La logica esattezza (presunta) dei numeri, si razionalizza nella nozione filosofica. L’astrattezza delle considerazioni logico-razionali, mentalizzate nell’organizzazione tecnologica, matematica e/o linguistica, siano esse di ambito scientifico e/o umanistico, confutate e/o teorizzate, cercano vitalità, respiro (come soffio vitale), nella poesia e nell’arte. Il completamento esistenziale del complesso logico-razionale, attraverso l’esperienza del sensibile e del percettivo, rende autentica la Ricerca, quella con la erre grande (maiuscola).
La porta dell’invisibile deve essere visibile. [1]
Non di visibilità, voglio parlare, ma ho trovato interessante l’immagine.
Questo insieme di domande che ho formulato è pura curiosità che non pretende soddisfazione, nel ricettivo e cauto ascolto, nell’osservazione.
Lo scarto tra REALE ED IRREALE è mistero, un vuoto intermedio, tra ciò che esiste e ciò che non esiste, che vorrei chiamare “attimo” (numericamente inteso, cioè espressione temporale minima dell’infinito). Cosa accade nell’attimo?
Per prima cosa bisogna cercare definizioni plausibili delle due condizioni.
Non so, chiamo a deporre il classico ed il neoclassico.
L’arte classica imitava la natura nella sua forma “migliore”, quella che corrispondeva alla spontanea dimostrazione formale di un ponte concettuale rivelante l’uomo (reale) ad immagine e somiglianza di un dio (irreale). Eternizzavano l’attimo esprimendolo formalmente. Le opere classiche conservano nei millenni la loro aura di maestà, l’assennatezza, il rigore, la fedeltà a quel patto di indagine ossessiva dell’ideale inimmaginabile (reale ed irreale), del quale tuttavia si conosce ogni dettaglio. Meno misterioso, ma non meno proficuo, è stato il neoclassicismo: la restaurazione di quell’accordo infranto – si vedrà, per sempre.
I neoclassici anelavano a caccia di un bello smarrito, o abbandonato. La sensualità della natura risultava vana, senza l’ideale sublime del divino. Seppur con pecca contraddittoria, solcavano codici oggettivanti il sommo concetto, inaccessibile e, quindi, inoggettivabile.
La Bellezza può ridursi a certi princìpi, ma non definirsi. [2]
C’è, quindi, il concreto, poi l’ideale, poi di nuovo il concreto…in un perpetuo alternarsi di realtà oggettive e soggettive.
Quindi uomo e dio, concreto ed ideale, oggettivo e soggettivo, tangibile ed intangibile.
Reale ed irreale sono consequenziali e, insieme, sono la Realtà.
Cos’è la realtà soggettiva?
Lo spazio temporale filosofico dell’attimo è anche lo spazio originario dell’utopia: la realtà oggettiva da imperfetta diviene non-perfetta, nell’idea generata direttamente dalla pulsione creatrice del desiderio. La realtà non-perfetta può considerarsi conseguenza dell’irreale (idea, desiderio), come postulato arbitrario basato sulla negazione della realtà oggettiva (imperfezione). E allora, se la realtà soggettiva è generata dalla realtà oggettiva, e attraverso volontà e desiderio contribuisce alla realizzazione di opere concrete volte ad oggettivare l’utopia, possiamo asserire che l’irrealtà è diretta derivazione della realtà che è ispirata, a sua volta, dall’irrealtà stessa.
Nel modernizzarsi, l’arte ha acquisito una certa onestà cromatica, quanto prospettica (si intende formalmente quanto filosoficamente), nel corso dei secoli, che è costata però il grande equivoco. Se da un lato l’arte, ancora oggi, continui a cercare quella forma linguistica eccellente che possa esprimere questa coesistenza di reale ed irreale nell’attimo-opera, la libertà interpretativa della dimensione dell’attimo, ha prodotto l’errata convinzione che il prodotto di tale interpretazione, possa essere considerato plausibile a prescindere da qualsiasi parametro, in forza della beata soggettività che ci ha liberati dell’univoco codice pontefice (disturbante e limitante), restituendoci alla Ricerca, che a sua volta esige però parametri, logico-razionali e sensibil-percettivi, per risultare virtuosa ed efficace: fondamentalmente, per giungere a qualcosa.
Lo stesso è accaduto al tessuto socio-politico, che ha tradito il progresso stesso, barattandolo con l’esercizio liberale (e non libero) delle singole esigenze espressive, o economico-finanziarie, senza fine legittimo, senza traguardo collettivo.
Così, ad oggi, le grandi ipocrisie urbanistiche, socio-politiche quanto pseudo-artistiche, hanno edificato ponti reali (dichiaratamente soggettivi, non più oggettivi di un inoggettivabile, cioè mettendo in scena una mezza onestà intellettuale) nell’attimo vuoto, vanificando lo sforzo di liberarlo dalle schematizzazioni del passato, oramai superate, per consegnarlo alla caotica aformale architettura-simbolo al neon, in pieno stile Las Vegas, dell’egocentrismo e, nei casi più maligni, dell’egoismo. Non c’è, antropologicamente, ad esempio, più spazio per le utopie.
Oltre un certo limite ”more is less”.[3]
L’equivoco ha mutilato nuovamente la Ricerca, perché gli approfittatori hanno dissacrato uno spazio di contemplazione.
Il futuro è irrealtà?
“L’ultimo passo dipende dal primo. […] Il primo passo dipende dall’ultimo.” annotava Daumal, tra le sue carte.
Produciamo quindi realtà attraverso l’attimo di comunicazione tra reale ed irreale, tra pieno e vuoto? Pensando all’atomo, non stento a crederlo…
Reale + Irreale = REALTA’
IRREALTA’ = ? + ?
Il silenzio è una delle rare condizioni di irrealtà?