“La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, scriveva Von Clausewitz. La guerra è un fenomeno eminentemente politico e solo dopo e solo strumentalmente militare.
Rinunciare alla guerra significa abbandonare “la continuazione della politica” laddove l’agire del nostro nemico necessitasse un’azione guerresca da parte nostra. Il ripudio della guerra da parte delle classi subalterne (se si estende il concetto di guerra anche a quella di classe), significa l’accettazione della loro condizione di oppressi e la riduzione della loro attività politica a una pantomima, essendo essa rinunciataria in partenza di un eventuale scontro violento con il nemico (in questo caso di classe).
Per questa ragione è necessario sottolineare il ruolo nefasto e antipopolare che hanno concetti come il disarmo e il ripudio tout court della guerra e che troppo spesso deviano dal problema centrale e dalle radici delle condizioni in cui si trova oggi il nostro paese.
L’Italia è essenzialmente due cose: un paese capitalista e una colonia statunitense. Le due cose sono strettamente connesse e determinano il perimetro entro il quale si chiede disarmo e ripudio della guerra. La classe dominante nazionale non esprime gli interessi della maggioranza della popolazione italiana e trova protezione nella classe dominante statunitense, in cambio della fedeltà e della messa a disposizione del paese per gli scopi dei padroni d’Oltreoceno. Non c’è congruenza tra popolo e rappresentanza politica e, come in ogni paese capitalista non si può parlare né di patria né di nazione (ipocritamente sbandierata da quello attuale), in quanto esistono all’interno, due patrie e due nazioni: quella dei dominanti e quella dei dominati.
L’Italia e tutte le sue decisioni in politica estera non sono le decisioni del paese, ma quelle dell’élite dominante al comando (per conto terzi). In questo quadro è sensato chiedere il ripudio della guerra, in quanto guerra non espressione della volontà del Paese ma di un’oligarchia non rappresentativa e di interessi stranieri.
Chiedere il disarmo, in questo contesto ha senso, perché significa chiedere il disarmo della classe dominante.
Ma questi concetti non devono in alcun modo essere assolutizzati e generalizzati.
Se noi poniamo di essere un paese indipendente, sovrano e con reale partecipazione e potere popolare, disarmare il Paese significa privarlo degli strumenti per la propria difesa, e dunque renderlo inesistente nel contesto internazionale, in quanto privo di affermare la sua esistenza e di essere riconosciuto come interlocutore a causa dell’assenza di una sua dimensione militare. Lo stesso si può dire del “ripudio della guerra”. Un paese che ripudia la guerra è un paese che autorizza la sua eventuale distruzione da parte di paesi stranieri e che si espone ad essere terra di sfruttamento e di conquista da parte di potenze aggressive con mire imperialiste.
Concetti come disarmo e ripudio della guerra (ponendoci sempre in una prospettiva ipotetica post rivoluzionaria) vanno a vantaggio di potenze imperialiste già affermatesi sulla scena internazionale (come gli USA), contro quei popoli e quei paesi che hanno aspirazioni internazionaliste e di lotta per l’indipendenza.
La polemica degli ultimi giorni attorno alla produzione e all’invio di armi, ha senso di esistere solo in questo specifico contesto politico e istituzionale, ma è estremamente pericolosa se trasposta, ad esempio, in un paese socialista e internazionalista dove produrre e inviare armi ha tutt’altra funzione e obiettivo.
La retorica pacifista e del disarmo, se generalizzata, è assolutamente nefasta per le classi e per i popoli oppressi, nonché per i paesi che già rappresentano dei fari dell’antimperialismo.
La questione, dunque, non è non produrre armi, non esiste nessun trade off tra sanità (o istruzione) e difesa. Gli slogan del tipo “più soldi all’istruzione meno alle armi” è superficiale e non considera che, uno stato ben funzionante, investe sia nell’istruzione che nella difesa.
Il nodo della questione è chi comanda, cioè chi decide su come impiegare quelle armi e su quale politica adottare nei confronti dei paesi esteri.
Non bisogna dunque fare propri, in astratto, gli obiettivi del disarmo e del pacifismo, ma porsi come obiettivo la sostituzione dell’attuale élite al potere, per cambiare la natura capitalista dello stato italiano, per toglierlo dalle grinfie dell’imperialismo statunitense e farlo diventare un punto di riferimento ed un alleato dei popoli che lottano contro l’imperialismo.
Se un’Italia libera e popolare si ponesse questo obiettivo, sarebbero necessari ingenti investimenti nella difesa, nella ricerca tecnologica e nei sistemi di intelligence e sicurezza. Il popolo italiano dovrebbe essere pronto a una guerra spietata da parte degli USA e dovrebbe essere addestrato a resistere e reagire.
Disarmo, pacifismo e ripudio della guerra: l’Italia non se li potrebbe permettere, così come non se li possono permettere i numerosi “stati canaglia” nemici giurati di Washington.
Riportare il discorso sulla pace e sulla guerra entro un’ottica di classe significa abbandonare le dannose parole d’ordine del liberalismo progressista e prepararsi politicamente e psicologicamente (e preparare i più) nientemeno che a una guerra, interna, esterna e molto lunga.