Premessa: il distributismo non è una dottrina economica come tante. Non si tratta di una costruzione teorica complessa, un sistema fatto di ingranaggi economici o passaggi meccanici. Il termine distributismo sigilla piuttosto una raccolta di principi semplici ma evidenti, ricorsi storici, prove empiriche e conclusioni morali dei più importanti processi economici. Filologicamente, la filosofia distributista scritta si afferma durante la seconda metà del XIX secolo nei lavori di autori inglesi quali Chesterton, da cui prende ispirazione questo articolo, Belloc, McNabb, Penty, Heseltine, l’economista tedesco Schumacher, mentre oggigiorno è rintracciabile nel pensiero di pochi intellettuali, tra cui gli italiani Auriti, Mazzariol e Blondet. Gran parte dei concetti propri del distributismo è presente anche nella dottrina sociale della Chiesa, in particolare nell’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII.
Pars destruens
Per prima cosa, il distributismo si afferma, nelle vesti di una radicale critica sia al capitalismo che al comunismo. L’essenza di entrambi i sistemi infatti consiste innanzitutto in una separazione dalle masse della proprietà, delle ricchezze economiche e sociali, per riporle inesorabilmente nelle mani di una ristretta oligarchia o sotto il controllo di un apparato centrale monopolistico. In tutte le società capitalistiche, ed in particolare nei sistemi o nelle epoche segnate da politiche fortemente liberali, si è stabilita – e la nostra vita quotidiana ne è l’ennesima conferma – quella condizione strutturale nella quale pochi magnati dell’industria e della finanza detengono il grosso dei capitali, mentre la maggioranza della popolazione è costretta a vendere il proprio lavoro, gran parte del proprio tempo, quindi della propria vita, in cambio di un salario. In altre parole, i molti sono non-proprietari e non rimane loro che vendere sé stessi. Checché ne dicano i teorici delle esternalità positive provocate dal mercato, il liberismo moderno porta inevitabilmente alla concentrazione di tutte le risorse industriali e finanziarie competitive (attenzione: non delle piccole proprietà naturali, cosa ben diversa dagli investimenti di mercato) nelle mani di poche economie di scala per dirla in termini attuali.
In aggiunta ai processi storico-meccanici, il capitalismo moderno di afferma principalmente in due dimensioni. La prima è un’etica della grazia divina, o per dirla con Weber, della vocazione (beruf)[1], per cui il successo negli affari che si manifesta con una cospicua ricchezza accumulata assume il significato di un’elezione ascetica. Allora è pregevole, degno di sostegno morale il capitalista che accumula ricchezza su ricchezza, terreno su terreno, e non in quanto sufficiente ad una vita completa, bensì perché l’accumulazione in sé diventa un fine. Tale etica favorisce l’acquisizione incessante della proprietà nella misura in cui è segno di Grazia o premio legittimo per la propria fame e la propria follia; «Stay hungry, stay foolish!» diceva un noto tycoon dell’informatica.
La seconda dimensione capitalista scaturisce dalle dottrine economiche liberiste e neoliberiste fondate a partire da teorie sull’efficienza prodotta dai grandi conglomerati industriali o più spesso finanziari all’interno di un mercato competitivo. Tali teorie, soprattutto le c.d. trickle down economies, ritengono vantaggioso per l’intera società che i grandi concentramenti di capitali siano favoriti dalla politica attraverso sgravi fiscali, incentivi, aperture economiche, legislazioni sul lavoro ecc. affinché i guadagni dei magnati “ricadano a cascata” in forma di occupazione ed esternalità positive anche sul resto degli operatori economici (salariati, piccole-medie imprese). In altre parole, sia nella sua dimensione etica che in quella dottrinale, la ragione capitalistica è follia antiumana.
Analogamente il comunismo, il quale assume come valore l’emancipazione degli uomini dalle disuguaglianze, dai bisogni e dal lavoro attraverso l’abolizione della proprietà privata, si scopre alla resa dei conti infondato. Bisogna infatti che qualcuno spieghi per quale motivo un uomo che compie, assistito tecnologicamente, sempre la stessa operazione o poche più, per un’indefinita volontà generale, debba essere più felice rispetto ad un contadino che ne esegue una ventina di differenti specie per dedicarsi alla terra di sua proprietà, la quale rende a lui il sostentamento più che necessario per la sua famiglia (e non per uno stato generico ed impersonale).
In secondo luogo, il comunismo non distingue tra piccole proprietà e grandi detentori dei mezzi di produzione. Più precisamente, i comunisti sono incapaci di vedere la realtà del piccolo e medio proprietario di una impresa locale o di un’attività famigliare, il quale, soprattutto oggi, non naviga sicuramente nell’oro, bensì fa fatica ad andare avanti allo stesso modo del dipendente salariato. Secondo i comunisti, invece, questa figura ha la stessa natura di una multinazionale: sarebbero entrambe sfruttatrici di plusvalore; e per questo “borghesi da combattere”. Come se il produttore di legna del villaggio rurale causi un impatto economico, sociale, ambientale e umano pari a quello dell’Ikea sul mercato della legna a livello mondiale! La verità è che i comunisti preferiscono un solo monopolista che controlli ogni residuo della vita economica di ciascuno pur di togliere la proprietà a chiunque.
Inoltre, ogni dottrina socialista (ma lo stesso vale per la sua controparte) nasconde una intrinseca sfiducia nell’uomo, nella misura in cui provvedono sempre (ed è stato attuato nella pratica) un’incessabile sorveglianza sugli uomini, considerati appunto inaffidabili nella loro libertà anche all’interno della loro stessa utopia:
«La logica astratta non dimostra affatto che la gente non possa sentirsi a casa in un’utopia socialista. Ma i socialisti che definiscono le Utopie in generale hanno la vaga sensazione che non lo farà, ed ecco perché devono creare leggi di controllo economico così complesse»[2]
Il socialismo è quindi intrinsecamente nichilista, anche indipendentemente dalle conferme dei comunismi reali:
«Ciò che sta dietro al bolscevismo e a molte altre cose moderne è un nuovo dubbio: non solo su Dio, ma soprattutto sull’Uomo […] la vecchia religione confidava nell’uomo, mentre la nuova filosofia ne diffida completamente»[3]
Comunismo e capitalismo si auto-annullano con le loro rispettive critiche. Da una parte, infatti, è lo stesso capitalismo a non poter fare a meno dello stato sociale e dei suoi interventi, tanto che sono gli stessi capitalisti ad invocarlo ad ogni crisi finanziaria, default bancario, fallimento del mercato. La mano invisibile del mercato liberale è ben lungi dal produrre il successo economico e sociale e sono i capitalisti i primi a saperlo tacendo.
Il socialismo a sua volta, già a partire dal Manifesto di Marx ed Engels, non fa che ringraziare il capitalismo di aver fatto uscire l’umanità dal retrogrado feudalesimo per proiettarla nella modernità che ella stessa critica. Nel fare ciò, il socialismo teorizza una serie di contraddizioni dialettiche che dovrebbero alla fine completare l’evoluzione storica nell’inevitabile superiorità del socialismo. In pratica è la miglior apologia del capitalismo, nella misura in cui è grazie a quest’ultimo che l’umanità avrebbe superato le “oscure epoche” precedenti e allo stesso tempo il socialismo si pensa quale ulteriore compimento del capitalismo, pertanto non potrebbe farne a meno.
Ma tali cortocircuiti non sono sorprendenti se appunto ci si accorge che entrambi i sistemi non sono altro che due facce di una stessa medaglia, quella del progressismo nichilista moderno che non può sussistere se non, come Saturno, divorando i suoi stessi figli. In entrambi i casi si assiste alla concentrazione di tutti i patrimoni ed i mezzi di produzione a favore di pochi grandi monopolisti – una Nomenklatura di pochi burocrati nel caso del socialismo; oligarchi dell’industria e della finanza nel caso del capitalismo – oggigiorno spacciati come virtuosi campioni di efficienza e sviluppo, ma che in realtà non sono altro che multinazionali sfruttatrici dei paesi meno sviluppati e delle classi lavoratrici più povere; magnati che acquistano ricchezza e potere in quantità inversamente proporzionale ai livelli di legislazione sul lavoro, potere sul mercato occupazionale, costo di manodopera ecc.
Esse sono in guerra aperta contro il mondo rurale autonomo, nonché con le piccole-medie imprese, le proprietà famigliari, locali, comunitarie. La realtà, di per sé naturale e millenaria, della piccola proprietà distribuita spontaneamente (non dall’alto), nonché l’organizzazione in gilde organiche, sono incompatibili con un sistema che funziona sulla ragion tecnica del calcolo di capitale al fine di conseguire un profitto che deve sempre superare l’investimento di capitale iniziale. L’investimento è profittevole solamente al più basso guadagno di chi lavora e solamente lavoratori depauperati delle proprie garanzie tradizionali-locali di sostentamento sono disposti a scendere al livello più basso di ricompensa per la vendita dell’unica cosa rimane in assenza di piccola proprietà: sé stessi. In ciò consiste in sintesi la condizione del salariato, il quale è la base ed allo stesso tempo la contraddizione del sistema capitalista:
«Il capitalismo è contradditorio non appena si realizza, poiché tratta la massa delle persone in due modi opposti. Quando la maggior parte degli uomini è salariata, diventa sempre più difficile per loro essere clienti. Il capitalista, infatti, cerca sempre di limitare le richieste dei suoi servitori, e così facendo riduce ciò che i suoi clienti possono spendere […] Vuole che lo stesso uomo sia ricco e al contempo povero»[4]
Lo stesso termine capitalismo non rispecchia adeguatamente un sistema fondato sull’elargizione alla massa sotto forma di salario. Piuttosto, dovrebbe essere chiamato «proletarismo», perché il punto essenziale non è che il capitale esista, ma che la maggior parte degli uomini non ne partecipi e detenga soltanto il salario. Ed il socialismo è anche in questo l’altra faccia della medaglia, ossia quella del monopolio/oligopolio a cui corrisponde il proletarismo della massa. La tendenza al monopolio è la vera conclusione strutturale da interrompere il prima possibile; è la principale piaga della società, insieme al resto delle questioni strettamente monetarie e macroeconomiche, in particolare l’emissione di moneta.
«Gli elementi più contradditori del pensiero moderno trovano un punto d’incontro proprio in questo profondo scetticismo sull’uomo comune […] Ma il nuovo rivoluzionario non rimugina su questo. Egli dice: «Pensa a tutti quegli stupidi in ville volgari o rozzi bassifondi. Pensa a come educano male i figli, a come maltrattano il cane e feriscono i sentimenti del pappagallo» […] non confidano che l’uomo possa comandare in casa sua, e certamente non vogliono che comandi nello stato. In realtà non vogliono dargli alcun potere politico. Sono disposte a concedergli il voto, perché hanno scoperto da tempo che non gli conferisce necessariamente alcun potere. Non sono invece disposte a dargli una casa, o una moglie, o un bambino, o un cane, o una mucca, o un pezzo di terra, perché queste cose gli danno veramente potere»[5]
Pars construens
Una delle evidenze messe in luce dalle osservazioni distributiste consiste nella naturalità della piccola proprietà. La proprietà naturale della propria casa (invece che pagare un affitto), del proprio terreno (invece che dover dipendere dal supermercato) e dei più basilari mezzi di sostentamento è il nucleo fondamentale intorno al quale l’uomo ha potuto fondare la propria indipendenza domiciliare, alimentare, artigianale e sociale. Va subito notato che affermare ciò non è nulla di rivoluzionario in sé, lo è semmai alla luce della situazione tragica contemporanea.
La piccola proprietà ha un’età millenaria, è sempre esistita nonostante i cambiamenti storici ed i tentativi di superarla, ossia ciò che tentano di fare i principali sistemi economici della modernità. Questi presuppongono secondo le loro logiche l’espropriazione di terre comuni da mettere poi sul mercato, come l’adozione delle Enclosures nell’Inghilterra protocapitalista, o per essere controllate da una burocrazia statale che ne usurpa i frutti, come in tutti i regimi comunisti. Ciò facendo le masse, abbiamo visto, vivono di mero salario elemosinato da pochi oligarchi che si sono appropriati di ciò che è sempre stato per natura usufruito da tutti gli uomini nelle rispettive comunità locali.
La morale della storia umana esige che ciascuno si senta libero di poter vivere del prodotto delle sue stesse mani, che ciascuno trovi la felicità nella radice delle cose intorno a lui. Nell’Ottocento vittoriano, Chesterton faceva notare che, a proposito della questione riguardante i bassifondi londinesi, i cittadini preferivano vivere nei loro slums, in cui le abitazioni erano dotate almeno di un cortile, un piccolo appezzamento dove potessero coltivare due patate o allevare due galline, piuttosto che venire ammassati in palazzi urbani nonostante fossero concessi gratuitamente dallo stato[6].
Nessuno nega che vi siano differenze tra gli uomini, ma non è biasimabile che un uomo trovi spontanea soddisfazione nel poter ricavare il nutrimento della sua famiglia dal frutto delle sue mani, nonché grazie alla sua conoscenza, invece che dover elemosinare ad una impersonale burocrazia aziendale spesso nemmeno situata nello stesso paese del lavoratore.
«Felix qui potuit rerum congnoscere causas (felice chi poté scoprire il perché delle cose)» diceva Virgilio[7] e lo sentenziò, va notato, nelle Georgiche, dove si parla di regole dell’apicoltura, in un momento di tradizionale attività contadina. Come se la conoscenza stessa fosse insita nella vicinanza con ciò che è per natura congeniale agli uomini.
«Ciò che non va nell’uomo della città moderna è il suo ignorare il perché delle cose; ed è per questo che […] può essere dominato da despoti e demagoghi. Egli non sa da dove vengono le cose […] più si fa complessa la cultura della città, e meno egli sarà l’uomo felice che conosce il perché delle cose»[8]
Pertanto, il primo atto davvero necessario consiste nel fermare l’avanzata del monopolio di tutta la proprietà. Una volta scongiurata la monopolizzazione delle ricchezze, basta favorire politicamente e socialmente, senza instaurare complessi apparati statali o burocratici, il ritorno a forme famigliari e comunitarie locali di proprietà, per cui ciascuna realtà è in grado, come lo sono sempre state le piccole terre comuni, i borghi medievali, le corporazioni delle arti ecc. di far fronte al fabbisogno per il proprio benessere diretto. La storia insegna che non v’è alcun bisogno di nazionalizzazioni o liberalizzazioni totali:
«Non affermiamo che in una società sana tutta la terra vada detenuta allo stesso modo; o che tutta la proprietà vada posseduta alle stesse condizioni […] Il punto su cui insistiamo è che il potere centrale ha bisogno di poteri più piccoli per esercitare una funzione di bilanciamento e di controllo, e che questi poteri devono essere di vario tipo: individuali, collettivi e così via»[9]
Prendendo come modello la società medievale, lo spazio economico-sociale fu in grado di sussistere per millenni secondo un caleidoscopio di sfaccettate istituzioni di diverso tipo: monasteri, corporazioni, terre comuni, città libere, ordini cavallereschi, diocesi ecc. Non v’è alcuna legge naturale per cui la piccola proprietà sarebbe destinata a scomparire, checché ne dicano i marxisti o i liberali utilitaristi. Se infatti per fare un esempio due nuclei famigliari avessero rispettivamente 40 acri di terra uno e 30 acri l’altro, quale guadagno potrebbe mai ottenere la seconda famiglia, o meglio quale fantomatico processo naturale esisterebbe per cui dovrebbero venderli alla prima se con quei 30 acri ottengono tutto il necessario per vivere? E quando mai la famiglia che vive di 40 acri avrà bisogno di altri 30 per vivere dignitosamente? Siccome vi saranno sempre ladri al mondo, ci rassegnamo regalando loro le chiavi della nostra casa senza fare nulla per impedire di rubarcela? In ogni caso, è innegabile che il proprietario di 30 acri non possa non trovarsi soddisfatto rispetto all’alternativa del lavoro su acri altrui, in cambio di un salario che lo rende schiavo del latifondista.
I ceti rurali o piccolo-urbani tradizionali sono stati costretti con la coercizione ad inserirsi nel mercato del salario al ribasso. Perché in principio, nonostante le laute prospettive di guadagno perorate dalla nascente borghesia riformata, i ceti tradizionali erano ben refrattari a passare da propietari di terre e lavoratori liberi in comunità proporzionate a sgobbare obbligati dal ricatto di un salario come unica ancora di sopravvivenza; nesuno infatti voleva fare a meno della propria “sazietà di vita“:
«L’avversario con cui ebbe in primo luogo da lottare lo “spirito” del capitalismo […] rimase quel modo di sentire e di comportarsi che si può chiamare tradizionalismo»[17]
Non ha alcun senso, come sostengono i detrattori delle piccole proprietà, pensare che ciascuna di esse in quanto piccola è destinata a scomparire. Equivale ad affermare che «chiunque possieda un bull terrier inevitabilmente lo venderà al proprietario di un mastino. È come dire che non posso avere un cavallo perché il mio vicino eccentrico possiede un elefante»[10]
Viene sostenuto che il rapporto tra istituzioni e proprietà è geneticamente competitivo, tanto da annullare qualsivoglia equilibrio, ma il nudo fatto storico (e logico) ammette tutt’altro. La competizione naturale di tutta la proprietà è non solo puramente teorica, ma anche confutata alal luce delle vicende che l’hanno riguardata:
«Queste persone parlano come se dieci minatori avessero partecipato a una corsa e uno di loro fosse diventato il duca di Northumberland. O come se il primo Rotschild fosse stato un contadino»[11]
La verità è che la piccola proprietà è sempre esistita ed è un dato di fatto che anche i critici sono costretti ad ammettere, seppur inconsapevolmente. Perché in tal senso anche l’ulteriore accusa di arretratezza storica, obsolescenza, residuo feudale ecc. ammette in realtà che esse sono storicamente millenarie o che comunque esistono. Altrimenti, tra l’altro, non sarebbero veicoli di tradizione, cultura, istituzioni che sono resistite alla prova del tempo (nonché tacciate di conservatorismo!). Vi sono state dovunque società in cui la piccola proprietà veniva considerata una istituzione chiave ed il lavoro si organizzava in corporazioni o gilde di mestieri che difendevano ogni loro membro senza differenze gerarchiche, dal mastro (mister) all’ultimo apprendista.
In questo senso, ciò che i comunisti sognano è in realtà sempre esistito. Dopo che la Rivoluzione francese facesse fuori gli ultimi residui del corporativismo sociale, con la legge Le Chapelier del 1793, le società europee hanno vissuto per due secoli nella schiavitù capitalista prima e bolscevica dopo, per concludere con quella neoliberista e neobolscevica di questi giorni. Non è un caso, infatti, che entrambe le ideologie moderne si siano affermate a seguito di spargimenti di sangue (Gloriosa Rivoluzione in Gran Bretagna, Guerra civile americana, Rivoluzione Francese, Rivoluzione Russa) i quali hanno creato il deserto chiamandolo pace.
«Una civiltà industriale di tipo moderno come quella capitalista non si manifesta dove fino a quel momento è esistita una civiltà distributiva come quella contadina. Il capitalismo è un mostro che cresce nel deserto. Quasi ovunque la schiavitù industriale è emersa negli spazi vuoti dove la vecchia civiltà languiva o era assente»[12]
Gli stati a servizio della grande oligarchia, non fanno altro che «avviluppare un uomo più povero in un groviglio di obblighi di genere, a cui alla fine non potrà far fronte se non vendendo il suo negozio o la sua attività»[13]. Al contrario l’uomo del pluralismo organico tradizionale, una volta pagato a Cesare quel che è di Cesare, principalmente per esigenze di difesa, continuava a vivere libero con innumerevoli possibilità di realizzare sé stesso. Contadini, monaci, artigiani, commercianti e così via avevano ciascuno la sua appartenenza socio-economica, la tutela corporativa per l’indipendenza e l’autogoverno del proprio ordine locale. Non v’è alcuna ragione per cui anche nel XXI secolo non debbano ri-nascere forme di redistribuzione del potere che possa bilanciare lo strapotere dei pochi oligarchi che di fatto governano l’economia e la politica di gran parte del mondo.
Per concludere, il distributismo non fa altro che portare alla luce quei principi naturali evidenti, che oggi sembrano trascurati, ma che al contrario sono i correlati logici della lotta contro i sistemi economici schiavisti della nostra epoca. Motivo per cui, tra l’altro, il distributismo non è assimilabile ad alcuna “terza via” o qualsivoglia ideologia sistematica come tante altre. Esso non offre alcuna perfezione, perché innumerevoli sono le manifestazioni del peccato originale umano. Il distributismo è invece una filosofia che cerca di riportare il senso della proporzione[14]. Non si tratta nemmeno di decrescita tecnologica, tutt’altro. La distribuzione della proprietà è indipendente dallo stato dell’arte tecnologica. Possiamo rimanere con i nostri elettrodomestici quanto vogliamo. E nemmeno si deve fraintendere un generico “ritorno alle campagne”. Il punto è un altro:
«Un uomo potrebbe vivere della terra, se non dovesse pagare un affitto al proprietario e un salario al bracciante […] si troverebbe in una condizione migliore se fosse il proprietario e il bracciante di sé stesso»