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      • E SE LA DISNEY SBAGLIA TUTTO

      E SE LA DISNEY SBAGLIA TUTTO

      Il remake de La Sirenetta disneyana sembra sia al di sotto delle aspettative. Dopo i primi giorni ha guadagnato 165 milioni di dollari in tutto il mondo, dei quali 118 milioni in USA e Canada, mentre in Europa e soprattutto in Asia gli incassi restano molto al di sotto delle attese, con un tonfo clamoroso in Cina: meno di 3 milioni di dollari.

      Insomma, il risultato finale è un passivo che potrebbe costare caro alla Disney: con un budget di spesa di 250 milioni, dovrebbe incassarne almeno 750-800 per poter dare un senso a tutta l’operazione, cosa che però ormai appare improbabile.

      Il film era partito con parecchie recensioni contrastanti, tanto è vero che qualcuno ipotizza che ci sia stato una sorta di complotto ai danni del film che potrebbe aver influito sulle prestazioni deludenti del botteghino, ma i live action sono abitualmente soggetti da tempo a critiche piuttosto significative.

      In generale possiamo però dire che i remake dei classici Disney non stanno funzionando particolarmente bene, non riuscendo infatti a replicare il medesimo successo dei cartoni animati e ad appassionare il pubblico.

      In poche parole, i live action non reggono il paragone con gli originali. I motivi possono essere di vario tipo, ma alcuni sono determinanti.

      Gli adattamenti di sceneggiatura imposti dal politicamente corretto, per esempio, che pare finiscano per irritare più di qualche potenziale spettatore. Le canzoni, la sceneggiatura e la caratterizzazione dei personaggi vengono cambiati, spesso anche in direzione eccessivamente educativa-moralizzatrice. Alcuni personaggi vengono modificati nella loro natura, specie i “cattivi”, che da odiosi spregevoli sono diventati spesso e volentieri degli sfortunati soli e incompresi con un’infanzia difficile.

      Insomma, il cattivo per il gusto di esserlo e quindi come tale degno del disprezzo del piccolo spettatore pare che non esista più.

      Quale sia la finalità di questa operazione, cioè “diamo una seconda possibilità” al personaggio negativo, francamente sfugge. Il risultato finale è che i bambini vengono privati della dicotomia protagonista-antagonista, e vengono catapultati in un mondo di persone soggette a vari gradi di bontà. Un totale stravolgimento della storia colpisce anche gli adulti che non riconoscono le favole della loro infanzia.

      Vogliamo ricordare, a questo proposito, che attraverso l’identificazione con i protagonisti buoni e positivi, i bambini sperimentano fiducia e speranza, nella prospettiva rassicurante del lieto fine.

       

      “Le favole non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già che esistono. Le favole insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere.”

      Gilbert Keith Chesterton, scrittore e giornalista britannico.

       

      ‍La narrazione avviene fuori dal tempo, in un luogo incantato, e questo crea una distanza protettiva. Questa è la principale motivazione del successo del cartone animato classico, mentre i live action si muovono in ambienti dove soprattutto gli animali protagonisti sono davvero estremamente realistici ed è difficile che si realizzi una concreta empatia nei loro confronti. Non ci si affeziona a un granchio che sembra uscito dalla pescheria sotto casa.

      Come se non bastasse, il mondo fantastico che anima le fantasie dei bambini, caratterizzato dall’esplosione dei colori negli ambienti, nei live action viene tradito spesso da una fotografia scura, neutra, frutto di una visione “adulta” e priva di magia.

      Ci si dimentica, in sostanza, che questi film dovrebbero essere per i bambini.

      E qui veniamo al punto finale e fondamentale. La volontà ossessiva di inclusione nei film Disney di personaggi che rappresentino le “minoranze” ha evidentemente stufato. Non lo diciamo noi, lo sta confermando il dato del botteghino, soprattutto quello internazionale, come già citato.

      I personaggi cattivi restano indiscutibilmente bianchi il più delle volte, mentre i protagonisti sono diversi rispetto alla fiaba originaria, il tutto in nome della politicizzazione del racconto che, lo vogliamo ricordare nuovamente, è (o dovrebbe) essere rivolto a un pubblico infantile.

      La Disney si nuove in un terreno culturale statunitense che dà ampio spazio all’ideologia woke.

      Ma al di fuori di quei confini, il mondo si muove diversamente, e alcune problematiche interraziali non vengono sentite allo stesso modo. Insomma, la necessità di una sirenetta non esattamente danese non è una priorità sentita a livello globale, e in effetti pare che poco importi ai bambini, e semmai rappresenta il tradimento della fisionomia della protagonista del cartone animato del 1989 che ha irritato molti genitori che di quel film avevano il ricordo infantile.

      Tutto questo comporta la progressiva perdita di credibilità internazionale della Disney, che sembra essere mossa da una volontà al limite dell’autolesionismo nell’appiattimento ossessivo ai temi tipici propaganda woke targata USA, blackwashing compreso.

      Ci pare che sia ora di cambiare strada, prima che sia troppo tardi. A meno che non lo sia già: Biancaneve e i sette nani, in uscita nel 2024, è decisamente l’ultima chance per la compagnia fondata nel 1928 da Walt Disney per riacquistare la fiducia di milioni di spettatori in tutto il mondo che desiderano solo vedere al cinema fiabe e racconti per bambini.

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