Le ultime elezioni europee hanno suscitato una vexata quaestio non ancora cessata del tutto, soprattutto a causa del fatto che in Italia, per la prima volta nella storia, la maggioranza del paese ha deciso di non esercitare la facoltà di votare. Il paese degli astensionisti, sebbene l’elezione riguardasse il parlamento europeo, è ufficialmente la maggioranza ufficiale della nazione. Questo fatto inedito pone un importante problema politico, non soltanto per la legittimità democratica del governo, ma anche nella misura in cui il popolo dei non votanti è in questo momento l’indice di un potenziale ripensamento generale di mentalità che, sia l’establishment sia i consapevoli antisistema dovrebbero prendere in seria considerazione. Tuttavia, a riguardo l’opinione pubblica è ancora in subbuglio, nonostante alea iacta est: da un lato chi accusa gli astensionisti di pigrizia o di “falsa coscienza” per usare una formula marxista, perché il non voto equivarrebbe allo struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia lasciando il corpo alla mercé dei predatori. Dall’altro lato chi invece, in varia misura, insiste sul problema di democraticità del sistema e ne fa conseguire l’inutilità di partecipare alle elezioni.
Lungi dal voler prendere in mano uno dei due vessilli, nonché dal voler pensare di sciogliere i nodi rimanendo all’interno di una tale dimensione, l’interesse di chi scrive è quello di intraprendere una breve speculazione intorno all’essenza, alla natura dell’istituto del voto e più in particolare, anche per restringere il campo del tema altrimenti vastissimo, poterne scovare la portata metafisica, semmai ve ne fosse una.
Filosofia del voto
Il voto è sia una pratica procedurale che un concetto. Nel primo senso, il voto è l’effetto del comportamento razionale di una collettività. Tale comportamento manifesta una pratica collettiva ben precisa, adottata all’interno di un meccanismo di regole e procedure finalizzate a produrre un determinato risultato. Quest’ultimo consiste nella selezione di determinati individui preordinati ad essere scelti ed in seguito organizzati sempre secondo regole prestabilite. In parole povere, l’istituzione del voto (politico) ha innegabilmente un carattere procedurale-deterministico: indipendentemente da altri fattori di diversa natura, come il carattere degli individui, lo stato della cultura, l’”indice di democraticità” della nazione, i sentimenti o le idee degli attori ecc., il meccanismo del voto politico è un mezzo che, quando è in atto, produce e produrrà sempre un output finale (un risultato politico elettorale) a partire da degli input iniziali (votazioni). Quanto appena detto è ovviamente banale, ma necessario al fine di scogliere il nodo gordiano anticipato sopra.
Allo stesso tempo il voto politico non ha solo una natura materialistica, bensì anche concettuale, nella misura in cui gli attori che lo mettono in pratica sono esseri umani, non automi od ingranaggi. Chi vota infatti trasmette anche un messaggio ed il risultato stesso delle elezioni è un segno od un indice dotato di una funzione significante, una intentio (intenzione) per dirla in gergo filosofico. Alla resa dei conti, i votanti non azionano semplicemente le leve di un sistema idraulico, bensì hanno a che fare con un vero e proprio ente concettuale-semantico. Per definire meglio cosa si intende con natura concettuale-semantica, basti osservare che, un risultato elettorale non è solamente il procedimento (innegabilmente concreto e fondamentale) che giunge a spostare attori in determinate posizioni, bensì è anche il segnale del “sentire degli elettori”. Per fare un esempio recente, le ultime elezioni “dicono” che gran parte del paese ha poco interesse nella politica europea, soprattutto se si prende in considerazione il funzionamento del parlamento di Bruxelles e Strasburgo. Inoltre, l’astensionista odierno è scettico o disincantato rispetto all’efficacia delle elezioni così come si sono svolte negli ultimi anni. Addirittura, c’è chi ha interpretato l’astensione come un segnale positivo per il sistema stesso in quanto «chi non ha votato […] è perché ritiene il voto ininfluente perché sa che tanto la democrazia è solida[1](sic!)». Insomma, il voto (ed il non voto) è una pratica che va interpretata, ha una effettiva portata intenzionale, ossia rimanda a dei significati che trascendono il mero meccanismo di selezione dei candidati e tutto ciò non è altro che la conferma del lato invisibile, ma parimenti reale, di enti e fenomeni.
A suffragio della doppia natura degli enti concettuali come può essere il voto, interviene, senza che ci si debba inventare nulla, molta filosofia metafisica, soprattutto medievale[2]. Gli enti concettuali, più precisamente le specie e le categorie[3], sono, secondo la speculazione di Gilberto Porrettano, sia nelle cose singole (in re) sia esistenti in sé stessi (ante rem) o discendenti da un regno di pura idealità originaria (per il medievale Gilberto tale regno non poteva che essere la mente di Dio). Vale a dire che, aristotelicamente, un fenomeno esistente deve per forza di cose avere la sua forma peculiare a priori, cioè prima ancora che la cosa stessa esista nel mondo materiale, perché altrimenti tale ente non potrebbe tendere verso la sua forma finale, analogamente al seme che deve per forza di cose avere dentro di sé la forma finale della pianta per poter essere il seme di tale pianta e non generare altre cose totalmente diverse in modo casuale[4]. Inoltre, continua il Porrettano, l’universale (qui inteso come sinonimo di ente concettuale) è, alla fin fine, nient’altro che l’unità di una molteplicità, o più precisamente la collezione delle singole cose che classifica.
Ora, tutto ciò sembra sovrapporsi benissimo all’ermeneutica delle elezioni: i singoli voti individuali hanno di per sé, in quanto voti, la doppia natura loro propria di pratica procedurale (in re) mossa da una volontà dotata di idee e messaggi nella mente dell’elettore prima ancora che la scheda entri nel seggio (ante rem). Infine, il risultato di tutti i voti dà luogo ad un ulteriore concetto, che è, parafrasando Gilberto, la collezione di tutti i voti raccolti, la quale corrisponde ad una rappresentazione dotata di significati di secondo ordine. Riguardo a quest’ultimo punto, un pensiero di primo ordine può essere del tipo: «Esistono le idee?»; quello di secondo ordine è allora un pensiero del tipo: «Perché mi chiedo se esistono le idee?». Nel caso dell’istituto del voto quindi, si ha una natura concettuale di due ordini: quello individuale legato alla volontà degli agenti singoli (ed alle loro preoccupazioni, i loro calcoli, le idee, valori ecc.); quello collettivo finale che rappresenta l’idea universale di ciò che è l’aggregato a cui inerisce (basta vedere che già i c.d. exit poll ci permettono di “farci un’idea del paese”, del comportamento elettorale e di tutti segnali che ne sono immanenti).
Al contrario, Roscellino, riteneva che gli enti universali o concettuali fossero nient’altro che un fiato di voce (flatus vocis). Per i nominalisti[5], non esiste che il mondo della natura empiricamente sensibile e pertanto l’universo della semantica e dei significati astratti è puramente convenzionale, sebbene ne riconoscano l’utilità e l’importanza. Guglielmo di Ockham nega fino all’estremo che nella realtà vi possano mai essere concetti universali in quanto sarebbero contraddittori rispetto alla pura individualità di cui sono costituite tutte le cose, nonché nella misura in cui, secondo il noto principio del rasoio, non ha alcun senso moltiplicare gli enti oltre a quelli già presenti in natura e l’esistenza delle specie sarebbe semplicemente un’inutile moltiplicazione di cose intermediarie tra la realtà empirica ed il soggetto che la conosce, moltiplicazione che non rende giustizia al principio di economia della natura (frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora).
Al di là dei realisti, come Gilberto, e nominalisti estremi, come Ockham, vi sono anche vie di mezzo degni di considerazione quali Abelardo, Pietro Ispano e non solo. L’originalità del primo, al quale viene attribuita la paternità della definizione di universale come collezione delle cose singole, risiede nell’aver deviato l’attenzione sulla funzione dei concetti universali invece che sulla loro natura. In questo senso, per Abelardo i concetti significano cose non perché sono “fatti di significato” ma perché è la loro funzione. Metafisicamente Abelardo rimane nel convenzionalismo (per cui i concetti sono convenzioni umane) ma senza finire nel campo dei nominalisti puri, perché, al contrario di questi, il concetto pensato da Abelardo non è vox ma sermo, cioè discorso denso di significato, ed in questo senso l’universale presuppone il riferimento ad una determinata realtà significata: non è, in parole povere, un semplice segno convenzionale ed intercambiabile a piacimento, il cui unico scopo è quello di permettere un intendimento tra soggetti. Anche un realista come Gausleno riprende la formula di Abelardo dell’universale-collezione-di-cose, dotandola tra l’altro, ed è degno di nota in questa sede, di un significato politico: «Questa collezione […] è considerata una sola specie, un solo universale, una sola natura, al modo in cui si parla di un solo popolo, nonostante esso risulti costituito da molte persone».
Inoltre, sempre un medievale come Pietro Ispano già aveva anticipato quella che in epoca contemporanea, a partire da J.S. Mill e Frege, è la distinzione tra denotazione e connotazione (o senso): Pietro parla di significazione (significatio) per intendere l’intenzione di un termine con il suo bagaglio descrittivo; la supposizione (suppositio) è invece la mera proprietà che ha un termine di poter stare in luogo di molteplici nomi, avvicinando sempre più i termini allo studio di variabili prive di valenza ontologica. Tradotto: la suppositio è l’artificio che permette alla logica di separare il suo campo di azione dalla metafisica e quindi di poter agire su mondi diversi (ossia quello naturale in senso esclusivo ed altri universi convenzionalmente accettati) da quelli considerati sino ad allora, cioè l’universo cristiano. Ancora, si trattava, di separare la scienza logica dai vincoli della dimostrazione degli enti non naturalistici, cioè metafisici e teologici. Tuttavia, come già detto, Pietro Ispano era comunque lungi dal negare la valenza semanticamente ricca dei concetti.
La doppia natura del voto
Quindi, tornando più strettamente al discorso iniziale, la vexata quaestio elettorale, sebbene la sua risoluzione né è nell’intenzione dell’autore né probabilmente esiste definitivamente, può essere vista, forse in modo insolito, sotto la prospettiva di una disputa sugli universali tra chi, da una parte, nega la portata intenzionale dei risultati elettorali, affermando ovvero che conta solo il meccanismo procedurale, il sistema che legittima i nuovi governanti indipendentemente dal numero di votanti (in assenza di quorum), nonché a discapito dell’effettiva “adeguazione tra volontà democratica e governo” per parafrasare Tommaso d’Aquino (adaequatio rei et intellectus). Dall’altra chi invece è convinto che ci sia da ricavare un significato più profondo al di là del mero risultato materiale delle elezioni. Come sempre, ma soprattutto alla luce di quanto detto fino a questo punto, è di pari, se non superiore, dignità la semplice osservazione che dopo ogni elezione si verificano due fatti: viene formato un governo, parlamento ecc. in modo burocraticamente concreto: “ha votato il 45% degli elettori? Bene, i voti sono questi, ha vinto il partito A; tutto il resto segue. Fine”. In questo senso il voto è di fatto ed innegabilmente una pratica importante che incide sulla vita di tutti e di conseguenza l’astensione ha una stessa “capacità indiretta” di incidere in quanto modifica il peso e le percentuali dei voti in proporzione al rapporto tra preferenze e numero di voti effettivi.
Allo stesso tempo, come si fa a non rendersi conto dei segnali che emergono dai risultati? Come detto sopra, il voto non esiste in natura, ma è una pratica realizzata da una collettività secondo certe motivazioni, idee e per questo è un fenomeno che va interpretato. L’interpretazione è non solo possibile, ma necessaria. Da un astensionismo del 51% (senza contare schede bianche, nulle ecc.) si viene a sapere che c’è un problema non soltanto partecipativo da parte del popolo, ma anche una seria questione di democraticità del governo se si rimane dell’idea che la maggioranza è in qualche modo elemento fondamentale della democrazia. Inoltre, è indice di altri fattori: di cambiamenti avvenuti rispetto a dieci, venti, trenta anni fa, della mentalità delle nuove generazioni, del rapporto tra società e politica, dello stato della cultura ecc. Che cosa segnala la fotografia politica del paese? Che c’è sfiducia nelle istituzioni? Nei partiti? Che sta cambiando la società? Tali e tante altre domande confermano che v’è una realtà di significati che parlano oltre il mondo materiale. Altrimenti non avrebbe senso intraprendere analisi statistiche, sociologiche, o ricorrere ai concetti filosofici, per lavorare sull’invisibile significato di determinati fenomeni.
Questo insolito paragone filosofico-elettorale può chiarire, si spera, che nei casi un cui vi sono divergenze causate da parziali visioni degli oggetti di cui si parla, basti ricordare che la realtà, a maggior ragione quella sociale, è costituita da “almeno due dimensioni”.
«Quel che è nato dalla carne è carne. Quel che è nato dallo spirito è spirito»
Gv 3,6.