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      • NON SEMPRE C’È UN PRIMA E UN DOPO

      NON SEMPRE C’È UN PRIMA E UN DOPO

      L’uovo e la gallina rappresentano il proverbiale monito sull’assurdità di porsi certe domande, tuttavia la sequenza temporale come criterio euristico si affianca all’idea di un “prima e dopo” in senso gerarchico, o di rilevanza delle linee guida da scegliere, in alternativa tra loro, per impostare al meglio una ricerca ragionata di verità in un certo contesto. E’ quindi naturale che alcuni sposeranno un’ipotesi di lavoro ed altri una diversa, altrettanto meritevole d’attenzione, ma che può anche porsi in contraddizione con la prima, innescando così una polemica non sempre destinata a risolversi in senso positivo, cioè dirimente oltre ogni ragionevole dubbio.

      E’ il caso dei moventi che determinano il corso delle vicende geopolitiche, sui quali s’interrogano tutti coloro che s’interessano degli sconvolgimenti storici in atto.

      Una minoranza un po’ più illuminata della massa che invece non mostra interesse per queste cose, anche perché disinformata e distratta ad arte non coglie minimamente i nessi tra i macroeventi e la propria storia individuale, non se ne occupa con la scusante: “tanto non posso farci niente”.

      Il recente grave atto di guerra di Hamas contro Israele, con le prevedibili ancor più tragiche conseguenze future sulla popolazione palestinese, rappresenta un significativo banco di prova per misurare le capacità interpretative di tale cruda realtà, candidata a coinvolgere pesantemente il mondo intero, su scenari a dir poco inquietanti.

      La canonica domanda “a chi giova” trova molteplici risposte, che messe a confronto conducono ad altre domande di fondo, del tipo chi o che cosa governa questi fatti con certe finalità dirette e/o strategiche. L’ipotesi del false flag è inevitabile, anche viste le carenze preventive e immediatamente reattive della difesa israeliana, ritenuta tra le più efficaci in termini qualitativi.

      Ad esempio è notorio che quando un responsabile di governo si trova in gravi difficoltà, come ora lo è Netanyahu per molteplici problemi su tutti i fronti, una estrema via d’uscita salvifica è rappresentata da una qualche grave situazione emergenziale che giustifichi un’ulteriore concentrazione e consolidamento del proprio potere e consenso popolare. Se anche fosse vero che l’attacco militare al cuore dello stato ebraico è paragonabile per gravità all’11 settembre americano, è però altrettanto vero che la clamorosa mancata previsione e reazione israeliana ricade come colpa grave sul governo in carica, molto più di quanto potesse intaccare la credibilità del presidente Bush nel 2001.

      In ogni caso l’evento risponde alla necessità di ripolarizzare l’attenzione pubblica occidentale, a partire da quella americana, su qualcosa che superi lo stallo della fallimentare operazione Nato “Ucraina”.

      Altri però sottolineano la prevalenza del dominio finanziario sul mondo, rappresentata da un élite apolide che coinvolge sì gli interessi nazionali nel mondo che conta, ma per manovrarli in funzione di una strategia tanto trasversale quanto sovranazionale, e in parte addirittura desiderabile in una qualche misura da blocchi geopolitici apparentemente contrapposti. Anche qui di fronte all’imminente crisi epocale del sistema finanziario dominante, la cui rovinosa caduta trascinerebbe il mondo intero nel caos, non rimane altra scelta della guerra come soluzione e giustificazione di un reset pilotato, che come al solito cambi tutto per non cambiare niente, anzi per consolidare le assurde divergenze sperequative in continuo aumento, intrinsecamente insostenibili in condizioni di pace. A questo però si obietta facilmente che la complessità maturata dall’insieme delle varie realtà economiche e politiche nel pianeta impedirebbe un totale controllo strategico sull’intero sistema, anche ammesso che all’interno dell’élite dominante si trovi una sintesi unitaria delle loro finalità ultime.

      La domanda allora è: vengono prima gli interessi ed i poteri geostrategici, facenti capo a nazioni e blocchi ideologici, oppure prevalgono gli interessi finanziari sovranazionali incarnati da strutture economiche consolidate come le multinazionali (meglio sarebbe chiamarle aziende oligopoliste multicontinentali) e il sistema bancario-monetario mondiale?

      La mia modesta osservazione è che questi ultimi, costituiti da sete di potere e ricchezza che si rincorrono reciprocamente come un cane che volteggia vorticosamente nel tentativo di mordersi la coda, sono tanto rappresentati da un’elite aliena quanto larvatamente diffusi in tutta l’umanità, come fossero una forza biologica naturale, o sistemica che dir si voglia, incontrastabile in quanto tale, se non con una rivoluzione antropologica di natura spirituale e animica. Cosa che del resto sta maturando da millenni e cova silenziosa in ogni angolo di mondo, pur con tutte le differenze culturali e formali del caso che le fanno sembrare incompatibili tra loro (vedi il millantato “scontro di civiltà” a sfondo etnico-religioso), sotto la copiosa cenere dei conflitti accesi per lo più pretestuosamente da vere forze del male.

      Col risultato che l’azione elitaria di cui sopra, le cui strategie sono riconoscibili non solo nell’attualità ma soprattutto in una prospettiva storica di più ampio respiro, è un azione prevalentemente opportunistica, cioè limitata a sfruttare le opportunità che il corso degli eventi offre di volta in volta. In altre parole comanda la storia prima che le élite, per dominanti che esse siano nella sfera economico-finanziaria, politica, culturale, avendo tra le mani la principale leva di potere moderna che è la ricchezza concentrata.

      Alla luce di queste considerazioni, se veritiere come le intendo io, non può stupire che non ci sia un “prima e un dopo” nelle cause primarie che determinano gli eventi storici, anche terribili come quelli circoscritti ai quali stiamo assistendo e peggio ancora quelli generalizzati che si profilano all’orizzonte fosco che possiamo ora osservare da qui. C’è piuttosto un intreccio inestricabile di tutti questi aspetti che fanno della nostra esistenza un unicum, del quale siamo responsabili pro quota, e prima ancora, mi si consenta questa eccezione gerarchico-temporale, di fronte alla nostra coscienza, questo fenomeno potenzialmente unico, nel senso di consapevolezza animico-spirituale, nel panorama biologico del nostro pianeta e forse, come tipologia, dell’intero universo di cui siamo parte.

      Compreso questo le figure retoriche di “aggressore” e “aggredito” perdono perfino la patetica caricaturalità prodotta dal mainstream, per assurgere a realtà osservabili come drammi di una tragedia greca, oggettivi nella loro inesorabilità che fa parte del gioco della vita, talvolta crudele, talaltra meravigliosa, in una continua correzione evolutiva e trascendente che ci vede protagonisti nelle profondità della nostra essenza di esseri umani, combattuti tra il bene e il male. Un pensiero riconoscente alla memoria di Vittorio Arrigoni è quanto mai calzante e doveroso. Che Dio abbia pietà dei palestinesi sopravvissuti e di tutti noi, vittime e carnefici.

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