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      • GLI ECO-VANDALI CONTRO L’ARTE: CI VOGLIONO PENE PIÙ SEVERE

      GLI ECO-VANDALI CONTRO L’ARTE: CI VOGLIONO PENE PIÙ SEVERE

      Il tribunale vaticano ha condannato a 9 mesi, con pena sospesa, i due attivisti di Ultima Generazione, Ester Goffi, 26 anni, e Guido Viero, di 61, che lo scorso agosto si incollarono al gruppo scultoreo del Laocoonte all’interno dei musei Vaticani. Entrambi dovranno pagare anche una multa di 1.500 euro per il reato di danneggiamento aggravato e una da 120 euro per quello di trasgressione “a un ordine legalmente dato dall’autorità competente” Il tribunale vaticano ha condannato anche Laura Zorzini, che filmò l’azione, a pagare un’ammenda di 120 euro. Viero e Goffi, inoltre, sono stati condannati a risarcire il danno al monumento per un totale di 28.148 euro.

      Pena lieve, per il danno causato. Pena insignificante, per l’azione violenta perpetrata ai danni di un’opera dalla portata artistica e simbolica immensa. L’assoluta noncuranza nei confronti dell’Arte caratterizza questi figuri che del protovandalismo nei confronti dei capolavori si fanno vanto.

      E allora gli vogliamo ricordare cosa sia questo gruppo scultoreo, e cosa rappresenti per l’Arte e per la Storia del nostro Paese.

      “Timeo Danaos et dona ferentes”[1] proclamava Laocoonte, avvisando i suoi concittadini del pericolo di introdurre il cavallo di legno dentro le mura di Troia. “Temo i Greci e coloro che portano doni” letteralmente, così dichiara con decisione il mitologico sacerdote di Apollo, unico non abbagliato dalla maestosità dell’opera lasciata dagli Achei davanti alla città di Ilio. Atena, divinità protettrice dei Greci, scaglia Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini, contro i suoi due figli. Laocoonte disperato cerca di salvarli, ma invano: tutti e tre finiscono stritolati.

       

      Giulio Romano, Laocoonte, affresco, 1538. Mantova, Palazzo Te, Sala di Troia, particolare.

       

      Questo il drammatico episodio che viene raccontato o, meglio, immortalato nel capolavoro oggi nei Musei Vaticani. La scultura originale, un bronzo databile al II secolo a.C., è andata perduta. La copia in marmo bianco, di età tiberiana, viene così ricordata da Plinio:

      «Né poi è di molto la fama della maggior parte, opponendosi alla libertà di certuni fra le opere notevoli la quantità degli artisti, perché non uno riceve la gloria né diversi possono ugualmente essere citati, come nel Laocoonte, che è nel palazzo dell’imperatore Tito, opera che è da anteporre a tutte le cose dell’arte sia per la pittura sia per la scultura. Da un solo blocco per decisione di comune accordo i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro di Rodi fecero lui e i figli e i mirabili intrecci dei serpenti.»

      Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXVI, 37.

      Stando alle testimonianze dell’epoca, Tito (Flavius Caesar Vespasianus Augustus) fu uno spietato capo militare e allo stesso tempo imperatore di grande generosità: fece distruggere il secondo tempio di Gerusalemme durante la rivolta in Giudea, ma fu tra i primi a soccorrere la popolazione in seguito in all’eruzione del Vesuvio del 79 e all’incendio di Roma dell’80. Per la sua indole andò sostanzialmente d’accordo con il Senato, ma fu fortemente criticato per la sua storia d’amore con la principessa giudaica Berenice di Cilicia, che portò con sé a Roma.

      La sua casa di rappresentanza era sul colle Oppio, probabilmente nella Domus Aurea, dove Plinio il Vecchio viene invitato e dove vede lo spettacolare gruppo scultoreo. Non si può escludere che il Laocoonte sia stato precedentemente di proprietà di Nerone stesso, prima di passare ai Flavi.

      Ed è esattamente sul Colle Oppio che il gruppo statuario venne ritrovato, molti secoli dopo, nei terreni della vigna romana di Felice de Fedris, il 14 gennaio del 1506, nell’area che era occupata dalle Terme di Tito. L’emozione della scoperta fece il giro di Roma, e la notizia si sparse in tutta Italia. Giuliano da Sangallo, architetto prediletto di Lorenzo de’Medici, fu immediatamente invitato da Papa Giulio II a seguire gli scavi. Appena vista l’opera disse: “Questo è il Laocoonte che fa menzione Plinio”, così testimoniò suo figlio, Francesco da Sangallo. Allo scavo, già importantissimo all’epoca, assistette di persona anche Michelangelo, che rimase folgorato dalla visione del gruppo scultoreo per la potenza espressiva. Lo Schiavo ribelle e lo Schiavo morente, 1513-1516, furono influenzati dal Laocoonte.

       

      Michelangelo Buonarroti, a sinistra, lo Schiavo ribelle, Museo del Louvre; a destra, lo Schiavo morente, 1513. Parigi, Museo del Louvre.

       

       

      La statua fu acquistata subito dopo la scoperta da papa Giulio II, che era un appassionato collezionista, e fu collocata nel cortile ottagonale (“Cortile delle Statue”) progettato da Bramante all’interno del complesso del Giardino del Belvedere, che divenne meta di viaggiatori, artisti e curiosi.

      La scoperta del Laocoonte lasciò un segno indelebile tra gli artisti del ‘500 italiano, e non solo: disegni e incisioni subito incominciarono a circolare per l’Europa, e la sua importanza e risonanza influenzarono nei secoli successivi anche il barocco del Bernini e il neoclassicismo di Canova.

      E sarà proprio Antonio Canova, in qualità di diplomatico, ad andare a Parigi a recuperare il gruppo scultoreo, nel 1815. Napoleone, infatti, dopo le sconfitte papali e il Trattato di Tolentino, nella primavera del 1798 fece caricare dodici carri pieni di opere d’arte italiane alla volta di Parigi, tra le quali appunto Laocoonte. Sul Passo del Moncenisio la scultura cadde riportando gravi danni, ma arrivò al Louvre, dove ci restò per 17 anni, divenendo fonte di ispirazione per gli artisti francesi. La sua restituzione al Papato causò proteste e sommosse da parte dei parigini, che ormai vivevano la statua come una loro proprietà.

      Antoine Béranger, L’Arrivo al Louvre delle opere d’arte acquisite al seguito della campagna d’Italia, 1813. Vaso di porcellana e bronzo dorato. Sèvres, Museo Nazionale della Ceramica. Particolare.

       

       

      E veniamo ai giorni nostri. Il Laocoonte è sopravvissuto ai secoli, alle guerre, alle cadute: ha resistito a Nerone, Tito e Domiziano, ai saccheggi vandalici di Roma, agli spostamenti sui carri, ai furti di guerra, a Carlo V e a Napoleone. Nella sua bellezza tragica, nei suoi volti disperati, stravolti nella forza del mito che rappresenta, il Laocoonte è stato più forte delle vicende umane.

      E ora no, noi non possiamo accettare che venga oltraggiato e vilipeso da alcuno, in nome di nessuna causa, vera o presunta che sia. La pena per chi non rispetta l’opera d’arte, nel suo molteplice valore, dev’essere più importante, più incisiva, più significativa, più severa.

      Non possiamo lasciar perdere. L’Arte non si tocca. Per nessun motivo.

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