Finalmente è tutto chiaro. Ora sappiamo che cosa ha messo fuori gioco per trent’anni i trecentomila sbirri, le telecamere di sorveglianza, le microspie, le intercettazioni telefoniche ed ambientali, i tracciamenti elettronici, il riconoscimento biometrico e facciale, le foto satellitari, eccetera. La colpa è tutta del salumiere, del tassista e del pescivendolo del paesino, che con la loro omertà coprivano la latitanza del superboss. Dannati favoreggiatori.
Questo tipo di recriminazioni, in cui i media oggi si stanno impegnando, risulta persino più demenziale del gossip sulla vita intima di Messina Denaro, un super-divo di cui la gran parte dell’opinione pubblica non sapeva nemmeno l’esistenza, ed assurto alla gloria in funzione dello spot pro governo della presunta cattura. Basti considerare che si è di fronte ad uno Stato che tranquillamente ammette di non essere impermeabile alle commistioni col crimine organizzato; per cui un cittadino che volesse denunciare, non potrebbe mai essere sicuro dello “sportello” a cui rivolgersi senza incorrere nel rischio di diventare a propria volta un bersaglio. Si tratta del consueto paradosso, per cui lo Stato e le sue Forze dell’Ordine, per poter funzionare, richiederebbero un popolo ideale, capace di fare tutto lui; ma, se esistesse un popolo così, si renderebbe del tutto superfluo lo Stato. Il paradosso si scioglie se si riconosce che lo Stato non esiste, è solo una finzione giuridica che fa da alibi per gerarchie sociali tutt’altro che trasparenti, ed inoltre trasversali alle astratte categorie del Diritto, come il pubblico ed il privato, o il legale e l’illegale. Chi una volta diceva che la mafia non esiste, pronunciava una mezza verità, che risultava però fuorviante se non completata con la constatazione che non esiste neppure lo Stato. Esiste il potere, il quale è superiore a certe distinzioni pretestuose e naviga a gonfie vele nell’incertezza del Diritto, tanto che neppure i potenti risultano effettivamente consapevoli di operare fuori della legalità. Il potere non è regola ma gerarchia; e la gerarchia si esalta tanto più nell’incertezza normativa, per cui la sottomissione al potente resta l’unico punto fermo.
A molti dà fastidio scoprire che la realtà non può essere rappresentata a compartimenti stagni e che il potere si ripresenta ovunque con gli stessi schemi, di cui il principale è sempre l’incertezza, la confusione; e non per niente ci troviamo nell’epoca dell’emergenzialismo cronico, dello stato di eccezione permanente.
L’istituzione sociale di base, la Scuola, è il campo in cui la tecnica confusionale è stata maggiormente sperimentata, per cui ogni ministro dell’istruzione, compreso l’ultimo, arriva proclamando di voler ristabilire la “autorevolezza” degli insegnanti; il che è già un bel casino, dato che nessuno è ancora riuscito a dare un minimo di definizione della autorevolezza. Lo stesso ministro poi non perde occasione di umiliare ulteriormente gli insegnanti, annunciando che essi saranno vessati in base ad un’altra categoria fumosa: il “merito”. In più il ministro pretenderebbe un’irreprensibilità degli insegnanti anche fuori scuola, impedendogli persino di bestemmiare nei post. Come a dire: cercate di entrare nelle grazie del dirigente scolastico e nella sua “cupola”, altrimenti ci inventeremo qualcosa per perseguitarvi.
Insomma, il potere reale sfugge alla dimensione istituzionale e rivendica la propria extralegalità, per cui sostenere un’alterità della mafia risulta poco plausibile. Tutta la narrativa ottimistica sul potere, dal Leviathan di Hobbes alla leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij, descrive la vicenda come la cessione della propria libertà da parte dei singoli in cambio di ordine; sennonché all’atto pratico il potere per riprodursi ha bisogno di moltiplicare il caos, tanto che il confine tra forze dell’ordine e crimine organizzato, tra legale ed illegale, non è per niente delineato; per cui il potere fa appello proprio a quei facinorosi che dovrebbe tenere a bada.
La tardiva cattura del superboss Messina Denaro ha alimentato le annose polemiche sulla “trattativa Stato-mafia” sulla questione del regime carcerario del 41bis, tanto che alcuni ipotizzano che anche l’anarchico Alfredo Cospito venga usato in questo negoziato come un ostaggio, come a dire: se non abolite il 41bis per i mafiosi, allora lo useremo anche contro chi non c’entra nulla col crimine organizzato. Pare accertato a livello giudiziario che si sia svolto effettivamente un negoziato tra funzionari delle forze dell’ordine e ministri da una parte, e boss latitanti dall’altra parte. Il quadro potrebbe vantare però una maggiore attendibilità se tenesse conto anche del terzo interlocutore che non può mancare, visto che ci si trova in un territorio iper-militarizzato come la Sicilia.
A suo tempo Pio La Torre denunciò il ruolo svolto dalla mafia nell’installazione dei missili nella base di Comiso, per cui i contadini furono “convinti” con metodi non ortodossi a cedere senza proteste i propri terreni. L’aver segnalato questo fatto costò la vita a La Torre ed al suo autista, Rosario Di Salvo. Negli anni successivi Francesco Cossiga, che da Presidente del Consiglio aveva avviato l’installazione dei missili, confermò le denunce di La Torre, e riconobbe anche di aver usato la vicenda dei rapporti tra NATO e mafia come arma di ricatto per sedare alcuni attacchi personali che gli provenivano dagli USA. Ovviamente i media non raccolsero minimamente queste “rivelazioni”, dato che Cossiga era ormai entrato nel ruolo del “matto” che può dire ciò che vuole senza conseguenze. L’identico paradigma si è ripresentato nel caso del MUOS di Niscemi, un sistema militare di comunicazione e di armamento satellitare. In questa circostanza il ruolo svolto dalla mafia è stato ancora più esplicito, non soltanto negli appalti ma anche nell’esercitare l’intimidazione nei confronti dei cosiddetti NO-Muos. A causa della vicenda del MUOS vi fu anche una guerra di mafia, ed alcuni boss attuarono uno scisma di Cosa Nostra, dando vita ad una nuova organizzazione denominata “Stidda”.
Pur nell’apparente dicotomia delle rispettive posizioni, gli ex magistrati Nordio e Scarpinato riconoscono che Cosa Nostra e ‘Ndrangheta fanno parte dell’establishment. La cosa a Nordio magari piace mentre a Scarpinato no, ma il problema vero è vedere a che titolo le cosiddette mafie sono entrate a far parte dell’establishment, cioè come agenzie di controllo coloniale sul Meridione; colonia militare ma anche colonia deflazionistica, perché il crimine organizzato è anche uno strumento per deindustrializzare il Sud. La presenza mafiosa ha quindi svolto una funzione ideologica non indifferente, visto che è diventata un ottimo alibi per il sottosviluppo del Sud; perciò nella propaganda ufficiale il “magistrato antimafia” ha assunto il ruolo di “civilizzatore” del territorio barbaro. Ma anche in questo quadretto c’è un inghippo, dato ciò che le stesse indagini ufficiali mettono in evidenza, cioè che anche le mafie drenano risorse dal Sud per reinvestirle al Nord o addirittura in Germania.
Vi è un gioco delle parti tra destra e sedicente sinistra, per cui ad una sinistra dedita alla fiscolatria ed alla magistratolatria, corrisponde una destra fiscofoba e magistratofoba; cosa che sembrerebbe strana, dato che la maggior parte dei magistrati fa riferimento alla destra, sennonché si tratta appunto di un gioco delle parti. Ogni potere deve recitare la parte della vittima per poter fare meglio il carnefice. Per la sedicente sinistra, la magistratolatria è l’ovvia conseguenza dell’abbandono dell’internazionalismo proletario a favore dell’internazionalismo della finanza. Se ci sono i poveri, non è perché c’è lo sfruttamento, bensì perché c’è la “corruzione”, a cui devono porre argine i mitici PM. La corruzione è un falso bersaglio davvero ideale, perché è un tema interclassista e tipicamente coloniale; infatti solo un potere esterno ad uno Stato può valutarne oggettivamente il grado di corruzione, per cui la corruzione è una sorta di discrimine tra popoli di serie A e popoli di serie B. La lotta alla corruzione è quindi diventata uno dei nuclei ideologici principali del neocolonialismo. In questa specifica campagna di propaganda si distingue la Banca Mondiale, la quale come budget non è granché rispetto alla banca consorella, il Fondo Monetario Internazionale, però nella funzione di indottrinamento e di intossicazione mediatica svolge un ruolo di primo piano.