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      • Natale ossia nascita

      Natale ossia nascita

      Caesar dominus et supra grammaticam, Cesare regna anche sulla grammatica. Il potere dei dominanti si estende innanzitutto sul vocabolario e il significato delle parole. Lo spiegò Carl Schmitt, anticipando Orwell: chi detiene la potenza definisce anche parole e concetti. Natale ha perduto quasi del tutto il suo senso originario, che attiene alla nascita, “quella” nascita. Nella grotta di Betlemme è nato un bambino che ha cambiato il mondo e persino il calendario, che da quell’evento ha segnato un prima e un dopo (Cristo).

      Fatto sta, al contrario, che di quell’origine, di quella nascita annunciata da una cometa e – per chi crede, dal Battista e da un arcangelo – nulla ci importa. E’ scomparso perfino nella parola che vogliono bandire dalla lingua inglese – Christmas – per il riferimento a quel bambino la cui pretesa, intollerabile per l’uomo di oggi, è di essere il figlio di Dio. E’ Natale perché si fa festa, ci si strafoga di cibo, si finge bontà, ci si scambiano regali, per abitudine o obbligo sociale. Strenne, nient’altro. Diciamo ancora Natale, ma il 25 dicembre potremmo chiamarlo Sarchiapone, come l’oggetto immaginario di una mitica gag di Walter Chiari, e sarebbe lo stesso. Auguri di buon Sarchiapone a lei e famiglia, e ossequi alla signora.

      In fondo, gli ultimi a credere nel Natale sono quelli che vogliono abolirlo, e augurano buone feste di fine anno, persino buon solstizio d’inverno, o inventano circonlocuzioni per non pronunciare la parola che scotta. Natale ossia nascita: curiosa evocazione della civiltà che da quella nascita ha tratto origine, forza, principi, decisa a scomparire. Non può essere festa il Natale al tempo in cui tutto congiura per la fine del tempo storico che in mancanza di meglio continuiamo a misurare da quel parto. Siamo nel pieno della cancellazione di tutto ciò che siamo stati, e oggi Victor Hugo non potrebbe più domandarsi: cos’è un fiume senza la sua sorgente? Cos’è un popolo senza il suo passato? Festeggiamo Natale per consuetudine, un retaggio del passato gradito al commercio, ignorando il significato del termine e il soggetto che nacque. Natale, Natale, più profitto al capitale, proclamava non senza buone ragioni uno slogan della nostra giovinezza.

      Peggio del ferragosto, le feriae Augustae istituite dall’imperatore come riposo dopo la lunga stagione agricola. Adesso è il baccanale delle vacanze, delle code in autostrada, delle città chiuse per divertimento obbligatorio. Natale è un dì festivo come altri nel circo della società di consumo e spettacolo; la parola non ci dice più nulla e chissà perché in tv tocca ascoltare le prediche stanche dei preti. Meno male che c’è il telecomando.

      Invece no. Piaccia o non piaccia, bisogna scuotere gli indifferenti – la maggioranza naturale della post modernità – e ripeterlo, spiegarlo con la voce di chi parla nel deserto, costretto a scusarsi con chi si offende e con chi è troppo impegnato tra mercatini, centri commerciali e futili acquisti destinati al fondo di un cassetto o alla raccolta dei rifiuti. E’ Natale solo a teatro, in casa Cupiello; solo al protagonista, lo sfortunato Lucariello, piace il presepio, ossia la rappresentazione di quella nascita. Per gli altri sono semplici statuette, un oggetto di consumo in più. Il simbolo natalizio è diventato un albero, meglio se artificiale, per non contribuire alla deforestazione. Oppure un vecchio barbuto vestito di rosso che porta regali, simbolo perfetto del feticismo della merce, assai distinto dal rito comunitario del dono, della sua accettazione e dal dovere di contraccambiarlo delle civiltà tradizionali. Oggi siamo arrivati al regalo in denaro, freddo, individualista, un buono da spendere come pare e piace che esenta da responsabilità il donatore; chissà se Babbo Natale ha un conto Paypal o Mastercard.

      No, ancora no. A chi scrive e a qualcun altro desta stupore, fa ancora riflettere una civiltà basata su una nascita, Natale perché è venuto al mondo qualcuno che ha dato una risposta – per molti “la “ risposta – al senso dello strano interludio chiamato vita. Diventato grande, il bambinello ne ha fatta di confusione: ha scacciato i mercanti dal tempio, ha detto di non essere venuto a portare la pace ma la spada, ossia a cambiare proprio tutto. Ha chiesto che gli scandali vengano alla luce, affermando però che chi scandalizza i piccoli, i semplici, sarebbe meglio che gli fosse appesa al collo una macina e gettato negli abissi del mare. Ebreo, ha scandalizzato il suo popolo promettendo il cielo anziché la terra. Ha rovesciato la scala dei valori nel discorso della montagna e di se stesso ha detto nientemeno di essere la via, la verità e la vita. Con quelle premesse, era inevitabile che lo condannassero a morte.

      Secondo le Scritture è risorto e da allora ci costringe a misurarci con lui. E’ affascinante – al di là del contenuto veritativo – una religione in cui la divinità si fa piccolissima (i teologi la chiamano kenosi) sino a incarnarsi nell’uomo, immagine di Dio di cui è figlio, quindi erede. L’ateismo, l’indifferenza morale e spirituale dilaganti, sono il segno del rifiuto di una filiazione che è anche eredità. Ecco l’esito finale del materialismo che diventa cancellazione (“cultura della cancellazione” è un ossimoro), quindi nichilismo. Siamo di passaggio senza un perché; nulla vale, in attesa della morte consumiamo e consumiamoci, Bacco più Dioniso.

      Colpisce che nella religione del bimbo di Betlemme i due poli, l’alfa e l’omega, siano la nascita e la resurrezione, non la morte. Fa pensare, così controintuitivo, così assurdo, come pensò Tertulliano, il primo intellettuale – dopo Paolo di Tarso – a diventare cristiano. Credo quia absurdum. Lo ripeté nel XIX secolo Soren Kierkegaard, la fede come paradosso, scandalo. Per un grande uomo di cultura, Alain De Benoist, assai critico con il cristianesimo, l’idea di Dio non è irragionevole. Irragionevole è un “Dio che si preoccupa dei pensieri e della azioni di qualche miliardo di bipedi che vivono su un piccolo pianeta situato in uno dei miliardi di sistemi solari esistenti nell’universo”. Sì, è stupefacente questa pretesa umana, così superba, figlia della consapevolezza della caducità.

      Eppure è proprio l’ ansia di assoluto, la sete di eterno che non abbandona l’uomo e lo differenzia da tutti gli altri viventi, a renderci esseri simbolici che del Natale – come dei rintocchi del tempo scanditi dal Capodanno – hanno bisogno. Non per fornire a se stessi risposte consolanti, ma per porre domande, implorare una ragione per ciò che è. Lo scrisse in versi lancinanti Giacomo Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. “Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve/ il tuo corso immortale? “Questa generazione, sotto il sole calante d’Occidente, aborre le domande; quelle forti, definitive, a cui non può dare risposta l’umana conoscenza.

      Perciò siamo turbati dalla fine del Natale, dalla sua riduzione a intermezzo di consumo, luci artificiali e ostentati buoni sentimenti. Crediamo per quanto sia assurdo, perché senza la luce del totalmente Altro siamo solo animali parlanti, un po’ più intelligenti, un po’ più crudeli. Dove ci sono due uomini c’è un conflitto, scrisse Giulio Douhet, stratega militare. Ma tra gli esseri umani, inevitabilmente, prima o poi sorge la stessa domanda del pastore errante. Possiamo esaltare tutta la scienza del mondo, ma l’unica risposta che placa la sete, che allontana il terrore, che riconcilia e talvolta arriva a farci chiamare fratelli, è Dio. Perciò quella nascita interroga ciascuno, e non permette che il 25 dicembre sia soltanto un giorno di grandi pranzi in cui si millanta felicità. No, l’uomo non è ciò che mangia, come pensava Feuerbach. E se davvero il bambino di Betlemme fosse il figlio di Dio, e questa vita un lacerto di eternità?

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