Cosa spinge un uomo a compiere atti illeciti o ad adottare comportamenti lesivi anche per sé stesso?
Tutti noi, in un determinato momento dell’esistenza, possiamo trovarci di fronte a decisioni che mettono alla prova la nostra integrità morale. Spesso un atto apparentemente innocente può trasformarsi in una giustificazione capace di rivelare la vulnerabilità dei nostri principi più profondi. La linea di demarcazione tra ciò che è ‘giusto’ e ciò che è ‘sbagliato’ non è sempre netta: la psicologia ci insegna che le ragioni che spingono un individuo a compiere atti devianti sono intrinseche alla natura stessa dell’essere umano. Uno sguardo onesto e privo di pregiudizi potrebbe mostrarci come la devianza non sia un tratto esclusivo di chi è condannato dalla società, ma si nasconda dietro comportamenti quotidiani che tutti, più o meno consapevolmente, mettiamo in atto.
Devianti si nasce o si diventa?
Secondo lo studioso Albert Bandura (Social Learning Theory, 1977), le leggi morali vengono acquisite all’interno del contesto familiare o sociale di appartenenza e gradualmente introiettate diventando quelli che lui chiama standard morali interni, un insieme di principi interiori che la persona utilizza per valutare la propria condotta morale. Anche per Sutherland (Principles of Criminology, 1939) il comportamento immorale viene appreso mediante un’interazione con l’ambiente, attraverso un processo di apprendimento del crimine. Le persone acquisiscono le tecniche, i motivi e le giustificazioni per il crimine attraverso l’associazione con individui che già praticano comportamenti devianti. In concordanza con i due ricercatori, Parson (The Social System, 1951) propone un’interessante lettura: la socializzazione è legata al processo di apprendimento dei ruoli e la devianza è vista come una patologia sociale dovuta a un difetto di apprendimento.
Sembrerebbe che l’ambiente sia il fattore principale nella costruzione di un processo decisionale non etico e che certi individui subiscano una vera e propria “educazione all’immoralità”.
Perché allora ci sono persone più inclini a tradire e a tradirsi di altre che appartengono allo stesso contesto sociale?
Un’ipotesi è che esista una dimensione morale innata, rispetto alla quale gli individui calibrano le proprie azioni. Solo coloro che la possiedono debolmente sono spinti a fare maggior affidamento a leggi esterne che, nel caso del delinquente, derivano strettamente dal contesto a cui è maggiormente legato. Tanto più il contesto è deviante e quanto più il legame con gli altri componenti del gruppo è forte, tanto più la persona priva di forza morale potrà esserne condizionata.
A sostegno dell’idea di una componente genetica determinante nel processo decisionale morale, lo psicologo Martin Hoffman ha elaborato una teoria sulla predisposizione biologica all’empatia. Secondo il teorico, la morale non è un semplice costrutto appreso, ma possiede radici biologiche ed è in stretta correlazione con la capacità di provare empatia, che si sviluppa già dai primi mesi di vita.
Forse una lettura più completa ce la può dare l’epigenetica, suggerendoci che ambiente e predisposizione genetica non sono mutuamente esclusivi, ma lavorano all’unisono: il contesto influenza l’espressione dei nostri geni e, di conseguenza, il nostro comportamento (che a sua volta ha il potenziale di riplasmare il contesto).
Quando è il giudizio a governare
Ogni volta che adottiamo decisioni moralmente ambigue o compiamo atti illeciti, si innesca un processo di valutazione interiore che porta a un giudizio critico sulla nostra condotta. I meccanismi che governano le giustificazioni di comportamenti eticamente discutibili sono gli stessi che operano nella mente di un criminale, sebbene in ciascuno di noi si manifestino con gradazioni e intensità differenti. In questo contesto, la dissonanza cognitiva svolge un ruolo determinante nel generare il bisogno di giustificazioni: la mente è per sua natura costantemente tesa alla ricerca di una coerenza tra i pensieri e le azioni. L’incoerenza crea disagio e confusione. Ecco perché quando due credenze risultano incompatibili, il nostro primo impulso è quello di elaborare una scusa che possa armonizzarle, razionalizzando il nostro comportamento in modo tale da convincerci che esso non solo sia giustificabile, ma addirittura necessario.
Come facciamo del male continuando a vivere bene
Lo dicono tutti: l’uomo è un animale sociale. E così, per vivere in società, talvolta ci viene chiesto di scendere a compromessi con la nostra natura. Fino a che punto siamo disposti a cedere?
Disimpegno Morale, il noto saggio di Bandura del 1967, ci insegna quali meccanismi si attivano quando vogliamo “salvare la faccia” una volta colti sul fatto.
Ci sono espedienti che riguardano la giustificazione delle azioni, come quando un dirigente di una multinazionale approva un progetto con gravi implicazioni ambientali, motivando la sua decisione dicendo che “l’impianto segue politiche green” (quando green in questo caso è un ossimoro). Facendo questo, sposta parte della responsabilità sul comparto tecnico dell’azienda e sugli azionisti che hanno fatto pressione per massimizzare i guadagni, rendendo più facile per lui accettare la decisione. Il politico che approva il progetto, inoltre, potrebbe anch’egli distanziarsi dalla responsabilità, attribuendo il danno ambientale non a sé stesso, ma alla multinazionale. Non solo: la sua decisione potrebbe apparire addirittura virtuosa, considerando l’eventuale impatto positivo dell’opera sull’economia locale.
Un altro meccanismo è quello capace di ridimensionare la gravità dell’azione. Esso si declina spesso edulcorando le parole, chiamando ‘missioni di pace’ gli interventi militari e ‘razionalizzazione del capitale umano’ i licenziamenti, oppure consolandosi dal fatto che “così fan tutti”.
In ultima analisi, il processo di rivalutazione della vittima riduce l’umanità della persona colpita, come nel caso di violenze contro gruppi minoritari, dove gli aggressori giustificano i loro atti dicendo che le vittime sono inferiori o meno meritevoli di rispetto. Altrimenti, attribuisce alla vittima la responsabilità per il danno subito, come nel caso di un bullo che giustifica la propria aggressione dicendo che la vittima “se l’è cercata”.
Sarà facile per il lettore trovare altri riferimenti nei fatti di attualità e lascio a lui l’onore di unire i puntini.
Questi meccanismi consentono alle persone di compiere azioni dannose senza compromettere la propria immagine di sé come individui morali. Bandura ha sottolineato che, soprattutto in contesti di gruppo, l’uso di questi meccanismi può rendere più facile l’adozione di comportamenti immorali, facilitando la diffusione di atti dannosi.
Come neutralizziamo le nostre azioni
Diversi sociologi affermano che l’essere umano tende a considerarsi moralmente superiore a quanto non risulti in realtà. La verità è che non ci basta scrollarci di dosso l’etichetta di ‘colpevole’ attribuita dagli altri: abbiamo bisogno anche di autoassolverci. Questo è fondamentale per allontanare potenziali minacce alla nostra autostima e alla nostra integrità psico-fisica.
Per Mazar (2008) le persone si comportano abbastanza disonestamente da trarre profitto, ma tanto onestamente quanto sia necessario per ingannare sé stesse della propria integrità.
I sociologi Matza e Sykes (Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency, 1957) hanno esplorato come i delinquenti giustificano a livello interno i propri comportamenti devianti.
Gli strumenti utilizzati per raggiungere questo scopo sono diversi e riassunti dai due ricercatori nelle cosiddette tecniche di neutralizzazione. La neutralizzazione è il processo mediante il quale un atto deviante risulta accettabile alla propria coscienza perché convertito in semplice azione.
La prima di queste tecniche è la negazione della responsabilità del gesto: l’autore dell’atto può attribuire la colpa ad un altro soggetto (si ricordi il tristemente famoso “Ho solo obbedito agli ordini”) o alla collettività, affermando cioè di aver agito solo per conformarsi a una consuetudine sociale (“Chi non lo fa?”).
Un’altra tecnica consiste nel negare il danno stesso, minimizzando gli effetti negativi dell’azione (“Mica ho ucciso qualcuno!”) o disconoscendoli in toto (“Rubare ai ricchi non è peccato”).
In alcuni casi l’individuo può negare la volontà della vittima (“Diceva no, ma intendeva sì”) o la vittima stessa (“Era un dittatore!”) oppure ancora mettere in discussione il giudizio altrui, accusando colui che lo critica (“Da quale pulpito!”) per distogliere l’attenzione dalla propria azione.
Ci si può infine appellare ad un bene superiore, quando ci si pone di fronte a un obiettivo ritenuto tanto importante da legittimare l’azione compiuta, come nel caso di chi afferma “Ho dovuto licenziarli per il futuro dell’azienda” o “L’ho fatto per il suo bene”.
I due studiosi hanno sottolineato come il processo di neutralizzazione non sia confinato alla realtà criminale, ma appartenga all’universale dell’umano e possa essere utilizzato ogni qualvolta sia necessario giustificare un comportamento altrimenti visto come inaccettabile. Davis (1961), in aggiunta, ha osservato come gli individui non attuino una vera e propria giustificazione delle proprie azioni (atto che presupporrebbe una certa consapevolezza), bensì delle semplici verbalizzazioni. Per Matza e Sykes esse precedono l’atto deviante e lo autorizzano; per Hirshi (1969) sono piuttosto dei costrutti ex post, utili per autorizzare sé stessi nel compiere azioni nocive successive.
Ci corrompiamo piano piano?
Se la trasgressione delle norme morali comporta un rischio per il suo equilibrio interno e per il suo legame con il contesto sociale, cosa porta una persona a scendere a compromessi con la propria integrità?
Potremmo ipotizzare che il punto di partenza sia una trasgressione di lieve entità, una mancanza di sensibilità poco evidente ma sufficiente a delineare una “linea di fondo” morale. Da quel momento in poi, ogni volta che l’individuo si troverà in contesti simili, l’impulso a tradire sé stesso si farà strada più facilmente, recuperando schemi già adottati.
Il passo successivo, non scontato ma possibile, sarà a quel punto più semplice: il desiderio di ottenere vantaggi personali o sociali potrà diventare predominante sulla sua fermezza interiore, ormai già lievemente intaccata come una tazzina sbeccata, non più tanto preziosa da essere usata solo nelle occasioni speciali. Sarà ormai disposto ad abbassare, seppur impercettibilmente, il suo standard morale, allentando progressivamente i vincoli che fino ad allora lo avevano governato. In questa pericolosa caduta si potrà assistere alla famosa fine della rana bollita, dove il povero animale sacrificato non sarà altro che la sua coscienza.
Logicamente, non per tutti questa forza annichilente porterà al disfacimento dei loro valori etici e all’etichetta di “deviante”. Tuttavia molti, nel loro piccolo, si saranno trovati ad accettare compromessi nel corso della loro vita, fosse solo una bugia a fin di bene o il non rispettare una promessa fatta. Che peso avranno queste mancanze sulle loro azioni future?
Una società schizofrenica
Un interessante contributo che ci aiuta a formulare ipotesi sul perché cediamo a imperativi immorali sono gli studi di Gregory Bateson sul doppio legame (Steps to an Ecology of Mind, 1972). Si verifica un doppio legame quando un individuo si ritrova intrappolato in una comunicazione ambigua e paradossale, in cui vengono dati due messaggi contraddittori, impossibili da soddisfare contemporaneamente (un esempio tipico è l’imperativo “Sii spontaneo!”, dove l’ordine stesso impone una forma di controllo sulla propria azione). Questa dinamica è portatrice di confusione e ansia, perché chi vi si trova coinvolto è costretto a fare una scelta tra opzioni che lo mettono sempre in una posizione di conflitto. Il fenomeno, nella sua origine, è stato utilizzato per spiegare, tra le altre cose, disturbi psicologici come la schizofrenia, dove la alternante esperienza di contraddizione emotiva e cognitiva può avere effetti devastanti sulla psiche di un individuo.
Nell’era contemporanea, così schizofrenica nella sua esteriorizzazione, il doppio legame è un leit motiv: un esempio tipico è il fatto che per goderti la vita hai bisogno di soldi, ma se per guadagnare lavori tutto il giorno non hai tempo per goderti la vita. Le pubblicità, poi, sono maestre nell’innescare doppi legami (si veda il dissacrante “Essere il migliore non è mai stato così facile!”). La società così com’è costruita, con le sue contraddizioni e le sue richieste insoddisfabili, porta strutturalmente a quotidiani cortocircuiti. E se fosse questa forma comunicativa così diffusa ad abituare l’uomo moderno ad abdicare alle richieste della logica, arrendendosi, stremato, di fronte a tante, troppe richieste discordanti?
L’abitudine a gestire doppi legami è anche capace di indebolire i propri cardini morali?
Per Pareto qualsiasi forma di comportamento umano comporta una razionalizzazione. È plausibile supporre allora che il ricorso a continue verbalizzazioni interne possa essere d’ausilio sia per uscire dall’impasse di richieste comunicative paradossali, che per far tacere una voce interiore che può apparire giudicante.
Tutti i meccanismi di difesa dell’Io e di neutralizzazione sono interconnessi e lavorano per proteggere l’individuo, seppur talvolta in modo socialmente disfunzionale, da un mondo troppo complesso. Quando le circostanze creano conflitti interni difficili da risolvere, questi processi fungono da salvavita, porgendo però il fianco a coloro che, da questa confusione, possono trarre grande vantaggio.