In Afghanistan, dopo la fuga della Coalizione Internazionale, fuga a guida statunitense, da poco più di un paio d’anni si è instaurato per la seconda volta un governo autoctono a guida “Talebana”, definizione questa quanto mai generalizzante usata nel linguaggio degli analisti main stream, e indicatrice di scarsa e qualunquistica conoscenza della situazione nella sua specificità pur anche della realtà afghana storicamente e culturalmente intesa. Molte definizioni, modi, logiche e giudizi rappresentano e continuano ad essere portatori non troppo sani di un imprinting suprematista di chi –lo sguardo degli “occidentali”- da tempo si pone sulla cima della collina ad illuminare il mondo.
La sconfitta e il brusco ritiro degli Stati Uniti dal Paese, insieme al crollo immediato del regime collaborazionista afghano che avevano costruito in quel paese, hanno sollevato la questione di comprendere l’identità statuale che si stava definendo; comprensione principalmente volta a garantire la sicurezza, sia per i vicini immediati dell’Afghanistan che per i paesi con interessi geostrategici nella regione.
L’allarmante incertezza che circonda questo Paese probabilmente durerà vari anni. Durante questo periodo, il fattore afghano avrà un’influenza decisiva sulla sicurezza regionale, spingendo gli stati della regione a cooperare non solo nella sfera militare, ma anche in quella economica e politica, in quanto la forza e la vitalità del nuovo regime restano un mistero per tutti gli attori esterni e, probabilmente, per gli stessi afghani; afghani ritenuti tali, soprattutto quelli che vivono all’interno dei confini attuali, ma che afghani in senso profondo non sono.
A proposito dei “nuovi” padroni del Paese, essi sono formati, secondo dati noti, da una struttura di rete con leadership decentralizzata e assenza di chiare catene di comando. Questo è ciò che ha permesso loro di sopravvivere e vincere in condizioni in cui il nemico aveva una totale superiorità militare e informatica.
La struttura ha diversi leader, principalmente emersi da una base tribale molto diversificata ed indipendente, seppur principalmente di etnia pashtoon; leader eletti in base alla capacità, all’ascendenza storica e alle decisioni delle varie Loe Jirga (assemblee), sia da quelle di villaggio che di federazione tribale – Durrani, Ghilzai, Waziri -, comparabili ed abbastanza equivalenti per forza e influenza, con proprie formazioni armate e proprie risorse. In più, ognuno di questi leader ha i propri legami con potenze straniere e con chiunque possa essere ritenuto funzionale al gruppo.
Se la storia ci insegna qualcosa, difficilmente ci si può aspettare la costruzione di un’amministrazione statale stabile in grado di controllare l’Afghanistan con una simile distribuzione del potere. La rivalità tra diversi leader e clan, tra gruppi etnici e religiosi poco propensi alla conciliazione – pashtoon, sunniti, hanbaliti o hanafiti, tagiki, sciiti ismailiti, hazara sciiti duodecimali -, l’autonomia di fatto delle regioni del Paese e i periodici scontri armati sembrano inevitabili. Non è da escludere nemmeno la ripresa di una guerra civile su vasta scala, o meglio un’azione per ripristinare antichi rapporti di forza che, in fondo, hanno garantito gli equilibri nella regione.
In primo luogo, ci sono contraddizioni all’interno degli stessi Talebani, che non sono monolitici proprio per le caratteristiche intrinseche. Al loro interno sono presenti varie fazioni politiche e leader in costante competizione tra loro. Non meno importante è la presenza di un’interpretazione dell’Islam di scuola hanafita agganciata alla visione del centro di Deoband in Uttar Pradesh, affiancata alla corrente hanbalita vicina al wahabismo di matrice saudita (fortemente propagandato e diffuso negli ultimi decenni grazie al sostegno dell’Arabia Saudita). Il fatto stesso che l’annuncio della composizione del governo sia stato rinviato più volte ha dimostrato quanto siano forti le contraddizioni. Cavalcando l’onda del successo militare, i circoli radicali hanno ottenuto una netta predominanza nel governo, ma in futuro la situazione potrebbe cambiare anche se appare difficoltoso esprimere valutazioni con una logica che solo è legata ad una visione specifica dell’agire politico, dell’etica, della creazione sociale: una visione che è esogena e forse ancora culturalmente neocoloniale.
In secondo luogo, esiste una tensione tra la chiara intenzione dei Talebani di stabilire un pieno monopolio del potere e il desiderio di far sì che altri circoli o gruppi politici continuino le loro attività. I talebani di codesti hanno bisogno solo come decorazioni. Considerando però la storia dell’Afghanistan, le espressioni dei vari gruppi politici presenti nella capitale o all’estero sono sempre state teatrino utile alle interazioni con un mondo “altro” che stenta molto a comprendere l’essenza della realtà afghana; mondo che vuole dei figuranti utili alla propria narrazione identificandoli come espressione della volontà degli afghani secondo schemi quanto mai lontani dalla dimensione reale. Si vedano, in tempi recenti, la figura di Hamid Karzai, oppure quella di Yaqub Khan insieme all’incaricato britannico Pierre Luis Cavagnari ai tempi della seconda guerra afghana contro il British Raj (1878-1880).
In terzo luogo, le contraddizioni tra Kabul e le élite locali (che sono sempre state forti) forse si intensificheranno; questo dipenderà dalle interazioni con le confederazioni tribali pashtoon. In alcuni casi, i talebani riusciranno a raggiungere un accordo con le élite locali, ma in molti altri la loro linea dura potrebbe portare al malcontento e persino a scontri armati, anche perché i gruppi etnici uzbeki, baluchi e tagiki del Panjshir, pur essendo all’interno dei confini del paese, si sono sempre rapportati conflittualmente al dominio dell’etnia dominante pashtoon (fosse essa Ghilzai o Durrani o altro).
In quarto luogo, sorgeranno senza dubbio gravi contraddizioni tra il regime e la popolazione urbana, abituata alla vita in uno Stato laico come poteva sembrare quella delle zone controllate dagli eserciti occidentali; Stato laico solo nella raffigurazione e che mai è stato possibile né voluto in Afghanistan nell’accezione banalizzante di cui il mondo occidentale si ritiene portatore e che in sé non vuol dire nulla. È sempre stato infatti difficile accettare che altre culture scegliessero un proprio modo di vivere, di organizzarsi, un proprio sistema di valori fondanti; secoli di colonialismo hanno creato nelle genti d’Occidente una pseudo mutazione genetica del pensare estremamente radicata, una specie di “cultural darwinismo” avvalorato perlopiù da rapporti di forza militari.
Probabilmente è errato cercare di comprendere la situazione dell’Afghanistan calando schemi interpretativi legati ai concetti di stato-nazione, di confini, di aggregazione culturale, di istituzioni e codici comportamentali utilizzati e forse nemmeno più utilizzabili per gli stati europei.
L’Afghanistan va compreso, per cominciare, tenendo presente il disassamento tra i confini geopolitici e quelli etnico religiosi retaggio del gioco coloniale del XIX secolo, i quali, tra l’altro, hanno separato l’insieme del popolo pashtoon inserendone una grande parte nell’attuale Pakistan.
L’Asia centrale, nella sua accezione più vasta che comprende la parte orientale dell’altopiano iranico fino alla valle dell’Indo, è sempre stata un’importante zona di scambi, di viaggi, di migrazioni e di conquiste, nonché di una costante acculturazione reciproca. Le civiltà iranico-islamica, cinese e indiana vi hanno trovato un vero spazio d’incontro nel quale un caleidoscopio di diversità e tratti comuni ha trovato un originale modo di vivere e nel quale si sono manifestate altissime espressioni di arte e di scienza. Le popolazioni dell’Asia centrale sono portatrici di tale ricchissima eredità e pare improprio limitarsi alle definizioni dei confini decise dalla storia del XIX secolo.
Al centro e al sud, poi, Afghanistan e Pakistan sono divisi da un confine che è l’emblema di tali assurdità: la “Durand line”.
Nella seconda metà dell’800 l’espansione russa, giunta all’Amu Darya, preoccupò il governo inglese che cercò più volte di occupare il territorio oltre la North West Frontier (ma ciò non fu possibile). Alla luce di questo e dei difficili rapporti con la Russia zarista, concordemente si decise di non avere frontiere in comune mantenendo un vasto territorio cuscinetto aspro ed esteso lasciato al controllo, prevalentemente, delle tribù pashtoon.
Il confine russo fu definito lungo il corso dell’Amu Darya fino alla profondità del Badakshan verso le alte montagne del Pamir; quello inglese, nato dagli accordi del 1893 tra l’emiro Abd ur-Rahman e sir Henry Durand, seguì le creste dei monti Suleiman ed è l’attuale confine afghano pakistano. Ad ovest, il confine rimase fluido e solo la richiesta di un arbitrato inglese da parte dello shah persiano Nasar al Din della dinastia Qajar, a fine ‘800, portò ad una più precisa definizione.
La linea Durand divide una nazione intesa nel senso europeo del termine, divide genti appartenenti allo stesso gruppo etnico, frammenta culture, costumi ed interessi comuni.
Codesti confini, dettati dalla geopolitica di due grandi imperi del XIX secolo, inglobarono etnie molto diverse tra loro. A nord prevalsero gli Uzbeki ed i Turkmeni, ad ovest i Tagiki di lingua darii e di cultura persiana, nelle valli del Panjishir e verso il Pamir i tagiki professanti lo sciismo ismailita , ai margini sud ovest i Baluchi, nel centro gli Hazara, dalle caratteristiche marcatamente mongole (pare discendenti da un distaccamento di cavalleria –Hazar diecimila- di Gengis Khan) sciiti duodecimani, e nell’esteso arco che va dal Chitral al Seistan (a cavallo dei monti Suleiman) la popolazione pashtoon, presente fino quasi alle rive dell’Indo.
Nel corso dei secoli questi ultimi furono sempre dominanti sia come presenza sedentaria sia come movimento nomade –i Kuci- comprendente tutto l’Afghanistan e, nell’infinità dei confronti, si definì un sistema di interazione e di simbiosi economico culturale con gli altri gruppi etnici. I rapporti gerarchici furono sempre chiari, se non condivisi, in un equilibrio storico, consolidato e consono alla realtà afghana.
Sotto l’aspetto sociale, religioso e politico si devono considerare le interazioni tra i diversi gruppi clanico tribali sia pashtoon che altri, gli equilibri interreligiosi, il ruolo trasversale delle confraternite sufi dei sunniti, l’importanza dell’Ismailismo sciita, nonché il fatto che l’insediamento dei vari gruppi non si cura dei confini disegnati sulla mappa e molto poco rispettati in realtà. Nessun pashtoon della North West Frontier si preoccupa di tale irrilevante dettaglio, che comunque mai nessun governo centrale è stato in grado di far rispettare.
Pashtoon e Afghan sono considerati sinonimi e Afghanistan è chiamata la terra su cui sono stanziati i Pashtoon, la quale resta nella coscienza collettiva che non è stata cancellata, nonostante alcuni devastanti decenni di guerre.
In questa dimensione, ad un certo punto sono apparsi i Talebani, sia di origine whahabita che deobandi. Apparsi in due specifici momenti storici ed agenti a più riprese e per diversi motivi, sovrapponendosi, o meglio, integrandosi con la presenza dei Pashtoon in una logica volta a ridefinire, in fondo, la condizione secolarmente primigenia del dominio di questi ultimi. Essi non hanno fatto che ripetere gli schemi secolari di gestione del loro muoversi all’interno del grande stridore provocato dal confronto geostrategico tra grandi potenze.
Come ai tempi del safavide Nadir Shah o del British Raj, o ancora più anticamente in altre circostanze, i Pashtoon si sono mossi cavalcando i marosi della Storia mantenendo fermo il timone sulla rotta della conservazione, della protezione e degli interessi del gruppo etnico.
I Talebani non avrebbero potuto nulla senza la collaborazione dei Pashtoon, molti dei quali sono diventati Talebani, provenendo dai campi profughi pakistani durante la presenza sovietica in Afghanistan, senza dimenticare però che la maggior parte dei suddetti campi era insediata in territorio tribale. Non bisogna sottovalutare il fatto che figure religiose carismatiche – i mullah – pashtoon sono state fondamentali e catartiche nel definire l’agire collettivo contro la presenza ridondante dei ”feringhi”, gli stranieri, così come analoghe figure lo furono ai tempi delle guerre anglo-afghane.
Impensabile sarebbe stato l’agire talebano senza la condivisione di intenti con i gruppi autoctoni, i quali, non bisogna dimenticarlo, possono determinare le vicende socio politiche anche in Pakistan; se questo non è avvenuto finora è perché il governo pakistano è ritenuto utile ed è stata prioritaria la lotta per cacciare gli stranieri occidentali.
Nel corso degli ultimi due secoli più volte le tribù pashtoon sono calate dalle montagne su Kabul, su Kandahar, dal mitico passo Khyber verso Jalalabad e il Punjab per cacciare o combattere invasori europei o governi a questi collaborazionisti. Ancora, in tale indefinita situazione non sono mai stati dimenticati gli interessi economici dei clan, dei gruppi tribali, delle confraternite; condividendo o mostrando di condividere gli intenti degli occupanti stranieri o dei loro nemici è stato quasi sempre raggiunto l’obiettivo di consolidare, arricchire, rafforzare militarmente, garantire la sopravvivenza del gruppo etnico nel suo ruolo dominante nell’area sud orientale dell’altopiano iranico.
Al termine della presenza sovietica, l’azione militare talebana continuò per imporsi ai vari signori della guerra, Mohammad Ismail khan ad Herat, Dostum uzbeko a Mazar-i-Sharif nel nord, Ahmad Shah Mas’ud dell’Alleanza del Nord nel Panjr ed altri ancora. Azione volta a perseguire la logica di controllo su esposta così come recentemente è avvenuto dopo la ingloriosa fuga della Coalizione occidentale che da due decenni aveva invaso il paese. Si è riproposto il modello dell’agire sociopolitico, ovviamente correlato ai tempi, che ha caratterizzato l’azione dei gruppi pashtoon nel corso dei secoli diventando essi ora alleati di Alessandro Magno, ora parte dell’esercito del primo imperatore moghul Babur , ora truppe scelte di Nadir Shah, ora Talebani – Pashtoon, cioè Afghani.
Per questi e molti altri aspetti una lettura appropriata della situazione è ancora interlocutoria, ma non potrà prescindere da una riflessione sulle peculiarità quasi uniche che costituiscono l’essenza storico-attuale del “Tappeto afghano”.