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      • LO SPREAD BTP-BUND: DA UNA FAVOLA ALL’ALTRA!

      LO SPREAD BTP-BUND: DA UNA FAVOLA ALL’ALTRA!

      Per chi ancora non lo sapesse, lo spread è il differenziale tra il tasso dei Btp e gli omologhi Bund tedeschi. Sostanzialmente un indicatore che misura lo scarto tra i titoli decennali emessi dal nostro Tesoro e quelli della Germania, una sorta di benchmark di riferimento che, secondo il pensiero “unico” del main stream, segnalerebbe sia la valutazione (anche in termini di fiducia) che i mercati accorderebbero alla gestione del debito pubblico, sia il peso da concedere all’andamento dell’economia.

      Tale indicatore (lo spread, ndr), è comparso per la prima volta sul pianeta con la nascita dell’unione monetaria europea e nelle nostre vite con l’ormai famosa crisi del debito sovrano durante l’ultimo governo presieduto da Silvio Berlusconi. Quando nel 2011, come tutti ben ricordiamo, il differenziale tra i Btp e gli omologhi Bund tedeschi arrivò a toccare la soglia limite dei 575 punti base.

      Fu proprio attraverso la narrativa di uno spread che si allarga sempre più – quale causa di un prossimo default sul nostro debito – che il deep state portò a compimento, l’ormai famoso golpe con il quale l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, riuscì a portare a Roma la Troika sotto le mentite spoglie del governo-Monti.

      Ottenuto quello che i poteri profondi, ormai stabilmente alla guida dei governi, desideravano – ovvero mettere a Palazzo Chigi colui che per loro conto, avrebbe ucciso il paese a suon di mazzate consistenti nelle ben note politiche fiscali di austerità estrema – furono sufficienti tre parole dell’allora governatore della Banca Centrale Europea per far finire la favola e renderla tale agli occhi di tutti. Eccetto che per i servi e gli sciocchi, naturalmente.

      Mario Draghi, che alle parole (whatever it takes, ndr), fece seguire i fatti, diede immediatamente il via ad una massiccia politica monetaria, indirizzata unicamente a salvare la moneta euro e di conseguenza l’eurozona. Una serie di programmi di acquisto di titoli del debito pubblico, frutto di una creazione di moneta dal nulla, come mai vista prima nella storia dell’Istituto con sede a Francoforte, con la quale si arrivò a monetizzare più di un terzo dei singoli debiti di ogni paese membro. Tutto questo, è bene ricordarlo, senza far arrivare nemmeno un centesimo dentro l’economia di chi lavora.

      I tassi volarono verso lo zero per finire addirittura in zona negativa, dissolvendo così ogni dubbio anche in chi fino ad allora non credeva che i rendimenti dei bond governativi non sono assolutamente determinati dai mercati ma, bensì dal monopolista della moneta, ovvero le Banche Centrali.

      Quello che rimase in piedi della favola furono i differenziali, magistralmente gestiti dalla Bce, non potrebbe essere diversamente! Questo perché era necessario che la struttura anomala e predatoria di una unione monetaria, privata volutamente di una politica fiscale comune, così come creata per interessi strettamente elitari, restasse ben viva e vegeta.

      Quindi, la favola dello spread, usata allora come abbiamo visto per guidare il gregge verso la meta desiderata, oggi per le stesse necessità torna prepotentemente alla ribalta. Questa volta però, a differenza del 2011, la narrativa è utile invece per magnificare l’operato dell’attuale governo, evidentemente ben ligio e e gradito al Potere.

      Sono settimane che la stampa main stream e la nostra premier si esaltano per la riduzione del nostro spread nei confronti dei titoli tedeschi.

      Si legge su Il Sole 24 ore: “Lo spread che cala e si attesta nella seduta del 14 marzo attorno ai 127 punti base (dopo aver toccato quota 116) è senz’altro una buona notizia per i conti pubblici, perché si traduce nel tempo in minore spesa per interessi da impegnare per il servizio del debito, ed è al tempo stesso un segnale da non sottovalutare per l’economia nel suo complesso”. [1]

      Sarà vero che uno spread che si riduce, si traduce nel tempo in una minor spesa da impegnare per il servizio del debito?

      Ma neanche per sogno!

      E per attestare tale falsità non occorre neanche andare molto lontano, basta proseguire nella lettura dell’articolo appena citato a firma Dino Pesole, dove si riporta il quadro previsionale del governo contenuto nella Nadef (Documento di economia e finanza):

      “La spesa per interessi è indicata a quota 88,9 miliardi nell’anno in corso, a 94,4 miliardi nel 2025 mentre nel 2026 si supererà la soglia dei 100 miliardi (103,5). In percentuale rispetto al Pil, il quadro programmatico vede gli interessi passivi al 4,2% nel 2024, al 4,3% nel 2025 e al 4,6% nel 2026”

       

       

      Del resto anche un bambino, con un semplice ragionamento aritmetico, arriverebbe alla facile conclusione che la maggior spesa per interessi non dipende dal differenziale che paghiamo in più rispetto al titolo di un altro paese, ma bensì, dalla percentuale applicata per calcolare l’ammontare degli interessi da corrispondere.

      E’ il tasso di interesse che determina il loro ammontare, e qui torniamo sempre a chi ha il potere di deciderlo: la Banca Centrale Europea.

      Non occorre andare molto lontano per comprendere, che nonostante le fanfare di uno spread che si restringe, la spesa per interessi del nostro paese in quattro anni è quasi raddoppiata: basti pensare che nel 2020 era 57 miliardi.

      Ecco che si sbriciolano anche le chiacchiere fin troppo deboli e ripetute a pappagallo di Ministro in Ministro (di destra, sinistra o tecnico) di cui si sono riempite le cronache economiche dei nostri anni: «Non conta il valore assoluto del debito, ma il suo valore in rapporto con il Pil»; «non conta il tasso di interesse, ma lo spread», e così via.

      Qualcuno ancora non ci crede? volete ancora un’altra dimostrazione che i tassi e di conseguenza il destino dei popoli vengono decisi a Francoforte?

      Che la fiducia conferita alla gestione del debito pubblico ed il peso da accordare all’andamento dell’economia di un paese, non dipende dai mercati, è certificato sempre all’interno dello stesso articolo:

      “come segnalato dal Sole24Ore del 14 marzo – si osserva che nella fase attuale, nonostante il calo dello spread, i tassi da noi sono più alti perfino di quelli della Grecia. I BTp a 10 anni rendono il 3,6% mentre i rispettivi titoli di Atene rendono il 3,2%. I titoli portoghesi il 2,97% e quelli spagnoli il 3,13 per cento”.

      I bond del belpaese rendono addirittura più di quelli della Grecia, da sempre definito il paese più fallito d’Europa, con rapporto debito/Pil costantemente superiore al nostro.

      A questo punto, credo si chiaro a tutti il perché, dietro ad ogni nostra emissione di Btp ci sia la fila, da parte di chi detiene il risparmio, per accaparrarsi soldi sicuri senza durare nessuna fatica.

      Sicuri, perché il mondo finanziario è ben consapevole che la Bce mai mollerà la sua creatura, l’Euro e di conseguenza il paese Italia.

      Chi paga per tutto questo?

      La risposta è alquanto semplice: il popolo italiano, soprattutto quello che lavora.

      Questi 100 miliardi che rappresentano un vero e proprio reddito da “divano”, nella migliore delle ipotesi, ancorché finanziati in deficit sono soldi sottratti a misure di spesa pubblica ben più necessarie. Mentre se finanziati all’interno dell’avanzo primario, si tratta di un vero e proprio trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita.

      Ma quello che ci deve far più riflettere ed allarmare, in base a quanto esposto, è come chi opera a Francoforte, abbia tutto il potere e la discrezione di decidere la quantità di sangue da esportare da ogni paese per consegnarlo alla rendita elitaria.

      E’ chiaro che seguendo il flusso del denaro, rappresentato appunto dagli interessi che l’Italia paga sul proprio debito – dal momento che questi finiscono in buona parte (3/4 circa) al mondo finanziario ed i rentiers di casa nostra – sarebbe da sciocchi non ricondurre gli interventi della Bce sulla curva del tasso di interesse dei Btp, ad una precisa volontà del nostro deep state, che di quel mondo ne cura direttamente gli interessi.

       

      Come potete vedere dal grafico a torta rappresentato qua sopra, neanche una piccola fetta, della spesa dello Stato per interessi, entra nelle tasche della maggioranza dei lavoratori italiani e delle loro famiglie, resi sempre più impossibilitati a possedere risparmio da tre decadi di politiche economiche a carattere del tutto predatorio. Di cui appunto quella per interessi ne è la rappresentazione più identificativa, proprio per la sua natura regressiva che porta ad allargare in modo esponenziale la scala sociale del paese, in quanto, di tutto punto, stiamo consegnando reddito a chi ha già risparmio in proporzione del risparmio che possiede.

      Che nessuno del main stream metta in luce questa frode alquanto palese, è certamente singolare, ma significativo allo stesso tempo di quanto siano imponenti le forze che spingono dietro ad essa per tenerla ben nascosta.

      Abbiamo una spesa frutto di una scelta di politica fiscale esattamente come ogni altro tipo di spesa che i governi mettono in atto ogni giorno. Una spesa che come abbiamo visto potrebbe essere facilmente portata a zero con l’intervento della Banca Centrale ma che invece si continua a tenerla in piedi raccontando alla gente una favola dietro l’altra.

       

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