Una sfilata di ragazze bellissime, di modelle disinvolte e sorridenti, che indossano soltanto una camicetta corta e scollata, un paio di mutandine di pizzo nere e calzettoni bianchi, passa su di un campo da calcio. Ognuna di loro tiene per mano uno dei giocatori delle due squadre olandesi, che a breve si affronteranno: l’RKC Wolwijr contro l’Emmen. Era il 15 febbraio del 2016 e lo sponsor aveva deciso di festeggiare con questa passerella erotica la data di San Martino.
Mi chiedo se questa foto di qualche anno fa possa rientrare nelle categoria del maschilismo; o in quella della reificazione della donna, ridotta a mero strumento di seduzione; oppure in quella della misoginia, dal momento che ridurre un essere umano soltanto a un corpo, privo di intelligenza e spiritualità, è un chiaro segno di odio.
Ma mi accorgo che i termini che sto utilizzando sono ormai ridicoli e fuori moda. Da qualche tempo, nell’informazione, nei dibattiti, sui libri, si tende ad utilizzare un solo vocabolo, per esprimere questo fenomeno: patriarcato.
Già nel suono il termine è sinistro, oscuro: evoca il cigolio dei cardini di una vecchia porta, che si apre pesantemente in una casa buia, austera, covo di violenti rapporti di forza.
Mi provo allora ad applicare questa parola, patriarcato, alla scena descritta, delle fotomodelle sorridenti e seminude, che sfilano, tenuta ognuna per mano dall’uomo a cui è stata assegnata.
Nel cono d’ombra
Ma in quel contesto non è possibile utilizzarla in alcun modo, quella parola: nessuna di quelle ragazze sembra sentirsi vittima di qualche violenza. Sfilano sorridenti e sicure del loro potere di seduzione.
Mi rendo conto che patriarcato è un termine troppo restrittivo per poter descrivere, in tutta la sua ampiezza, il fenomeno della svalutazione della donna su cui è ancora modellata la nostra società.
Patriarcato è un ombrello che getta un’ombra troppo breve, troppo ristretta. Copre soltanto la scena della violenza domestica: la gelosia patologica, l’ego ipertrofico, il narcisismo maligno di un uomo che non riesce a frenare le minacce, le pressioni psicologiche, la violenza fisica contro una povera donna, percepita come la malvagia origine di tutti i suoi mali, come l’incarnazione di un onnipresente tentativo di castrazione.
Appena fuori da questo cono d’ombra, c’è il sistema della rappresentanza politica, dove si trovano ben poche donne, e ancora più raramente ai vertici; ci sono poi i luoghi di lavoro, dove le molestie passano spesso inosservate o addirittura giustificate con affermazioni come “è lei che se l’è cercata” oppure “queste cose non succedono alle ragazze per bene!”; infine, c’è il mondo dello spettacolo e della promozione pubblicitaria, in cui l’impiego del corpo denudato e lucido di desiderio della donna è una strategia di vendita irrinunciabile, una strategia fatta però passare per simbolo dell’emancipazione femminile, espressione di una conquista culturale dell’occidente.
Troppe sentinelle
Perché questa sostituzione, allora? Perché la propaganda promuove l’utilizzo di un termine che può prendere di mira soltanto le situazioni familiari patologiche o estremamente retrograde? Tanto più che già da tantissimo tempo, da noi, la famiglia tradizionale è in crisi, ed anche la figura del padre è ormai ridotta ad un incerto fantasma.
Come mai il minimo accenno di dubbio, la più timida espressione di dissenso sull’opportunità dell’uso di questo termine, viene respinto senza appello e con ignominia, finendo per essere arginato nel recinto delle espressioni di una destra grottesca e buffonesca, necessario complemento della propaganda ufficiale?
É il chiaro segnale che si tratta di qualcosa di più di una trovata lessicale. É una scelta precisa e ragionata, la cui imposizione va sorvegliata e difesa attraverso l’intimidazione intellettuale.
Dietro qualsiasi manifestazione di forza vi sono obiettivi importanti da tutelare.
Distruggere ogni limite
La spiegazione, a mio parere, è questa.
Qualunque forma di totalitarismo non tollera accanto a sé nessuna autorità antagonista o concorrente, nessuna istituzione o figura che possa incrinare il monopolio del dominio.
La forma assunta dal potere attuale è di tipo larvatamente totalitario. Ma si tratta di una forma diversa di totalitarismo, peraltro già messa in luce dagli studi di Foucault. Si tratta di una forma di potere che, oltre ad essere globale, è anche biopolitica. Diffusa su quasi tutto il pianeta, penetra in qualsiasi aspetto della società, in qualunque nostro gesto quotidiano, nelle fibre più sottili del nostro corpo.
É un capitalismo del controllo, che , attraverso l’uso di un apparato tecnico mai visto prima; attraverso la capacità di orientare l’informazione e l’opinione pubblica; attraverso il possesso di un capitale finanziario inaudito, fonde insieme la sorveglianza, il potere politico e il profitto economico.
Per realizzare l’obiettivo del controllo assoluto, questo sistema deve disfarsi dei vecchi luoghi di esercizio del potere: deve disfarsi delle idee, delle tradizioni, delle morali ad essi legate. Assieme alla chiesa, allo Stato e alle strutture educative, la famiglia è uno di questi luoghi di trasmissione di abitudini, di comportamenti, di sistemi morali.
Ecco allora che sull’istituzione della famiglia piomba il buio del patriarcato.
Così come su tutto ciò che può essere legato alla figura del padre, ovvero all’esercizio di un’autorità, viene oggi gettata l’ombra della violenza, della malvagità, della perversione.
Per mettere in atto questa operazione, tutto il vecchio lessico della sinistra, tutte le forme di contestazione rivolte alle manifestazioni del potere capitalistico, come si diceva allora, ovvero la chiesa, lo stato, la famiglia, viene così riabilitato. E con essi, anche il termine patriarcato.
Patriarcato è un termine estremo, e viene anch’esso dal passato. Oggi, tuttavia, sembra essere stato ringiovanito grazie al belletto sensazionalistico della cronaca nera, senza implicare nessuna idea di trasformazione dell’ordine esistente.
Perché adesso non si tratta più di contestare la struttura economica del capitalismo. Questa struttura economica non deve mai essere messa in discussione. Si tratta invece di favorire un esercizio più pervasivo e condizionante del suo potere, togliendo di mezzo gli ostacoli ad un suo pieno e completo dispiegamento.
Si tratta di creare una massa di individui isolati e privi di qualsiasi struttura morale solida. Una massa inerme e senza orizzonti, disponibile a qualsivoglia forma di controllo e di condizionamento.
La studentessa di Teheran
E così il corpo nudo, esibito, seduttivo della donna diventa l’ambiguo vessillo occidentale della emancipazione femminile.
Non è un caso che una studentessa di Teheran, ripresa in un video mentre per protesta si spoglia di tutti gli abiti, e non solo del velo, che il regime impone alle donne di quel paese che vogliono frequentare l’università, sia divenuta il simbolo della lotta contro l’oscurantismo della civiltà islamica: contro il patriarcato, appunto.
Quella ragazza, che nel video si aggira in modo indolente tra altre ragazze e altri ragazzi, i quali non sembrano nemmeno accorgersi di lei, o che forse la ignorano ostentatamente, è stata trasformata, nel nostro immaginario, in una donna gigantesca e trionfante, che in mutande e reggiseno schiaccia il potere patriarcale dei minuscoli Ayatollah ai suoi piedi.
Ancora una volta, il corpo della donna diviene lo strumento privilegiato per propagandare idee il cui esito è la giustificazione di una guerra della NATO contro l’Iran.
In questo modo, l’ideale dell’emancipazione femminile, uno dei grandi temi della sinistra, viene abbassato e prostituito per fini ben diversi.
Senza ritorno, senza direzione
Alle antiche strutture dello Stato, della chiesa e della famiglia non si può più ritornare: la strada che abbiamo intrapreso per liberarci dalle loro menzogne è troppo lunga e dura già da qualche secolo; inoltre, ha avuto anche delle ottime guide.
Ma anche gli ideali che guidavano quelle contestazioni suonano oggi falsi, opportunistici.
Il tempo che ci è toccato in sorte è probabilmente quello in cui saremo costretti a subire, nei nostri stessi corpi, l’esito, ovvio e scontato, a cui questa strada ci conduce, senza nemmeno poter intravvedere una soluzione o un’alternativa.