Dopo un periodo di calma apparente è tornato ad accendersi l’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi. L’escalation di questi giorni è talmente forte e cruda che i due paesi sono piombati in un vero e proprio status di guerra che, più o meno direttamente, coinvolge anche il resto del mondo, da sempre diviso tra i due contendenti ma che ben poco ha fatto per porre fine alle ostilità.
Ricondurre la causa che fa vivere i due popoli perennemente in guerra tra loro, ad una questione territoriale e di un mero diritto riconosciuto ai popoli di autodeterminarsi, sinceramente pare un po’ riduttivo. Dal momento che il conflitto sembra non finire mai, è evidente che nel sottobosco che lo alimenta, un ruolo di primo piano è giocato dai soliti interessi e voleri di tutti quei poteri più o meno profondi, che realmente comandano questi due popoli.
Non sono uno storico, nè tantomeno posso dire di essere un profondo conoscitore di tutte le dinamiche esatte per comprendere a pieno i motivi per cui in Terra Santa non siamo mai arrivati ad una pace giusta e duratura. Ma, se vogliamo entrare dentro al problema, da studioso delle materie economico monetarie, c’è una cosa che mi balza immediatamente agli occhi e sulla quale vorrei che tutti noi ponessimo attenzione, visto che il tema moneta comune ci riguarda molto da vicino.
Non so quanti di voi ne sono a conoscenza: i palestinesi non hanno una propria moneta, ma usano come mezzo di scambio all’interno del loro territorio il New Israeli shekel (Nis) – ovvero la valuta israeliana emessa esclusivamente dalla Banca centrale d’Israele ed a loro fornita. Elemento questo che inevitabilmente pone i territori palestinesi in un vero e proprio stato di dipendenza monetaria.
Siamo di fronte, quindi, all’ennesimo paese che usa una moneta che non emette, nè tantomeno controlla e – per di più – la riceve da una nazione con la quale è in guerra continua da sempre.
E’ sufficiente comprendere come, grazie al protocollo di Parigi, sia Israele a raccoglie le tasse dirette ed indirette dei palestinesi (dalle bollette all’IVA fino ai contributi dei lavoratori) per girarle poi in un secondo momento al governo di Ramallah, per capire come tutto questo negli anni si sia rivelato uno strumento di potere che trasforma la dipendenza economica in pressione politica. Insomma, è chiaro come la politica fiscale dei territori palestinesi sia direttamente gestita dal governo israeliano.
Se tanto ha fatto discutere il gap economico tra Grecia e Germania all’interno dell’eurozona, un paradosso per una moneta unica con tutte le conseguenze che ben conosciamo per il popolo greco, quello tra Israele ed i Palestinesi alza certamente l’asticella ad un nuovo livello.
A fronte della moneta che condividono, le differenze tra gli indici macro-economici dei due Paesi sono evidenti. Basti pensare ad un dato su tutti, che è quello del pil pro-capite dei due paesi: 45 mila dollari per Israele e 3 mila per la Palestina, rappresentano un differenziale talmente alto per due popoli che vivono a pochi chilometri di distanza, che sinceramente resta difficile non considerare la dipendenza monetaria come un delle principali cause del conflitto.
La Palestina è a tutti gli effetti una colonia di Israele e vista la dipendenza nella moneta, qualche domanda su chi finanzia le milizie di Hamas nei loro atti di guerra e su chi ha interesse affinché questo conflitto non abbia mai fine, dobbiamo porcela.
Con il sistema bancario palestinese totalmente in mano ad Israele, un territorio così piccolo e facile da controllare, nonché le super tecnologiche ed all’avanguardia strutture di cui è dotato Israele, resta ugualmente difficile comprendere come il governo israeliano ed i suoi reparti di intelligence non siano in grado di prevenire massacri umani di tale portata.
Forse anche dentro Israele giace un potere profondo che ha interesse affinché il conflitto si alimenti?
Vi lascio con questa domanda, invitandovi a leggere un datato articolo del luglio 2014 – dove si spiegano in mondo chiaro le problematiche dell’economia palestinese in conseguenza della dipendenza monetaria da Israele.
Buona lettura.
L’ECONOMIA E UNA MONETA INCATENANO LA PALESTINA AD ISRAELE
Di Mario Grigoletti, smartweek.it
26.07.2014
In un bar nel centro di Ramallah l’eco della voce del muezzin che intona l’adhan, il richiamo alla preghiera, interrompe le vite dei presenti. Il silenzio generale alza il volume degli slogan, in favore di Gaza e contro Israele, che tappezzano i muri della città. Pagando, in fretta, risulta paradossale pensare che l’economia e la banconota che utilizziamo, lo shekel, legano a doppio filo questi due Paesi perennemente in guerra.
Moneta comune
Se il gap economico tra Grecia e Germania vi sembra un paradosso per una moneta unica (e lo è), quello tra Israele e lo Stato di Palestina alza l’asticella ad un nuovo livello. A fronte della moneta che condividono, le differenze tra gli indici macro-economici dei due Paesi sono evidenti. Il Pil pro capite di Israele è di 32.500 dollari, quello Palestinese è di 1.200 dollari. Israele ha un tasso di disoccupazione del 5,9%, mentre in Palestina si registra un 26,2%, con la Striscia di Gaza, come reso noto da un bollettino dell’Ong britannica The Portland Trust, che nel primo quarto del 2014 ha registrato un tasso di disoccupazione pari al 41,0%, in forte crescita rispetto al 31% del 2013.
Il New Israeli shekel (Nis) è una valuta che è emessa esclusivamente dalla Banca centrale Israeliana, ponendo così i territori palestinesi attualmente in un vero e proprio stato di dipendenza monetaria. Questa dipendenza si riflette sul tasso d’inflazione, dato che anche a fronte di economie estremamente diverse, come abbiamo visto, il tasso d’inflazione palestinese è condizionato da quello israeliano. Il dato del primo quarto del 2014 registrava un tasso d’inflazione del 2,2% mentre in quello israeliano si assestava al 1,3%. Secondo l’Autorità monetaria Palestinese (Amp), questo livello d’inflazione è dovuto, tra le variabili, al costo delle importazioni, tenendo conto dell’inflazione e dei tassi di cambio dei principali partner commerciali della Palestina, tra cui appunto Israele, che conta per la quota più alta con il 90% di esportazioni e il 70% delle importazioni del commercio palestinese.
Dalla moneta all’economia passando per Parigi
L’uso della stessa valuta ha naturalmente dei forti contraccolpi anche sull’economia reale rendendo la Palestina, dopo la firma dei protocolli di Parigi firmati nel 1994 in seguito ai Trattati di pace di Oslo , fortemente condizionata e legata all’economia israeliana. Questi protocolli sono fortemente criticati dai vertici dell’Autorità Palestinese (Ap), tanto da arrivare nel 2012 alla richiesta formale dell’attuale Presidente Palestinese Mahmud Abbas di riaprire i negoziati per cambiarli, ricevendo il niet di Tel Aviv come risposta.
Con l’accordo in questione, ufficialmente, l’Ap diventa responsabile in materia di importazione e politica doganale, ma solo per determinati beni e determinate quantità. Intrecciando la dipendenza economica, il Protocollo lega le mani ai Territori e invece di permettere l’apertura verso l’esterno, obbliga il mercato palestinese ad aprirsi, come abbiamo visto quasi esclusivamente, a quello israeliano. Inoltre il governo di Tel Aviv ha il controllo sulla stragrande maggioranza di prodotti prima che questi possano raggiungere i Territori occupati o uscirne. Ovvero, importazioni ed esportazioni sono sotto il totale controllo israeliano, che stabilisce quantità, documenti, tasse doganali, tempi. Grazie a queste condizioni in pochi anni i prodotti israeliani, venduti a prezzi stracciati nei Territori, hanno occupato gli scaffali dei supermercati palestinesi. Come sottolinea Basel Natsheh, professore di economia alla Hebron University: “Le famiglie della Cisgiordania sono state costrette ad acquistare i prodotti israeliani, perché meno costosi e più facilmente reperibili. Basti pensare che l’80% di frutta e verdura provengono da Israele o dalle colonie israeliane.”.
Infine le tasse. Non che i palestinesi debbano pagare le tasse al governo israeliano, ma sempre grazie al protocollo di Parigi, Israele raccoglie le tasse dirette ed indirette dei palestinesi (dalle bollette all’IVA fino ai contributi dei lavoratori) e li gira in un secondo momento al governo di Ramallah. Questo negli anni si è rivelato uno strumento di potere che trasforma la dipendenza economica in pressione politica. Il 12 dicembre del 2012 il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, a seguito del riconoscimento, il 29 novembre dello stesso anno, dello Stato Palestinese come Stato non membro Osservatore Permanente presso l’Assemblea delle Nazioni Unite, ha annunciato lo stop dei trasferimenti fino a marzo. Circa 100 milioni di dollari al mese, che il governo di Ramallah avrebbe impiegato in gran parte per pagare i salari dei circa 153mila dipendenti pubblici.
L’economia Palestinese tra restrizioni e donazioni internazionali
L’alto numero di dipendenti pubblici non è casuale. Le restrizioni ai movimenti dei lavoratori ha generato un’impennata di assunzioni nel settore pubblico per cercare di arginare l’emorragia occupazionale. Una conseguenza diretta del peso delle restrizioni la troviamo nella Striscia di Gaza dove, secondo un articolo di Al Jazeera, un florido settore economico è quello dei tunnel che mettono in comunicazione Gaza con l’Egitto. Il giro d’affari stimato è intorno ai 700 milioni di dollari all’anno, con circa 7000 palestinesi che lavorano in oltre 500 gallerie, numero significativo se si conta che la Striscia conta un milione e 800.000 abitanti.
Secondo uno studio della Banca Mondiale, l’economa dei territori palestinesi potrebbe rilanciarsi se le restrizioni che la politica di sicurezza israeliana impone nell’Area C dei Territori Palestinesi, in particolare in Cisgiordania, fossero abolite. L’Area C in questione, a differenza delle Aree A e B dei Territori che includono le principali città e villaggi palestinesi, è caratterizzata da continuità territoriale e da una ricca dotazione di terreni agricoli e risorse naturali.
Se l’economia palestinese potesse avvalersi di queste risorse, potrebbe incrementare il prodotto interno lordo di un 35%. In pratica, secondo gli esperti della Banca Mondiale, le restrizioni causano ai palestinesi perdite per 3,4 miliardi di dollari.
Alle stesse conclusioni è giunto il Fondo monetario Internazionale, che in un recente paper sottolinea come l’interruzione dei negoziati per la pace ha smorzato le prospettive economiche dei territori palestinesi, portando a maggiori restrizioni da parte d’Israele e a sempre un maggior peso per l’economia palestinese degli aiuti e donazioni internazionali.
Proprio le donazioni e gli aiuti internazionali stanno diventando fondamentali nell’economia palestinese. Ma secondo un report dell’Autorità monetaria palestinese, la maggior parte degli aiuti stranieri viene destinato ai consumi e non investito, il che implica che la Palestina non può dipendere da questo aiuto per raggiungere una crescita economica sostenibile. Inoltre, una percentuale relativamente elevata di un aiuto viene dato ai palestinesi sulla base di considerazioni politiche piuttosto che per la solidarietà e lo sviluppo, il che rende i palestinesi meno affini con i donatori. Una riprova del carattere strettamente politico che caratterizza gli aiuti internazionali, si è manifestato quando nel 2012, a seguito della vittoria del movimento di Hamas nelle elezioni della Striscia di Gaza, il sostegno internazionale si è dimezzato, portando conseguentemente il tasso di crescita del Pil palestinese dal 9% annuo del periodo 2008-2011 al 5,9% del 2012.
L’economia palestinese è praticamente dipendente da quella israeliana. Il ripristino dei trattati di pace e la rinegoziazione del protocollo di Parigi sembrano due passaggi fondamentali per garantire ad entrambi i popoli crescita, pace e benessere. Le notizie dell’attacco a Gaza in questi giorni ci ricordano ancora una volta quanto sia lunga la strada da fare. La questione economica nel frattempo sta prendendo sempre più spazio nel dibattito tra la popolazione palestinese. Un paio di anni fa un gruppo di Facebook ha messo in atto una nuova forma di manifestazione non violenta nei territori, invitando la popolazione a scrivere sulle banconote israeliane “Free Palestine”. Quando si dice che il mezzo è il messaggio.