Lo abbiamo già scritto, ma conviene ripeterlo (1). Tra i pregi di Mario Draghi, pochi o molti che siano a seconda delle nostre opinioni personali, ve ne è uno incontestabile: la chiarezza. Draghi non ha mai dovuto spiegare, rettificare, correggere e, men che meno, contraddire quanto aveva detto o scritto. E, senza alcuna ironia, non è cosa da poco.
In mezzo a politici – perché Draghi è un politico, non un economista – che si esprimono in modo confuso, enigmatico, incomprensibile, allusivo e, talvolta, incoerente si tratta di una eccezione che merita attenzione. Perché Draghi, questo è il punto, non solo si esprime in forma chiara e diretta, ma si comporta anche in questo modo. Ciò che fa Mario Draghi deve essere attentamente monitorato e analizzato, perché non è cronaca, è storia. E, soprattutto, perché ci dice come dobbiamo muoverci noi. Ma procediamo con ordine.
Il 23 settembre 2023 Ursula von der Leyen, durante il suo discorso sullo stato dell’Unione europea, annuncia di aver commissionato a Mario Draghi un “Rapporto sulla competitività dell’economia europea” di cui non vengono specificati né le finalità, né il profilo. Draghi accetta e si mette al lavoro.
Nel frattempo, il 29 novembre 2023, Draghi si manifesta a Milano e annuncia in modo sobrio e pacato che ci servono gli Stati Uniti d’Europa (2). Forse è una pura coincidenza. O forse no.
Il 10 gennaio 2024 Mario Draghi incontra in una riunione riservata a Milano nella sede della Banca d’Italia una delegazione della European Round Table for Industry (ERT), la associazione che raggruppa 60 multinazionali europee nel settore dell’industria e della tecnologia. Draghi, con il consueto understatement, dice ai giornalisti che è lì per ascoltare. Di fatto, durante l’incontro, che pare essere stato richiesto dalla stessa ERT, presenta una dettagliata “piattaforma Draghi” che, secondo Giuseppe Sarcina, “potrebbe essere la base su cui costruire la politica industriale della Ue per i prossimi cinque anni” (3).
Il giorno successivo, 11 gennaio 2024, Draghi si vede a Bruxelles con una delegazione di Business Europe, la confederazione di tutte le “Confindustrie” nazionali europee (4). All’incontro, durante il quale si parla di competitività e di futuro dell’economia europea, viene dato un risalto mediatico nettamente inferiore a quello dell’incontro del giorno prima a Milano. E questo fatto è significativo.
Il 12 gennaio 2024 Draghi partecipa come ospite d’onore a un “seminario segreto” (sic!) del Consiglio dei Commissari UE sulla competitività. Dopo aver lanciato i consueti segnali di allarme sullo stato dell’economia europea di fronte alla sfida di Cina e USA, traccia le linee della politica industriale che si dovrebbe adottare nella prossima legislatura (5).
Come interpretare tutto ciò? Quali insegnamenti trarre?
Anzitutto, un chiarimento necessario per capire quanto successo. La ERT è una associazione tra 60 imprese multinazionali europee, nata nel 1983, che fatturano 2.000 miliardi di euro all’anno, hanno complessivamente 5 milioni di dipendenti e investono ogni anno 60 miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Il suo scopo è promuovere la competitività e lo sviluppo in Europa e, per fare questo, vengono redatti rapporti che vengono discussi nelle istituzioni internazionali e globali e con i governi nazionali (6). Quindi, la ERT non è una associazione che rappresenta il mondo imprenditoriale, ma una organizzazione che svolge attività di lobbying per 60 multinazionali. BusinessEurope, invece, è una associazione di rappresentanza, nata nel 1958, che raggruppa a livello europeo tutte le confederazioni nazionali degli industriali che operano nei singoli Stati. La differenza non è da poco. La prima rappresenta solo sé stessa e gli interessi di 60 imprese multinazionali. La seconda rappresenta circa 20 milioni di imprese di tutte le dimensioni aderenti a 42 confederazioni nazionali con sede in 36 Paesi (7).
Vediamo ora di interpretare le mosse di Mario Draghi e di trarne le dovute conseguenze.
Anzitutto, gli incontri erano tutti “riservati”, se non addirittura “segreti”, eppure gli uffici stampa si sono premurati di far conoscere nei dettagli l’oggetto della discussione. In particolare, all’incontro con la ERT è stato dato grande risalto mediatico e della “piattaforma Draghi” si conoscono molti particolari. Ciò significa due cose. La prima è che Mario Draghi e il mainstream europeo danno molta più importanza al livello globale, rappresentato dalla ERT, che a quello nazionale in cui è storicamente radicata la base associativa di BusineesEurope. E tutto ciò avviene mentre sono presenti da qualche anno chiari segnali di deglobalizzazione a livello economico e politico (8).
Porsi il problema della competitività a livello globale è quanto meno anacronistico. Il vero problema è quello esattamente opposto, cioè come rimediare ai danni generati dalla globalizzazione. E non è certo aumentando la competitività, che della globalizzazione è il motore, che ciò si può fare. Forse sarebbe più opportuno ragionare sul reinserimento di misure protezionistiche e su un ridimensionamento dei mercati globali, primo fra tutti quello dei capitali. Ma di questo, ovviamente, non si può parlare con le imprese multinazionali.
Mario Draghi ha illustrato e discusso con la ERT e, solo successivamente, con la Commissione la sua “piattaforma” tracciando la tabella di marcia (roadmap) della politica industriale nella prossima legislatura. Peccato che le elezioni non si siano ancora tenute e che non si conosca la composizione del futuro Parlamento europeo. Ma, ancora più spiacevole è il fatto che il suo Rapporto verrà reso ufficiale solo dopo le elezioni europee che si terranno in giugno e che quindi non possa essere oggetto di discussione durante la campagna elettorale. Questi “sfasamenti temporali” non sono casuali ma hanno un ben preciso significato. I cittadini – meglio sarebbe dire i sudditi – europei votino pure ciò che vogliono, tanto il futuro dell’economia dell’Unione lo decidiamo noi, cioè il probabile (ma non ancora nominato) presidente del Consiglio europeo e le multinazionali, 60 individui decidono il futuro di 400 milioni di persone.
E lo decidono in segreto, in sedi riservate, ma facendolo sapere a tutti. Questa “ostentata riservatezza” è il nuovo modo di comunicare delle élite. Non sono più necessari logge massoniche, panfili o uffici al riparo di orecchie indiscrete. Si sceglie una sede ufficiale – la Banca d’Italia, quando Draghi avrebbe potuto recarsi presso la Presidenza dell’ERT a Bruxelles – per discutere in modo ufficioso e informale di questioni pubbliche. In modo tale che sia ben chiaro all’universo mondo chi decide e chi non decide, chi ha il potere e chi sono i senza potere, chi fa parte delle élite e chi fa parte del popolo.
L’“ostentata riservatezza” è una vera e propria provocazione, un oltraggio alla democrazia, un vilipendio ai principi liberali. Così come lo sono stati gli incontri che Bill Gates, uno degli uomini più ricchi del pianeta, ha avuto prima con il Presidente del Consiglio e poi con il Presidente della Repubblica italiani.
Se questo è il nuovo modus operandi delle élite politiche, un misto di sfrontata disinvoltura e deferente ossequio al potere economico, allora l’unica risposta sensata per chi da quei circoli esclusivi è strutturalmente ed orgogliosamente escluso è uno solo: l’antielitismo o, come viene chiamato nel linguaggio ordinario, il populismo.
Tornerò quanto prima sul tema, per ora mi basta sottolineare due cose. La prima è che il populismo non è sinonimo di destra e men che meno di fascismo. Può essere di destra, ma può anche essere di sinistra, pensiamo non solo alla prima stagione di Syriza con Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis, ma anche ad intellettuali come Ernesto Laclau, Chantal Mouffe, Wolgang Streeck o, in Italia, Carlo Formenti (9). La seconda è che il populismo non è riducibile al reddito di cittadinanza o al salario minimo in quanto riguarda una sfera più ampia della semplice economia. Tutelare i diritti degli svantaggiati, degli ultimi nella scala delle disuguaglianze economiche e sociali, è cosa giusta, ma è riduttivo in quanto oscura la natura principalmente politica del populismo che, nella sua essenza, è (ri)dare il potere di decidere a chi sarà poi sottoposto a quelle decisioni. Cioè, l’esatto contrario della “ostantata riservatezza” esibita da Mario Draghi.