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      • Il prezzo sociale della corsa agli armamenti in Italia

      Il prezzo sociale della corsa agli armamenti in Italia

      Come il riarmo sottrae risorse a welfare e sanità, aumenta le disuguaglianze sociali e indebolisce la trasparenza democratica nelle scelte politiche ed economiche

      La classe dirigente europea ha dato un risposta scomposta e insensata alle azioni politiche e diplomatiche dell’amministrazione Trump per una tregua in Ucraina e al possibile ritiro delle forze statunitensi dall’Europa. Per la prima volta l’UE, compresi i cosiddetti paesi frugali che si sono sempre opposti a spese sociali e di welfare, ha deciso all’unanimità di fare una spesa a debito di 800 miliardi per le armi. La Germania, sempre pronta a limitare la spesa a debito, in questo caso ha annunciato un piano di 1000 miliardi di euro per il rinnovamento delle forze armate, mentre la Francia e la Polonia hanno investito massicciamente in artiglieria, carri armati, e sistemi missilistici. L’Italia non ha annunciato un piano di riarmo ma si è impegnata ad aumentare la spesa militare fino al 2% del PIL, in linea con gli obiettivi NATO. Questo aumento previsto di spesa militare non chiude la porta, ma la spalanca, a un possibile riarmo italiano. Nessun Paese ha fatto passi per la costruzione di un esercito europeo, ipotizzando un suo riarmo massiccio che, ovviamente, al di là degli slogan sull’autonomia strategica dagli Stati Uniti, è solo un libro dei sogni in quanto mancano le basi politiche, industriali, sociali e culturali per un simile esercito. Quindi cercare di costruirlo artificiosamente, per reagire alle sfide globali, crea più instabilità e divisione che sicurezza, nel vecchio continente.

      L’Italia è, tra i paesi europei, quello con il debito pubblico più alto, con una crescita economica bassa e un welfare debole. Riarmarsi comprometterebbe la sua economia, la cui produzione industriale decresce da due anni. Se l’idea di una società più militarizzata prevalesse su investimenti sul sociale e sulla previdenza e l’assistenza sanitaria, si aprirebbe una spaccatura tra classi sociali meno abbienti subalterne alle élite politico, industriali e militari. Le classi sociali, ridotte a una esistenza difficile, toglierebbero il consenso alla politica del governo con imprevedibili, ma disastrosi eventi. Se l’Italia iniziasse un riarmo dovrebbe iniziare una riconversione industriale, dando priorità ai settori strategici militari; tagliare o rallentare la spesa sociale, per finanziare la produzione di sistemi d’arma;  questo comporterebbe la crescita dell’inflazione, dovuta all’aumento della domanda pubblica di beni e materiali tecnici che diminuirebbero rispetto a prima del riarmo. Si avrebbe una ristrutturazione del lavoro, con l’occupazione trainata dalla spesa per armamenti, ma potenzialmente a discapito di altri settori, dei servizi, della cultura e del commercio. Le ipotesi di riconversione delle fabbriche civili (come l’automotive, elettrodomestici, meccanica leggera) alla produzione bellica sono decisamente ottimistiche; infatti trasformare impianti che producono automobili, pompe idrauliche o tecnologie ambientali in stabilimenti per produrre carri armati, missili e droni non è un processo neutro. Non solo non risolve il problema della disoccupazione strutturale, ma rischia di abbandonare l’innovazione sostenibile e la coesione sociale in nome di una produttività bellica che dipenderebbe da crisi internazionali e cicli geopolitici ipotetici. Questa militarizzazione dell’economia sposterebbe il punto centrale delle decisioni politiche fuori dal controllo democratico. Le priorità del paese non saranno più scandite dal fabbisogno sociale o ecologico, ma da obiettivi strategici poco comprensibili alla massa della popolazione, definiti da accordi politici-militari e, specialmente, dalle pressioni dell’industria militare che, come sempre avviene, prende il comando dei centri decisori per volgerli a suo interesse. Le generazioni giovani sempre più precarizzate vedrebbero ridotte le proprie opportunità in nome della sicurezza nazionale.

       

      Per meglio comprendere i danni economici e sociali di un “riarmo” italiano prenderò in esame un arma modernissima di costruzione italiana considerata il fiore all’occhiello dell’industria domestica, il cacciacarri Centauro II MGS 120/105, nuovo veicolo blindato ruotato da combattimento dell’esercito italiano. Prodotto in Italia dal consorzio Iveco-Oto Melara, composto dalla IVECO nello stabilimento Bolzano e negli stabilimenti a Brescia e Suzzara e dalla Leonardo – OTO Melara con stabilimenti a La Spezia e Brescia. Il Centauro II è stato progettato per l’Esercito Italiano che ne ha commissionati circa 150 unità, di cui 10 già consegnate al 2023. Un contratto successivo ne ha previsti 96 unità a cui si sono aggiunti altri 50 veicoli, a fronte di una produzione attuale di circa 12-18 veicoli all’anno. Questa produzione limitata procede con gradualità; il Centauro II ha una certa priorità ma non è prodotto in grandi volumi come la Panda. Le problematiche della spesa pubblica e il bilancio della Difesa ne hanno frenato la produzione, ma in un paese lanciato a un riarmo a tutti i costi che prevedesse un aumento sostanziale della produzione i costi lieviterebbero senza limiti.

      Ad oggi il costo industriale base è di 5.500.000 € a cui si deve aggiungere il costo dei Sistemi elettronici avanzati, che ammontano a non meno di 500.000 €, il cannone da 120mm e la  torretta, per una spesa non meno di 1.000.000 €, e infine il costo della logistica, dei test e delle certificazioni, ovvero circa 400.000 €, per un costo totale di 7,5 milioni di euro. In una prospettiva di aumento e riconversione delle fabbriche da civili a militari e con l’aumento del 50% della produttività annuale passeremo a un sovraccarico industriale (turni extra, supply chain, logistica) di 1.000.000 € per unità a cui bisognerà aggiungere i costi di riconversione di impianti e l’ammortamento delle spese fisse, ripartiti per unità di 400.000 €.  Per un totale di circa 8.000.000 €.

      Per cui il piano di riarmo non sarà per nulla una scelta indolore. Bisogna ricordare che il ritorno, in vari modi, di un’economia di guerra rappresenta non solo una trasformazione strutturale della produzione industriale ma anche un gigantesco ridimensionamento delle priorità politiche, sociali ed economiche che, lungi dall’essere neutro, si tradurrebbe in una enorme sottrazione di risorse, materiali e beni destinati alla vita civile e al vivere quotidiano dei cittadini. La riconversione industriale impoverirebbe la produzione civile. La produzione militare ha proprie esigenze peculiari che prevedono forti richieste di acciaio speciale, microelettronica avanzata, veicoli, carburanti, sistemi di comunicazione e sensori sofisticati. Tutti prodotti che utilizzano gli stessi materiali di molti comparti produttivi civili: auto, elettrodomestici, macchine agricole, tecnologie mediche, edilizia, trasporti pubblici. La  decurtazione dalla filiera civile di queste merci causerebbe ritardi nelle consegne, scarsità e aumento dei prezzi.

      La riconversione anche parziale di stabilimenti come quelli di Iveco (veicoli commerciali) o Leonardo (elettronica civile e difesa) per produrre blindati, radar e missili, porterebbe alla riduzione e/o alla sospensione della produzione di mezzi pubblici, veicoli industriali, treni e autobus e perfino di macchine per uso privato. Ciò impatterebbe sull’intera catena della logistica dei trasporti e consegne e  sull’agricoltura, compromettendo il tenore di vita quotidiana delle famiglie italiane.

      Un considerevole aumento del bilancio militare drenerebbe fondi da sanità, scuola, infrastrutture e servizi sociali.

       

      L’aumento della domanda di acciaio, rame, semiconduttori e carburante per sostenere il comparto difesa farebbe salire i costi dei beni civili, con rischi di forme di razionamento di fatto: i prodotti rimarrebbero disponibili, ma non per tutti, a causa dei prezzi crescenti.

       

      L’economia di guerra se crea lavoro non garantisce occupazione stabile né salari crescenti. I contratti militari sono periodici e subordinati alla volontà politica. La manodopera richiesta se è altamente specializzata, non è però agevolmente flessibile per il suo utilizzo nel settore civile.

      In ultimo ma non meno importante è quanta democrazia rimarrebbe da questo passaggio a un’economia strutturalmente militarizzata. Ben poco dell’equilibrio democratico sopravviverebbe, le decisioni industriali ed economiche diverrebbero subalterne a logiche strategiche e militari, spesso opache e non trasparenti e, soprattutto, non sindacabili. Questo indebolirebbe la sovranità popolare sulle priorità della spesa pubblica e accentuerebbe il potere delle grandi industrie legate alla difesa, a scapito della società civile.

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