Sin dalla creazione di Tel Aviv, nel 1948, si è parlato e scritto molto del “Grande Israele”, ovvero dell’idea che l’obiettivo finale del Sionismo sia l’annessione forzata e la pulizia etnica di vasti territori arabi per destinarli all’insediamento degli Ebrei, sulla base delle affermazioni bibliche secondo cui questi territori sarebbero stati promessi agli Ebrei da Dio. I media di solito liquidano questo concetto come una teoria della cospirazione antisemita o, al massimo, come la fantasia marginale di un piccolo manipolo di israeliani.
In realtà, come aveva ammesso il Guardian nel 2009, l’idea di un Grande Israele da tempo attrae i “nazionalisti di destra religiosi e laici” di Tel Aviv. Essi hanno l’obiettivo comune di “cercare di adempiere ai comandamenti divini sull’”inizio della redenzione” e di creare “fatti sul terreno” per migliorare la sicurezza di Israele”. Il quotidiano aveva riconosciuto che questa motivazione era una forza motrice chiave nella politica israeliana mainstream, che “ha effettivamente trasformato i palestinesi in alieni sul proprio suolo”.
The Nation aveva descritto la spinta alla realizzazione del Grande Israele come “l’obiettivo ideologico centrale” del partito Likud di Benjamin Netanyahu, il dominatore della politica israeliana negli ultimi decenni. Nel luglio 2018, Israele aveva approvato la legge sullo “Stato nazionale del popolo ebraico”che sanciva “lo sviluppo dell’insediamento ebraico come valore nazionale”. Nel frattempo, lo Stato era legalmente obbligato a “incoraggiare e promuovere” la “creazione e il consolidamento” degli insediamenti nei territori occupati illegalmente.
Tutto questo si basa sul “diritto esclusivo e inalienabile” del popolo ebraico al possesso di territori lontani dall’attuale Israele, fino all’Arabia Saudita. Vengono utilizzati anche termini dell’Antico Testamento come “Giudea e Samaria”. Queste frasi però mancano nella traduzione ufficiale in inglese della legge. Forse, all’epoca, i capi israeliani non volevano rendere così evidenti le loro ambizioni coloniali irredentiste e colonizzatrici. Oggi, però, i Sionisti, ad ogni livello, non hanno dubbi sui loro grandiosi piani espansionistici in Medio Oriente.
La caduta del governo siriano ha sollevato domande, preoccupazioni e incertezze a livello locale e internazionale. Potrà il Paese sopravvivere nella sua forma attuale? Gli “ex” estremisti sostenuti dall’Occidente saranno in grado di gestire un governo? L’Asse della Resistenza guidato dall’Iran, che aveva inflitto gravi danni a Israele e ai suoi alleati occidentali per tutto il 2023 e il 2024, potrebbe essere in pericolo? L’elenco continua. Ma una cosa è certa: Israele sta cercando di trarre profitto dal caos e, se avrà successo, i risultati saranno rivoluzionari.
Posizione difensiva
L’8 dicembre, un Benjamin Netanyahu trionfante e in abbigliamento elegante e casual aveva tenuto un discorso pubblico da un punto di osservazione delle Forze di Difesa israeliane nelle alture del Golan occupate illegalmente. Prendendosi il merito personale della cacciata di Bashar Assad, l’aveva definita “una giornata storica” per la regione, che avrebbe offerto “grandi opportunità”. Il leader israeliano si era vantato del fatto che “l’azione energica di Israele contro Hezbollah e l’Iran” aveva “innescato una reazione a catena” di sconvolgimenti che non mostrano segni di attenuazione. Tuttavia, aveva messo in guardia da “pericoli significativi”.
Uno di questi, aveva dichiarato Netanyahu, era “il collasso dell’Accordo di separazione delle forze del 1974”. Questo accordo, in gran parte dimenticato, era stato firmato da Damasco e Tel Aviv dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973. Entrambe le parti si erano impegnate a non intraprendere operazioni militari ostili di alcun tipo nella zona del confine condiviso, sulle alture del Golan. Sorprendentemente, questo accordo è stato scrupolosamente rispettato per 50 anni. Ora, però, la caduta di Assad ha provocato il ritiro dell’esercito siriano dall’area e, a sua volta, l’IDF si sta facendo avanti.
Netanyahu aveva detto che all’IDF era stato ordinato di spingersi in profondità nella zona demilitarizzata creata dall’accordo, che, legalmente e storicamente, è territorio siriano. Aveva affermato che si trattava solo di una “posizione difensiva temporanea fino a quando non si troverà un accordo adeguato”. Da allora, però, è diventato sempre più chiaro che, per Israele, la partenza di Assad non solo apre la strada al ripudio di accordi diplomatici di lunga data, ma anche alla messa in discussione dell’intera mappa del Medio Oriente così come la conosciamo.
Per ora, l’IDF ha occupato il Monte Hermon, la montagna più alta della Siria, strategicamente importante, da cui si può vedere Damasco, a sole 40 miglia di distanza. Contemporaneamente, centinaia di attacchi aerei israeliani hanno cancellato ciò che restava delle infrastrutture militari siriane, lasciando il Paese completamente indifeso da qualsiasi incursione aerea, terrestre e marittima. La scena è pronta per una grave escalation e per un tentativo di Israele di incamerare ulteriore territorio. Chi o cosa potrebbe fermarlo?
Il 10 dicembre, mentre testimoniava al processo per corruzione aperto da tempo contro di lui, Netanyahu aveva colto l’occasione per accennare alla sconfitta di Assad, preannunciando un significativo riassetto della regione. “È successo qualcosa di tettonico, un terremoto che non si era mai verificato nei 100 anni successivi all’Accordo Sykes-Picot”, aveva detto il leader israeliano, riferendosi al trattato del 1916 con cui Gran Bretagna e Francia avevano smembrato l’Impero Ottomano creando una serie di nuove nazioni in Medio Oriente.
In modo ironico, la distruzione dell’Accordo Sykes-Picot, che aveva diviso il Medio Oriente in confini artificiali sotto il dominio coloniale occidentale, è sempre stata una caratteristica della propaganda dell’ISIS. Il gruppo ha usato il patto come simbolo dell’oppressione occidentale contro l’Islam, presentando la sua distruzione come un dovere religioso. Con l’arrivo al potere a Damasco di figure associate all’ISIS, questa visione potrebbe finalmente realizzarsi, una prospettiva che, senza dubbio, servirebbe gli interessi di Israele e si allineerebbe con le ambizioni di lunga data di Netanyahu.
Spazio vitale
I media israeliani hanno subito un significativo cambiamento di tono. Storicamente, le testate giornalistiche e i giornalisti israeliani avevano sempre inquadrato le azioni dello Stato – dalle operazioni contro i Paesi vicini all’espansione degli insediamenti e alla confisca delle terre – in termini di “sicurezza” e “difesa”, anche quando queste azioni erano state oggetto di critiche. Nei giorni che avevano preceduto l’invasione del Libano da parte di Tel Aviv, il 1° ottobre 2024, il Jerusalem Post aveva pubblicato una guida esplicativa sorprendentemente candida per i suoi lettori, chiedendo: “Il Libano fa parte del territorio promesso da Israele?”
Il Post si era appoggiato a un rabbino di Brooklyn per spiegare “gentilmente” e in dettaglio che, sulla base di diversi passaggi delle scritture ebraiche, “il Libano è all’interno dei confini di Israele” e gli Ebrei sono quindi “obbligati e comandati a conquistarlo”. L’articolo, che aveva suscitato reazione negative e condanne generalizzate, era stato successivamente ritirato. Ma, evidentemente, in alcuni ambienti la lezione di questa disfatta non era stata appresa.
Il 4 dicembre – quattro giorni prima della caduta del governo siriano – il Times of Israel aveva pubblicato un editoriale su come “l’esplosione demografica di Israele” richiedesse urgentemente un “Lebensraum“, un noto concetto tedesco che significa “spazio vitale”, tipicamente associato ai nazisti. L’articolo evidenziava che, secondo le proiezioni, la popolazione israeliana sarebbe cresciuta fino a 15,2 milioni entro il 2048. Il territorio di Tel Aviv doveva essere rapidamente ampliato, forse non fino alle dimensioni della Russia, ma certamente in modo considerevole.
Anche questa retorica estremista era stata eliminata dal web a causa delle diffuse proteste e della derisione da parte dell’opinione pubblica. Tuttavia, dopo il crollo del governo di Assad, l’espressione “Grande Israele” è riemersa nei media israeliani e l’idea di annettere territori dai Paesi vicini viene apertamente discussa dalla televisione israeliana in prima serata. L’analista geopolitica e fondatrice di The Cradle, Sharmine Narwani, ha spiega a MintPress News che, in un certo senso, la natura palese di queste discussioni è uno sviluppo positivo, poiché mette a nudo le ambizioni estreme di Israele. Infatti, avverte l’autrice, i tentativi di espandere i confini israeliani potrebbero ritorcersi contro in modo catastrofico.
“La buona notizia è che Israele ha completamente gettato la maschera. La cattiva notizia è che cercherà di accaparrarsi terre ovunque. Ma ciò avverrà in modo opportunistico e senza molta lungimiranza o pianificazione strategica. Alla fine, quale Paese oltre agli Stati Uniti sarà in grado di sostenere pubblicamente Israele? Tel Aviv si metterà all’angolo da sola perché il discorso occidentale dominante e il diritto dell’UE sono ancora basati sui diritti umani e sulle ‘regole”. Consentendo a Israele di accaparrarsi queste terre, si affosserà anche l’ordine globale guidato dall’Occidente”.
L’obiettivo primario
L’accademico David Miller concorda che la maschera è caduta una volta per tutte. “Il fatto che l’attuale regime di Damasco, sostenuto dalla CIA, dica apertamente di non essere una minaccia per Israele è un’altra indicazione del fatto che il cambio di regime in Siria è un tentativo pianificato di distruggere l’Asse della Resistenza e, successivamente, completare la pulizia etnica di tutti i palestinesi”. Inoltre, secondo lui, gli scritti del fondatore del sionismo, Theodore Herzl, chiariscono che l’impossessarsi del territorio libanese e siriano è sempre stato il piano di Israele.
Miller aggiunge che questo obiettivo era stato ripreso nelle dichiarazioni di innumerevoli Sionisti di spicco nel corso dei decenni e “persino codificato e pubblicato come Piano Yinon”. Oggi poco conosciuto, questo straordinario documento era stato pubblicato nel febbraio 1982 sulla rivista ebraica Kivunim con il titolo “Una strategia per Israele negli anni ’80“. Il titolo era dell’autore Oded Yinon, ex funzionario del Ministero degli Esteri israeliano e consigliere del leader israeliano Ariel Sharon.
Alcune fonti sostengono che il Piano Yinon aveva poi fornito la bozza per i principali eventi in Medio Oriente, come l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, il conflitto siriano e l’emergere dell’ISIS. Sebbene sia esagerato affermare che il piano avesse esplicitamente previsto questi eventi, le sue proposte rispecchiano da vicino gli sviluppi che si erano poi verificati nella regione.

Un ragazzo che porta del pane pedala verso casa mentre i veicoli militari israeliani bloccano la strada verso la città siriana di Quneitra, 5 gennaio 2025. Mosa’ab Elshamy | AP
Ad esempio, il piano sottolineava la possibilità che in Siria scoppiassero “problemi interni” tra “la maggioranza sunnita e la minoranza sciita alawi al potere” – quest’ultima costituisce appena il 12% della popolazione – “fino a sfociare in una guerra civile”. Anche se il “saldo regime militare” di Damasco era considerato formidabile, Yinon aveva dichiarato che “la dissoluzione della Siria in aree uniche dal punto di vista etnico o religioso” e la distruzione della sua potenza militare erano “l’obiettivo primario di Israele” sul fronte orientale.
Il piano prevedeva esiti simili per gli altri Paesi nelle vicinanze di Israele. Il Libano doveva essere suddiviso in “cinque province” secondo linee religiose ed etniche, una spartizione che “sarebbe servita da precedente per l’intero mondo arabo”. Yinon aveva scritto: “Questo stato di cose sarà la garanzia per la pace e la sicurezza nell’area nel lungo periodo e questo obiettivo è già oggi alla nostra portata”. Quattro mesi dopo, Israele aveva invaso Beirut, compiendo massacri e appropriazioni territoriali.
Una volta neutralizzati gli immediati vicini di Israele, l’Iraq era entrato nel mirino. Baghdad, “ricca di petrolio” ma “lacerata internamente” tra la sua popolazione sunnita e sciita, era “il candidato perfetto per gli obiettivi di Israele”. La sua distruzione era “ancora più importante per noi di quella della Siria” a causa della sua “potenza” e forza rispetto agli altri avversari regionali. Yinon sperava che la guerra Iran-Iraq, allora in corso, avrebbe “lacerato l’Iraq e causato la sua caduta”, impedendo a Baghdad di “organizzare una lotta su un ampio fronte contro di noi”:
“Ogni tipo di confronto interarabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada verso l’obiettivo più importante di dividere l’Iraq in denominazioni come in Siria e in Libano… È possibile che l’attuale confronto iraniano-iracheno approfondisca questa polarizzazione”.
Un approccio permissivo
Inoltre, Yinon considerava una “priorità politica” riprendere il controllo della penisola del Sinai, per la quale Israele aveva combattuto i suoi vicini arabi fin dall’inizio, prima di cedere tutte le rivendicazioni sulla regione all’Egitto con gli accordi di Camp David del marzo 1979. Aveva criticato questi accordi di pace e sosteneva che il Cairo “avrebbe dovuto fornire a Israele la scusa per riprendersi il Sinai” a causa del suo vasto valore “strategico, economico ed energetico”:
“La situazione economica dell’Egitto, la natura del regime e la sua politica panaraba porteranno, dopo l’aprile 1982, a una situazione in cui Israele sarà costretto ad agire direttamente o indirettamente per riprendere il controllo del Sinai… a lungo termine. L’Egitto non costituisce un problema strategico militare a causa dei suoi conflitti interni e potrebbe essere riportato alla situazione postbellica del 1967 in non più di un giorno”.
Siamo ormai ben oltre l’aprile 1982. Nel frattempo, i vari governi israeliani che si erano succeduti avevano chiesto all’Egitto di permettere all’IDF di trasferire la popolazione di Gaza nel Sinai. Netanyahu è particolarmente affezionato a questa prospettiva. Sulla scia del 7 ottobre 2023, il governo ufficiale israeliano e i documenti politici dei think tank sionisti hanno apertamente sostenuto la necessità di spingere i palestinesi nel Paese desertico confinante. È stato riferito che i funzionari israeliani avevano chiesto agli Stati Uniti di fare pressione sul Cairo affinché acconsentisse a questo esodo di massa.
Fin dal suo insediamento, Donald Trump ha espresso un forte interesse a “ripulire tutta” Gaza. Ciò richiederebbe lo spostamento dei palestinesi in Giordania e in Egitto. Nonostante l’opposizione anche dei suoi alleati, la diffusa condanna del piano come grottesca pulizia etnica e il rifiuto di entrambi i Paesi destinatari, il nuovo Presidente non mostra alcun segno di cedimento.
Per Israele, il fascino di questa strategia è evidente. Oltre a svuotare Gaza dai palestinesi e rendere possibile un l’insediamento coloniale, costringere innumerevoli persone a entrare nel Sinai creerebbe inevitabilmente caos e tensioni generalizzate, che potrebbero, secondo Yinon, fornire “la scusa” a Tel Aviv per occupare militarmente la regione alla maniera della Cisgiordania. Solo come “posizione difensiva temporanea fino a quando non si troverà un accordo adeguato”. Certo, come Netanyahu aveva detto della sfacciata creazione da parte dell’IDF di una base militare sul Monte Hermon.
Nel dicembre 2024, Haaretz aveva osservato che Netanyahu sta “cercando di essere ricordato come il leader che aveva ampliato i confini di Israele e creato il Grande Israele”. Contemporaneamente, la vicepresidente del neoconservatore Brookings Institute, Suzanne Maloney, aveva scritto su Foreign Affairs che la nuova amministrazione Trump “adotterà sicuramente un approccio permissivo alle ambizioni territoriali israeliane”. Dopo tutto, i recenti sviluppi hanno dimostrato che “un approccio militare massimalista produce spettacolari dividendi strategici insieme a benefici politici interni” per Israele.
Dobbiamo sperare, come ha profetizzato Sharmine Narwani, che le fantasticherie megalomani di Netanyahu sul Grande Israele siano solo questo. Nonostante il comprensibile lutto di tutti gli anti-imperialisti per la scomparsa del governo di Assad, Tel Aviv deve affrontare una panoplia di intrattabili problemi interni. Contrariamente alle affermazioni secondo cui la popolazione di Tel Aviv “esplode”, decine di migliaia di residenti hanno abbandonato Israele a causa dei continui attacchi al Paese. Allo stesso tempo, la sua economia è destina ad una stagnazione forse permanente e il Paese dipende dagli aiuti degli Stati Uniti per sopravvivere.