Vorrei inserirmi con questo testo nel dibattito aperto su ComeDonChisciotte in merito al tema “votare sì votare no” e vorrei farlo partendo da un punto di vista, spero, originale, che analizza le diverse opzioni in rapporto al contesto in cui si vanno ad inserire, cercando il più possibile di non perdere di vista la più generale visione sistemica in cui tutto il discorso della rappresentanza deve essere collocato.
Ma prima, guardiamo cosa si dice sul tema nella letteratura. Nassim Taleb, famoso scrittore e studioso americano di origine libanese, padre del concetto di Antifragilità (consiglio vivamente di approfondirlo, per chi non l’avesse mai sentito nominare), confrontando letteratura e giornalismo dice
“Nel giornalismo, nomi e date sono reali, il resto è frutto della fantasia; nella letteratura nomi e date sono frutto della fantasia, il resto è reale”
Partendo da questa, che a me sembra un’affermazione sostanzialmente vera, vorrei affrontare il tema, iniziando proprio da un’opera letteraria, il romanzo di José Saramago, Saggio sulla Lucidità. Questo romanzo racconta di una città di un paese inventato nella quale i cittadini, chiamati alle urne, senza che esista il benchè minimo accordo preventivo tra di loro, votano per il 90% scheda bianca. In questo paese si innescano quindi una serie di dinamiche che possiamo pensare non siano molto dissimili da ciò che accadrebbe se ci trovassimo davvero nel mondo reale di fronte ad una eventualità del genere, cioè una votazione dove – come auspicano i fautori dell’astensione – una larga maggioranza degli elettori decidesse di non recarsi al voto oppure, come nel caso del romanzo, scegliesse di votare scheda bianca. Nel paese del romanzo, l’élite di governo, scopertasi netta minoranza nelle preferenze degli elettori, reagisce in maniera sempre più scomposta, con un’escalation che comincia smettendo di svolgere tutte le funzioni pubbliche e di governo, lasciando la città a sé stessa, in una sorta di ricatto, come a dire “tu non mi vuoi? Io non faccio più niente”. Per poi scoprire che la popolazione non si scompone, non accadono disordini o altro e la gente reagisce perfino pulendosi da sola le strade quando il potere costituito impone ai netturbini di smettere di raccogliere la spazzatura. Gli ex governanti cercano allora di creare disordini, fomentare manifestazioni con atti di violenza, provocano furti e commissionano reati, in modo da far capire alla popolazione che deve avere bisogno di loro, ma invano. Alla fine, nel racconto di Saramago, l’ultimo stadio di reazione sono gli atti di intimidazione personale sui singoli cittadini, con la ricerca finale di “capri espiatori” che culmina con l’uccisione di coloro che, a torto o ragione, vengono indicati come i responsabili ultimi di questo movimento di astensione di massa dal voto. Il romanzo, come molti lavori di Saramago, non ha una reale conclusione, per cui non si può realmente sapere “come andrà a finire”, ma l’autore lascia aperto ogni tipo di ipotesi su come una tale dinamica potrebbe effettivamente concludersi. Non bene, in ogni caso.
Possiamo comunque chiederci cosa accadrebbe se l’astensione dal voto fosse massiccia nei termini ipotizzati da Saramago. Non entrerò nel dettaglio nel discutere le principali affermazioni dei sostenitori dell’astensione, perché già efficacemente affrontate nell’articolo di Katia Migliore di qualche giorno fa e nell’ultimo articolo di Francesco Pisanu. Mi limito a sottolineare, concordando con loro, come l’astensione sia già una massiccia realtà nelle votazioni più recenti, e quindi non ci sia nemmeno tanto bisogno di fare ragionamenti ipotetici: l’atteggiamento fin qui tenuto di fronte alla crescente astensione degli elettori ai vari turni elettorali è stato sostanzialmente quello che viene delineato nei due articoli, cioè totale indifferenza. Il dato provvisorio dell’affluenza viene fornito man mano che trascorrono le ore, con il suo doveroso accompagnamento di facce di circostanza dei commentatori quando si posiziona su percentuali rilevanti di astensione; se ne parla con frasi fatte e dichiarazioni di intenti preconfezionate dei leader, fino a che, finalmente, un secondo dopo la chiusura dei seggi (e molto prima che arrivi il dato definitivo, che resta, quindi del tutto in ombra) appare il primo Exit Poll e via, sotto con le discussioni su vincitori e vinti in base alle percentuali dei voti validi. L’astensione sparisce completamente dai radar e i risultati vengono sempre e costantemente considerati validi, indipendentemente da quanta parte del corpo elettorale li labbia effettivamente espressi. Ite, missa est.
Mi permetto una digressione: una delle poche ipotesi in cui l’astensione potrebbe risultare di rilevante importanza si avrebbe in presenza di una legge elettorale in cui il numero degli elettori votanti determinasse in proporzione anche il numero dei seggi totali da assegnare; in un sistema del genere, i seggi da spartire sarebbero disponibili soltanto in proporzione a quanti elettori si sono recati alle urne. Avere, ad esempio, il 50% dei votanti alle urne significherebbe eleggere un’assemblea composta solo dal 50% dei rappresentanti, il che ridurrebbe in proporzione i provvedimenti che l’assemblea stessa potrebbe approvare (di fatto solo quelli a maggioranza semplice, solitamente riservata a temi di minore importanza). Il che, poi, avrebbe anche un suo senso: meno elettori, minore legittimazione, minori possibilità di fare sconquassi, ma soprattutto (dall’ottica dei partiti) meno posti di potere a disposizione e meno risorse, in ultima analisi, da spartirsi. In questo modo, forse, i partiti porrebbero maggiore attenzione al tema della effettiva rappresentatività e il numero dei votanti diventerebbe una variabile fondamentale nel quadro politico. Ma diciamocelo; che probabilità esistono che una siffatta forma istituzionale possa un giorno essere proposta e poi attuata? Sostanzialmente nessuna, credo. Fine della digressione.
Al momento, quindi, dobbiamo ragionare a sistema invariato, anzi in realtà il sistema politico ed elettorale è sempre in evoluzione, ma la direzione è contraria a quella auspicata: tutti i tentativi (a volte riusciti, a volte no) di riforma dei sistemi elettorali, oltre a considerare valida qualunque tipo di elezione indipendentemente dal raggiungimento o meno di soglie minime di rappresentatività, vanno sempre più riducendo anche lo spazio politico per la creazione di alternative. In pratica, se non votare è sostanzialmente un boomerang e creare alternative valide alle formazioni attuali è in tempi brevi pressochè impossibile, la domanda che resta sul tappeto, quindi, è: chi votare all’interno dell’offerta attualmente esistente?
Evitando generalizzazioni qualunquistiche, del genere “so’ tutti uguali, signora mia, se so’ magnati tutto”, partirei ragionando in un’ottica sistemica: punto fondamentale è che i sistemi complessi per quanto grandi e strutturati siano, vengono indirizzati (non governati o controllati, si badi bene, indirizzati) principalmente dall’interazione reciproca di un numero relativamente piccolo di persone in posizioni chiave (lo so, è un’affermazione forte, ma verificata in tutti i contesti: ci sto scrivendo un saggio da più o meno un decennio, prima o poi uscirà, ma per ora prendetela per buona così). Se questo è vero, ed è vero, bisogna evitare in prima battuta di guardare ai partiti nel loro complesso, ma vanno innanzitutto cercate le persone, cioè quelli che, con una definizione generica, io chiamerei PBV, ovvero “Politici di Buona Volontà”. Definirei questi politici come coloro i quali, contrariamente a quanto fanno la gran parte degli altri, antepongono al raggiungimento di fini personali il perseguire qualcosa che genericamente e grossolanamente possiamo paragonare a qualche forma di “bene comune”. Ne esistono? Certamente sì: sono pochi, non sono presenti (o candidati) in tutti i partiti, ma ce ne sono. Come distinguerli, quindi? Un buon criterio, generalmente applicabile, potrebbe essere quello di esaminare per quanto possibile la loro situazione personale e la loro storia: riducendo il ragionamento all’osso, un buon criterio è chiedersi cosa farebbe il soggetto in questione se non facesse politica. Come cambierebbe la sua situazione personale? Potrebbe rinunciare a tutto ciò che gli deriva (o gli deriverebbe) dalla posizione per cui concorre? La risposta potrebbe avere a che fare con i soldi, oppure con la notorietà, o il potere, o con qualunque altra cosa che possa risultare in qualche modo attraente per una persona che ricopra cariche pubbliche o istituzionali (ad esempio, le relazioni che si è in grado di stabilire da una posizione di potere, forse ancora più importanti dei soldi). Insomma, se la sua storia personale e i suoi atti concreti mostrano che quella persona non ha mai cercato quel tipo di riconoscimento per le proprie azioni, allora possiamo sperare che la sua spinta a fare politica sia in qualche modo dettata da un “semplice” desiderio di rendersi utile alla comunità. Un altro criterio, valido nei casi in cui la persona in esame sia un neofita, cioè uno che non ha mai fatto politica prima, potrebbe avere a che fare con le posizioni e le idee che si è impegnato a diffondere in passato: più erano incompatibili con le sue personali prospettive di “fare carriera” nel campo di provenienza e più queste potrebbero essere un segno utile delle sue buone intenzioni. Se ai tempi in cui il nostro potenziale PBV non era ancora in politica egli/ella ha sostenuto e diffuso idee, tesi, posizioni, proposte che avrebbero potuto mettere a repentaglio la propria carriera nell’ambiente in cui operava, allora possiamo presumere che sia in possesso di valori che è disposto a difendere, anche pagandone le conseguenze in prima persona, se necessario. Tornando a Taleb, egli in molti suoi lavori mette proprio la capacità di rispondere in prima persona delle proprie scelte al primo posto nel valutare l’affidabilità di una persona. Nel mondo odierno, data la progressiva diminuzione dei temi su cui “è permesso” discutere pubblicamente, non è difficile trovare degli esempi di possibili PBV “in pectore”: uno scienziato che in passato abbia portato dati che mettevano in dubbio l’emergenza climatica, o che abbia parlato dell’inefficacia dei vaccini contro il Covid, oppure un giornalista o intellettuale che, oggi, anno domini 2024 D.C. dichiarasse apertamente la propria contrarietà a sostenere la guerra in Ucraina, o non avallasse in nessun modo ciò che Israele sta facendo ai palestinesi, un economista che si sia opposto alle politiche di austerità dell’UE quando Draghi era al governo, e non oggi che lo stesso Draghi lo sbandiera ai quattro venti etc etc. Queste sono cose che deporrebbero a favore del fatto che costui entra in politica perché in qualche modo “ci crede”. Ci sono esempi del genere? Sì, ce ne sono. Volete i nomi? Non li avrete: questo è un ragionamento di metodo.
Una volta individuati, però, di solito c’è un problema con questi PBV: nei partiti in cui sono inseriti (o stanno per inserirsi) non comandano né comanderanno loro, almeno per un certo periodo (lungo, molto lungo, spesso eterno). Ciò dipende innanzitutto dal fatto che sono generalmente brave persone e questo in tutti i sistemi sociali odierni, spesso è un problema irrisolvibile, un fattore di assoluta incompatibilità con il “fare carriera”. Ma soprattutto, la loro apparente inefficacia dipende dalle caratteristiche dei sistemi in cui sono inseriti (in senso ampio, cioè i partiti e le istituzioni in generale) e dalle dinamiche che li animano. Per capirle, la prima domanda da porsi è: chi influenza la direzione in cui si muovono questi sistemi? In che modo un PBV può muovere il sistema in cui va ad inserirsi nella direzione voluta?
È facilmente intuibile come la nostra società odierna rappresenti un sistema estremamente complesso, che si muove su binari che risultano dall’azione combinata di un numero altissimo di forze, le quali, combinate fra di loro, determinano in qualche maniera la direzione generale del sistema stesso. È una configurazione frattalica, che si ripete a quasi tutti i livelli e in linea di massima su tutti i sottosistemi, e che si può ricondurre a grandi linee a quella di un campo vettoriale di forze. Che ruolo hanno nel loro campo vettoriale di forze i singoli PBV? Dipende. Dipende in primo luogo dalla posizione che essi occupano, che può essere, primariamente, dentro o fuori dai clan presenti del campo stesso. In questo, il politico di buona volontà non si differenzia granché dal singolo elettore e la sua scelta di stare dentro o fuori dai nuclei decisionali del suo sottosistema assomiglia in molti aspetti alla scelta del singolo elettore di andare o non andare a votare quando ci sono le elezioni.
Posizionarsi fuori dal campo di forze prevalente comporta di certo una maggiore libertà di espressione, ma richiede al PBV di saper creare in autonomia una forza sufficientemente grande da riuscire a influenzare comunque la direzione generale del sistema. Ciò appare piuttosto complicato, e le esperienze anche recenti di fallimenti di tutti quei partitini apparentemente promettenti nati “dal basso” stanno lì a dimostrarlo; ciò significa che – in assenza di azioni di forza che ribaltino il tavolo da gioco (detti per gli amici, “colpi di stato”) – anche il PBV che voglia influenzare il sistema restandone inizialmente fuori dovrà, prima o poi, provare ad entrarci. E qui viene fuori quello che è, probabilmente, uno degli aspetti più critici del restare fuori o, per un elettore, del non votare: il sistema è organizzato intorno agli insider. I quali hanno perfezionato sempre più i meccanismi che tendono a lasciare fuori gli outsider o, in generale, tendono ad escludere tutti coloro che non si allineano perfettamente a quanto desiderato dai più. Se negli anni ‘80 la nascente lega di Bossi riusciva a prendere il suo primo seggio in Senato con poco più di 130.000 voti, oggi una ipotetica nuova forza che voglia entrare in Parlamento deve superare delle soglie di sbarramento che richiedono un numero di consensi almeno dieci volte superiore. E stiamo parlando semplicemente di avere un seggio in Parlamento, non certo di andare al Governo o di modificare il corso degli eventi di larga portata. “It’s a long way to Tipperary”, cantava Snoopy impersonando la figura del vecchio reduce di guerra… (*)
L’altra possibilità, per il nostro ipotetico PBV è quella di entrare all’interno del sistema per cercare di modificarlo da una posizione di insider. Ciò significa cercare di entrare all’interno di una delle forze esistenti, il che comporta tutta una serie di condizioni da soddisfare, la prima delle quali è, data la natura degli attuali partiti politici, quella di farsi accettare da quelli entrati prima di lui. I quali, ovviamente, non saranno inizialmente contenti di dover condividere la torta con i nuovi venuti, a meno che questi ultimi non dimostrino di portare al clan, cioè al partito, un notevole valore aggiunto. Come dimostrare questo potenziale valore aggiunto? A meno di politici che abbiano già provato a presentarsi alle elezioni in passato, e quindi siano in grado in qualche maniera di dimostrare il loro seguito in termini di voti, la strada per farsi accettare dagli insider in tutti gli altri casi è portare idee nuove che possano calamitare nuovi voti al partito, ma soprattutto dimostrare la propria lealtà al clan. Il che significa a sua volta dover accettare quello che un politico all’epoca neofita di cui non faccio il nome definiva, a microfoni spenti, il proprio “cucchiaino quotidiano di m*”; ciò può tradursi, ad esempio, nell’essere mandato in televisione a perorare una causa tra le più lontane da quelle in cui si crede, oppure nel dover rilasciare dichiarazioni o inviare messaggi sui social per appoggiare esponenti del suo stesso partito che esprimono idee molto lontane dalle sue, oppure, una volta entrati, nel votare per lealtà di partito anche provvedimenti lontanissimi dalle proprie corde, o in generale, appoggiare in pubblico posizioni del proprio partito con cui non si è assolutamente d’accordo etc. Queste sono le “prove d’amore” che il clan richiede ai neofiti (o ai non allineati in generale) per verificare la loro fedeltà. In verità non sono convinto che queste prove facciano guadagnare voti al clan, cioè al partito, ma i valori fondanti del clan sono per lo più autocentrati e quindi in certi casi è più importante mostrare la propria fedeltà e lealtà al clan stesso piuttosto che allargare la propria base di voti, permettendo al PBV di restare fedele ai propri princìpi. Infatti accade spessissimo che il neofita entri in un partito con un certo seguito derivato dalle sue iniziative nella sua precedente posizione, dia le sue prove d’amore, e nel giro di poco tempo i suoi fan più duri e puri lo mollino al grido di “traditoreeeehhh, hai detto XY in TV”, oppure “hai votato anche tu questa schifezzaaah” etc etc; il partito perde voti, ma il clan può cooptare il neofita, sicuro della sua fedeltà. E, quando il neofita è stato finalmente cooptato nel nucleo decisionale del clan, allora e solo allora potrà provare a convincere altri PBV eventualmente già presenti a seguirlo sulla luminosa strada del bene comune. In che misura? Sempre nella misura in cui ciò verrà consentito dal nucleo decisionale già presente nel suo clan. Insomma, Adelante, Pedro, con judicio, direbbe Don Lisander.
In sostanza, un insider (ex outsider) di buona volontà ha la necessità PRIMA di farsi accettare da un numero il più alto possibile di uomini chiave presenti nel proprio sistema di riferimento se vuole POI in una qualche misura cercare di far passare come linea generale una o più delle proprie idee forza. Il che rende difficile distinguere, nel gioco quotidiano delle dichiarazioni e delle prese di posizione, il vero PBV fedele a sé stesso ed ai propri valori fondanti, ma costretto alle “prove d’amore” per ottenere l’accettazione del clan, dal falso PBV semplicemente opportunista, che magari sposa una tesi contraria al mainstream solo perché capisce che il vento tra poco potrebbe girare (e due: chi ha detto Draghi?). Tuttavia, per quanto complicato, è proprio questo l’esercizio che l’elettore consapevole deve cercare di fare nel momento in cui decide, consapevolmente, che il suo non voto non è altro che un avallo in bianco di quello che decideranno gli altri e che votare conta.
Conta se non altro perché alla fine, i PBV, che pure esistono, potranno andare avanti e provare a modificare la direzione generale del sistema solo se sempre più gente saprà riconoscerli e li voterà. As simple as that.
Cerchiamoli, dunque. E quando li troviamo, votiamoli, perdio.
(*) Un’obiezione sensata sarebbe quella di chiedersi il “caso 5 stelle”, ovvero un movimento nato dal nulla che alla prima tornata elettorale in cui si presenta prende il 25% dei voti, come si colloca, in questo quadro, ma richiederebbe una trattazione a parte, sia per esaminare la sua genesi (che io a Milano vidi da vicino, una quindicina di anni fa) sia per esaminarne gli sviluppi successivi.