Il gioco perverso tra gelosia e desiderio di possesso, ovvero tra senso del possesso esacerbato dalla provocazione della gelosia, penetra come un veleno nelle relazioni d’amore. Sembra, oggi, essere divenuto il marchio più tipico del rapporto tra uomo e donna. E questo, fin dall’adolescenza, fin dalle prime esperienze vissute tra i banchi di scuola. I temi dei miei allievi e, soprattutto, delle mie allieve, sono un elenco desolante degli effetti di questi due tristi aspetti dell’amore.
Perché il problema, come ho capito nel corso degli anni, si può ricondurre a quei due sentimenti, a quelle due passioni di fondo: la gelosia e il possesso.
A farne le spese, in modo più vistoso e consapevole, sono soprattutto le ragazze; ma anche per i ragazzi, gli effetti negativi, meno vistosi e meno coscienti, non sono però meno gravi.
Così, un giorno, forte di questa presa di coscienza, forte dei miei cinquant’anni e del rispetto dovuto ai capelli brezzolati, avevo deciso, dopo aver letto e corretto i loro temi, gli ennesimi temi nei quali descrivevano il loro rapporto con il proprio corpo, con lo sguardo degli altri, di parlare finalmente del loro modo di vivere l’amore.
Purtroppo, non so dire il perché, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata una storia tratta dal Vangelo: l’episodio dell’adultera. Sarebbe stato un inizio fallimentare, senza dubbio, cominciare un discorso con la figura di Cristo. Contro i nostri adolescenti imperversa un’operazione di sradicamento culturale, messa in opera dai mezzi di informazione e di intrattenimento digitali. Sarebbe partire con il piede sbagliato: per esperienza, so che l’unica cosa che gli è rimasta della nostra cultura, è un anticlericalismo bigotto e senza contenuto; una sorta di condizionamento, efficacissimo per mantenerli sospesi nel vuoto ed evitare qualunque riavvicinamento al passato, alla tradizione, alle radici, appunto.
E poi, tutta la questione si sarebbe avvitata intorno alla solita domanda da tifoseria calcistica: ‘professore, ma lei ci crede…a Dio?’, con la ‘a’, come se Dio fosse un complottista diffusore di fakes su resurrezioni, apocalissi e giudizi finali. Questa domanda avrebbe banalizzato del tutto il significato delle cose.
Ma non riesco a togliere quell’inizio, e quindi non so se pronuncerò mai quella lezione in classe. Un giorno, se avrò il coraggio di farlo, sarà più o meno così.
“Il Vangelo è un testo su cui, penso, chiunque possa riflettere liberamente. Aver affidato ad una casta religiosa il ruolo di interprete unica e assoluta di quel libro ha finito per fare del male alla stessa religione cristiana. Il Vangelo ha un futuro ancora lunghissimo, più lungo delle strutture religiose che sono nate sopra di esso, perché contiene messaggi e principi che ancora oggi appaiono folli: e appaiono folli perché non siamo ancora capaci di comprenderli del tutto. Mentre riflettevo sui vostri temi, e ne digerivo tutto lo sconforto, il dolore, mi è ritornato in mente un episodio del Vangelo. Non so dire il perché, ma in questo periodo è un episodio che mi occupa spesso i pensieri, dandogli però un ordine, devo ammettere, piuttosto che una fissazione. Si tratta dell’episodio dell’adultera. Quante figure femminili ci sono nei Vangeli! Sembrano testi scritti da una sensibilità tutta al femminile: forse li hanno dettati le donne: chi può dirlo! Di ogni episodio del Vangelo possono darsi letture infinite, ognuna delle quali è riduttiva rispetto alla sua natura simbolica. Ma ciò dipende dal fatto che quella parola deve poter valere in ogni contingenza storica. Anche la mia sarà riduttiva, parziale, legata alla contingenza del tempo in cui viviamo. In quell’episodio di cui vi dicevo, c’è una donna, trascinata in piazza per una colpa terribile: l’adulterio, cioè il tradimento. Ecco degli uomini che si preparano ad eseguire una sentenza di morte: hanno un sasso in mano, pronto ad essere scagliato, per ferire, per uccidere. Gesù si trova lì, ad assistere in silenzio. Ma la sua autorità viene subito percepita ed interpellata. ‘É giusto quello che stiamo compiendo?’, gli viene chiesto. La risposta è divenuta proverbiale: ‘chi è senza peccato scagli la prima pietra’. Una risposta lapidaria, è il caso di dirlo, trattandosi di pietre. Parole che rendono del tutto simbolico l’episodio, che spalancano abissi psicologici e temporali veramente vertiginosi. Le pietre, innanzitutto, vengono avvicinate alle colpe degli stessi accusatori: la pietra scagliata da un uomo, il quale è anch’egli colpevole, è una pietra carica delle sue stesse colpe, del suo stesso peccato: è una pietra che ferisce, che uccide, e uccidendo, libera temporaneamente l’uccisore dalla coscienza di avere anche lui una colpa. Cosa stanno scagliando, in realtà, quegli uomini sul corpo di quella donna? É chiaro: si tratta delle loro proprie colpe. Subito viene colta una profonda connessione tra la colpa della donna e la colpa di chi vorrebbe scagliare la pietra. La donna, si rassegna a subire la condanna, pensando di meritarla; gli uomini, si preparano ad eseguirla, pensando così di proiettare fuori di loro qualsiasi responsabilità, di non essere anche loro colpevoli dello stesso peccato della donna. Ma di quale colpa si tratta? É la colpa dell’adulterio, del tradimento. Da cosa nasce un tradimento? Anche questo è risaputo: dal non sentirsi adeguatamente amati. Ecco perché la colpa è di entrambi: dell’uomo e della donna, insieme. Della parte maschile, come di quella femminile.
Con quella frase, Gesù scava tutta la distanza temporale tra noi e lui e ci raggiunge, con una velocità istantanea. Il suo corpo e la sua voce sono presso di noi, adesso.
Quante relazioni d’amore, oggi, vengono vissute all’insegna della relazione tra la donna lapidata e i suoi lapidatori. L’uomo, l’uomo di questo tempo, non non è in grado di amare realmente la donna, perché ne desidera soltanto il corpo; non è in grado di andare oltre un’esigenza mitica di perfezione fisica, sia propria che della donna che possiede. La donna, d’altro canto, condivide lo stesso pregiudizio; ma questo pesa più su di lei, che finisce per sentirsi perennemente inadeguata; perché il corpo, guarda caso, è per sua natura soggetto ad imperfezioni. Una donna, oggi, si sente costantemente messa in questione: non crede, in fondo, di meritare amore, perché soggetta alle imprevedibili imperfezioni del corpo, che non dipendono da lei. Avverte benissimo, con quell’acutezza di cui solo le donne sono capaci, quando lo sguardo dell’uomo che lei ama, ossessionato dalla corrispondenza tra il corpo e i modelli prestabiliti, comincia a sfuggirla. Allora, tenta in tutti i modi di suscitare quel relitto di sentimento che è la gelosia: ‘se mi ama, il mio uomo dev’essere geloso di me: deve accusarmi, rimproverarmi, picchiarmi, se è il caso; ma almeno, così sarò sicura di essere amata’.
La radice vera di questo scadimento è una sola: la mercificazione del corpo. Altro che tempio dell’anima, come voleva San Paolo! In un contesto di mercificazione, l’amore viene anch’esso ridotto alla pura materialità del corpo.
Ritorniamo a quella scena di duemila anni fa. Intorno a Gesù e alla donna sembra che non ci sia rimasto più nessuno: ‘dove sono quelli che ti accusavano?’ chiede Lui; ‘non c’è più nessuno’, risponde lei. ‘Non c’è più nessuna colpa intorno a me’. Quale senso di liberazione profonda deve avere invaso il suo animo, prima costretto dalle catene di una colpa, la quale, prima di essere stata imposta dagli altri, si era imposta da sola. Il cuore riprende a battere, l’anima a respirare. Non c’è più nessuno intorno. Solo lei e quell’uomo, che la guarda come nessuno mai l’aveva guardata. Lo sguardo di un uomo innocente, disarmato, paziente. Di uomo che attende che dal volto di lei, a poco a poco, possa affiorare qualcosa di molto antico, qualcosa che era stato dimenticato, anche da lei, soprattutto da lei.
Gli occhi della donna, lentamente, iniziano a splendere; il suo volto riluce di un sorriso. Non si tratta di lei: non proviene da lei quella effusione di chiarore che le pervade l’espressione. É qualcosa che sta alle sue spalle, in alto. É una grandiosa regione di luce, di cui lei era inconsapevole portatrice. Una luce che per quel breve attimo ha pervaso il suo corpo. Ma è stato lo sguardo di quell’uomo a farla riaffiorare: senza quegli occhi, nemmeno lei l’avrebbe potuta vedere.
Ecco qui, la soluzione ai nostri mali: è così semplice, in fondo. Basta soltanto saper guardare e saper attendere. Ma non la superficie: la profondità. Basta comprendere che ogni donna porta dentro di sé il dono di un amore spirituale oceanico, e che ogni uomo ha il compito di evocarne la bellezza, con il proprio sguardo, rinunciando a qualsiasi difesa, a qualsiasi tentativo di appropriazione. É un processo che va compiuto insieme.
Ma viviamo in un momento in cui la nostra civiltà, dopo aver mercificato con successo il corpo, si avvia a mercificare anche la parte più spirituale dell’uomo: il pensiero. Siamo ancora agli inizi della digitalizzazione e delle scoperte dell’intelligenza artificiale, e il cammino è lungo, ma l’esito sarà quello. Eppure, quella semplice storia di Gesù e l’adultera, piantata lì, proprio nel cuore della nostra storia, ci ricorda qual è la strada che noi dovremmo invece percorrere’.