L’11 novembre si è tenuto a Riyadh un vertice arabo-islamico d’emergenza sulla questione della Palestina. Si è trattato di un evento estremamente importante, dal quale prenderanno mossa le direttive dei prossimi mesi per il mondo islamico mediorientale e non solo. Ne è emersa una strategia condivisa sul piano internazionale, anche se le contraddizioni e i rischi non sono del tutto assenti.
Una necessaria finestra di dialogo
Lunedì 11 novembre, Riyadh ha invitato i 22 Paesi della Lega Araba e la cinquantina di Stati che compongono l’Organizzazione della Cooperazione Islamica a partecipare a un vertice dedicato ai conflitti in corso nella regione. L’incontro è stato incentrato sui conflitti in corso nella regione, con una particolare attenzione al ritorno nello Studio Ovale di Donald Trump.
All’apertura del vertice dedicato alle guerre di Israele nella Striscia di Gaza e in Libano, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha usato il termine “genocidio ” per descrivere le operazioni militari di Israele nella Striscia di Gaza: «Chiediamo alla comunità internazionale di assumersi le proprie responsabilità […] ponendo immediatamente fine agli attacchi israeliani contro i nostri fratelli in Palestina e in Libano».
I leader arabi e musulmani riuniti hanno assunto la stessa posizione nei confronti di Israele, condannando i crimini orribili e scioccanti commessi dall’esercito israeliano a Gaza, denunciando torture, esecuzioni, sparizioni e la vera e propria pulizia etnica, come si legge nel comunicato finale dell’incontro.
Mohammed bin Salman ha anche invitato Israele a «rispettare la sovranità territoriale della Repubblica islamica dell’Iran» e ad «astenersi dall’attaccare il suo territorio». La maggior parte dei membri della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica sosterrà queste dichiarazioni molto ferme. Anche se ci sono grandi differenze tra i Paesi che hanno normalizzato le relazioni con Israele e quelli che si oppongono, a cominciare dalla Repubblica islamica dell’Iran. MBS ha detto esplicitamente che non solo l’esistenza stessa della Palestina è ora in discussione, ma anche il destino della Moschea di Al-Aqsa, il secondo santuario più sacro dell’Islam dopo La Mecca, un’affermazione che ricorda il nome dell’Operazione di Hamas intitolata “Tempesta Al-Aqsa”. Evidentemente i leader di Hamas si aspettavano che un simile vertice arabo-islamico d’emergenza si sarebbe riunito molto prima, ad esempio subito dopo l’inizio dell’operazione di terra di Israele a Gaza.
A tale riguardo, il Principe ereditario ha definito l’Iran come una «Repubblica sorella», il che ha fatto gioire la stampa di tutto il mondo islamico, segnalando una distensione dei rapporti fra i due Paesi. Le relazioni diplomatiche sono state ufficialmente riaperte nel marzo 2023, dopo 7 anni di blocco, grazie ad un accordo siglato con l’intermediazione della Cina, e dopo il famigerato 7 ottobre 2023 il dialogo è tornato a farsi vivo, intensificandosi. L’Iran sostiene il movimento islamista palestinese, mentre l’Arabia Saudita cerca di contenere la diffusione del conflitto.
In occasione del vertice, il primo vicepresidente iraniano, Mohammad Reza Aref, ha definito «terrorismo organizzato» l’assassinio da parte di Israele dei leader di Hamas palestinese e di Hezbollah libanese, aggiungendo che «Le operazioni descritte in modo fuorviante come “omicidi mirati”, in cui le élite palestinesi e i leader di altri Paesi della regione vengono uccisi uno per uno o in massa, non sono altro che terrorismo organizzato». Similmente si è espresso il Primo Ministro libanese Najib Mikati che ha invitato la comunità internazionale a continuare l’invio di aiuto al Libano. Va notato che Mikati pochi giorni fa aveva parlato di “interferenze dell’Iran” in Libano, accuse respinte da Teheran.
Vale la pena di notare la partecipazione contemporanea di Assad ed Erdogan. Solo di recente, tali incroci erano impossibili. Il Governo di Ankara ha espresso parole sempre più forti e chiare nei confronti dello sterminio che Israele sta perpetrando, favorendo sicuramente una tavola rotonda con i vicini Paesi islamici, almeno da un punto di vista dei propositi positivi.
Perché solo ora?
Della leadership di Hamas e di Hezbollah non è rimasto quasi nulla. Questo è un dato di fatto con cui bisogna confrontarsi. Un tale vertice sarebbe stato molto diverso se ci fossero stati ancora in vita i leader della Resistenza.
La ragione di questo ritardo è forse imputabile alle elezioni americane. Se il vertice BRICS+ di Kazan aveva spianato la strada e indicato una direzione di coesione internazionale nella condanna alle azioni di Israele e nella necessità di ripristinare l’autonomia palestinese, è però vero che mancava l’ultimo placet per poter passare dalla teoria all’azione.
La vittoria di Donald Trump va inquadrata sotto la prospettiva arabo-islamica. Trump è un sostenitore del sionismo di destra, quello di Netanyahu e di alcuni radicali come Smotrich, Ben Gvir e il rabbino Dov Lior, i quali non si sono mai risparmiato in proclami di stragi, sacrifici e distruzione religiosa. Per i sionisti, Gerusalemme è importante tanto quanto Al Quds per gli islamici (Al Quds è il nome in arabo di Gerusalemme). In campagna elettorale, Trump non ha mai abbandonato di un centimetro la sua posizione filosionista e il sostegno al governo di Tel Aviv.
Fu lui a proporre di spostare la capitale dell’entità sionista a Gerusalemme e fu lui ad ordinare l’assassinio del Generale Qassem Soleimani. L’elezione di Trump ha rafforzato le prospettive di collaborazione fra USA e Israele, tanto che Smotrich ha subito dichiarato di voler attaccare i palestinesi della Cisgiordania e far saltare in aria la Moschea di Al-Aqsa.
Trump ha accelerato questi processi. Il prossimo obiettivo, da lui personalmente sostenuto e finanziato, è la costruzione del Terzo Tempio, chiave di volta escatologica per tutto il mondo neocon americano. La distruzione fisica di tutti i nemici di Israele è non un effetto collaterale o un danno minore, bensì un dovere insito nel messianismo ebraico.
L’emergere del polo islamico nel mondo multipolare sta acquisendo una forma sempre più riconoscibile ed identificabile. Certo, ci sono ancora molti problemi da risolvere: l’Arabia Saudita e la Turchia fanno affari con USA e Israele, continuano a giocare su due posizioni contrastanti e non sono storicamente affidabili. I Paesi del Sud Est Asiatico devono ancora definire la propria posizione nei confronti delle relazioni internazionali con l’Occidente, per potersi definitivamente emancipare e mettere al sicuro da ricatti e ritorsioni.
La domande che in molti si pongono sono varie: il prossimo presidente americano si impegnerà a porre fine ai conflitti in corso come ha promesso? Oppure sarà un sostenitore incondizionato di Israele, sia nella guerra che nei suoi piani per silurare qualsiasi prospettiva di creazione di uno Stato palestinese? L’Arabia Saudita subordina qualsiasi normalizzazione con Israele alla creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele.
La soluzione dei due Stati è sostenuta da gran parte della comunità internazionale come mezzo per risolvere il decennale conflitto israelo-palestinese. I leader arabi e musulmani mantengono ferma la posizione, in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite e con il piano di pace arabo del 2002, che prevede che Israele debba restituire tutti i territori occupati dal 1967.
Gli accordi di Abramo non bastano più. Stavolta, però, gli USA non possono più decidere da soli l’intero futuro del Medioriente, perché lo scacchiere è cambiato e le nuove posizioni assunte dai Paesi islamici costringeranno Washington a dover valutare più elementi. Russia e Cina non lasceranno compromettere il progetto multipolare. Nemmeno i Paesi africani, ove la causa palestinese è una questione di libertà, identità ed anticolonialismo molto sentita e condivisa, hanno intenzione di cedere il passo nella lotta a questa ingiustizia di portata storica.
La popolazione musulmana dei Paesi islamici, vedendo la passività dei governanti, non tollererà ancora a lungo lo sterminio in atto e l’attacco ai luoghi sacri della propria religione.
Probabilmente, solo una guerra comune contro un nemico comune può unire i musulmani. E potrebbe accadere molto presto.