. È il caso di questi giorni, che vede coinvolta la Silicon Valley Bank e più precisamente il suo fallimento.
Con i divieti di assembramento e la chiusura di molti siti, produttivi o non, abbiamo tutti sperimentato quanto le tecnologie abbiano guadagnato terreno nella vita lavorativa e quotidiana: smart-working, acquisti di vari prodotti online, acquisto di devices per accesso a Internet, ecc. Al di là degli effetti psicologici e sociali, ciò ha avuto negli anni precedenti un effetto economico significativo: l’esplosione dei guadagni, peraltro già enormi, delle aziende hi-tech, e in particolare, ma non solo, di quelle statunitensi della Silicon Valley. Tali aziende californiane si trovarono con un’enorme liquidità che decisero di riversare in buona parte nella banca sotto casa: la Silicon Valley Bank. «Fondata nel 1983, aveva come suo scopo originario il finanziamento di start-up attraverso i depositi dei suoi correntisti e il capitale di rischio (venture capital) che le veniva affidato. Tra la fine del 2019 e il marzo 2022 il monte depositi della banca triplica, raggiungendo quasi 198 miliardi di dollari. È alimentato dai guadagni del settore hi-tech in tempo di Covid-19 e dalla connessa esplosione di tutto quanto è imperniato su Internet, dal commercio per corrispondenza (e-commerce) al lavoro da casa. La crescita dei depositi è esponenziale: +37% rispetto alla media del settore»1. Come è accaduto a molte aziende che con la pandemia hanno visto aumentare enormemente i propri fatturi, l’uscita dalla situazione «emergenziale» ha causato anche al settore hi-tech dei contraccolpi significativi.
Durante il periodo Covid, proprio per far fronte al boom, tali aziende hanno provveduto a un forte aumento delle assunzioni, gonfiando la dimensione del proprio personale, fenomeno, però, che si è rivelato effimero, una delle tante bolle del mercato. Una volta finita l’emergenza, e con il conseguente crollo della richiesta, le aziende hi-tech hanno dato il via a una drastica campagna di riduzione del personale. Un esempio su tutti, Microsoft ha messo in atto un piano che porterà entro fine Marzo 2023, al licenziamento di 10.000 lavoratori. Come ha dichiarato il suo Amministratore Delegato, Satya Nadella, ciò inciderà per 1,2 miliardi sui conti del secondo trimestre. Sempre il CEO di Microsoft ha dichiarato quanto segue: «così come abbiamo visto i clienti accelerare sulla spesa digitale durante la pandemia, ora li vediamo ottimizzare per fare di più con meno. Le aziende di tutti i settori e in tutto il mondo stanno adottando misure di cautela, poiché alcune parti sono in recessione e altre stanno per entrare in quella fase»2. Ma altri due fattori stanno incidendo sulla crisi del settore delle alte tecnologie: le politiche della Federal Reserve per contenere l’inflazione e la guerra tecnico-commerciale con la Cina.
Al contrario della vulgata corrente, l’aumento dell’inflazione in tutto l’Occidente non ha quasi alcuna connessione con il conflitto russo-ucraino. Piuttosto, rivolgendo lo sguardo Oltreoceano, è la Federal Reserve Bank (FED) che ha deciso di fronteggiare la contrazione pandemica con politiche monetarie espansive, supportata in ciò dalle scelte del Governo centrale, cosa che ha permesso di far reggere la domanda durante il periodo emergenziale. Cosa è accaduto successivamente? Il risultato delle politiche monetarie della FED avvallate dal Governo americano hanno innescato l’esplosione della richiesta e il conseguente aumento dei prezzi della merce, spinti in alto anche dai costi dell’energia. Ciò detto, l’aumento dei costi dell’energia è iniziato ben prima dell’ «operazione speciale di Mosca» ed è quasi esclusivamente dovuto alla speculazione finanziaria in atto. A completare il quadro della situazione sono gli esperti nelle discipline economico-finanziarie. Per loro non ha nessuna importanza dire che gli Stati Uniti non dipendono dalla Russia nel settore energetico, producendo surplus di risorse che tentano di piazzare sui mercati esteri, Europa in primis3.
Il secondo aspetto riguarda invece l’ultimo capitolo della guerra commerciale tra Washington e Pechino: la battaglia sui semiconduttori, in sostanza i microchip. Si tratta di un aspetto non solo economico, ma geopolitico, sempre più rilevante e che vede le due superpotenze sfidarsi a colpi di provvedimenti governativi (Chips and Science Act di Biden da 52 miliardi di dollari, pacchetto voluto da Xi Jinping per un importo da 143 miliardi di dollari) e repressivi (scandalo Huawei) che incidono su approvvigionamenti e costi di una materia prima fondamentale per il mercato hi-tech4.
La Silicon Valley Bank (SVB) ha quindi subito “l’effetto onda” delle tendenze finora evidenziate. Sorpresa dalla ricchezza prodotta nel settore di riferimento a seguito del Covid, l’istituto bancario ha deciso di scommettere in Borsa, andando ben oltre le sue possibilità: «La banca acquista a man bassa azioni e obbligazioni a lunga scadenza (compresi i buoni del Tesoro Usa), strapagandole e senza copertura. Di lì a poco, l’aumento dei tassi da parte della Federal Reserve per “spegnere” l’inflazione falcidia i rendimenti, producendo in pochi mesi perdite per 16 miliardi di dollari – più del capitale proprio della banca»5. Tra l’aumento dei tassi di interesse e la parallela discesa del valore delle obbligazioni, i clienti si sono rivolti alla Silicon Valley Bank (SVB) chiedendo la restituzione dei propri soldi, costringendo l’istituto a vendere i titoli prima che siano maturati. Una combinazione che ha portato inevitabilmente al fallimento della banca stessa. «Secondo gli analisti, è questo quello che è successo alla Silicon Valley Bank (SVB), che ha dovuto vendere 21 miliardi di dollari in attività altamente liquide per coprire i prelievi improvvisi. Cosa che ha messo la banca davanti ad una perdita di1,8 miliardi di dollari come conseguenza della vendita»6.
Se è pur vero che non siamo di fronte al collasso della Lehman Brothers che causò la crisi del 2008, il fatto non è di secondaria importanza e sta già avendo degli strascichi. Va infatti ricordato che la Silicon ValleyBank (SVB) era il sedicesimo istituto bancario degli Stati Uniti e il suo fallimento è il peggiore degli ultimi quindici anni. Nel giro di un paio di giorni si è assistito al fallimento di un secondo istituto bancario statunitense, la Signature Bank, e proprio in questi giorni, si assiste al crollo di Credit Suisse, la seconda banca elvetica, che ha visto le sue azioni perdere il 70% del suo valore dall’inizio del 2022, anch’essa a causa del fatto che «Credit Suisse ha sofferto per i deflussi di depositi e ha una base di clienti composta in gran parte da high net worth individual e aziende, che sono considerati depositanti meno fedeli dei clienti retail»7. Biden si è immediatamente speso garantendo che «nessuna perdita (della SVB) sarà a carico dei contribuenti»8, anche se il Segretario al Tesoro Janet Yellen si è affrettata a dichiarare che non ci sarà alcun salvataggio: in sostanza, dovrebbero essere tutelati i risparmi garantiti (fino a 250 mila dollari), mentre dovrebbero perdere tutto chi aveva un conto superiore o titoli azionari. Piccola, ma significativa, nota a margine: «Due settimane prima che Silicon Valley Bank (SVB) finisse nel baratro della bancarotta, il ceo Greg Becker ha venduto 12.451 azioni della banca per un valore di oltre tre milioni e mezzo di dollari. E pure il direttore finanziario, Daniel Beck, ha ceduto duemila azioni per un valore complessivo di 575 mila dollari»9.
Questa mini tempesta bancaria dimostra come il capitalismo, particolarmente in questa fase emergenziale-guerresca, genera delle bolle speculative che poi non è in grado di assorbire. Infatti, a fronte del biennio di «emergenza pandemica», la tanto vituperata longa manus dello Stato è stata invocata a più riprese ed è intervenuta in modo massiccio per sostenere un’economica globale già da tempo asfittica. Ma, come era anche piuttosto facilmente immaginabile, buona parte di tali risorse sono andate a rimpinguare la speculazione finanziaria e non il lavoro. Il caso della Silicon Valley Bank (SVB), e direi della Silicon Valley in generale, è veramente emblematico. A fronte di un boom legato a una «economia emergenziale» non hanno tratto vantaggio comparti produttivi (industria pesante, manifatturiere, agricolo, ecc.) che, anzi, appena ripresi dalla crisi-Covid si trovano oggi a fronteggiare le difficoltà dovute all’incremento dei costi energetici dovuti nuovamente, è bene dirlo, a questo tipo di speculazione; bensì, ne hanno tratto giovamento quelle imprese che operano nel «mondo virtuale», che nonostante i profitti appena il mercato è tornato quasi alla normalità, si sono letteralmente sgonfiate, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. È anche evidente ormai come una regolamentazione seria degli istituti bancari, compresi quelli specializzati nei depositi di aziende hi-tech, con un controllo molto più stringente non sia più rinviabile; perché non è possibile che una banca possa giocare d’azzardo con i soldi dei propri clienti, a loro insaputa, i quali, andando a ritirare i propri risparmi, non li trovano e possono sentirsi dire che l’istituto è fallito. Gli effetti cancerogeni della digitalizzazione – con la quale, attraverso la riserva frazionaria, le banche possono creare denaro virtuale – e della finanziarizzazione – con la quale i soldi vengono drenati dal mondo del lavoro per finire in quello della speculazione – creano danni sempre più ricorrenti e devastanti in un mercato sempre più piccolo e interconnesso. È quindi necessario un pesante intervento pubblico, ammesso che a oggi si vedano istituzioni con potere di portata globale, che inverta tale rotta, riportando al centro il lavoro, intenso come modo di realizzazione dell’individuo, a discapito della speculazione finanziaria e di un algoritmo che non è certo infallibile. Piuttosto, sempre meno controllato dall’uomo se non disumanizzante10.
Un compito che dovrebbe assolvere la politica se non fosse alla mercè, diciamo pure sotto l’egida, di un’economia finanziarizzata e dell’economicizzazione dell’esistenza. Altro discorso è, come abbiamo scritto più volte, scindere l’economia dagli aspetti meramente finanziari, gli aspetti produttivi da tutto ciò che gioca a favore del capitalismo finanziario. Un altro problema è «l’ideologia del produttivismo» economico, bancario, finanziario, digitale, hi-tech o in altri settori che va ad aggiungersi a tutti gli altri.