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      • Kiev: morire per Washington?

      Kiev: morire per Washington?

      Le richieste russe di garanzie di sicurezza sono state sostanzialmente ignorate dalla NATO. Non solo non sono state accolte ma gli Stati Uniti hanno provocatoriamente dispiegato in Polonia altri 8.000 loro soldati con relativi sistemi d’arma, tanto per ribadire l’interesse statunitense al possibile conflitto. L’idea di fondo che permane a Bruxelles e a Washington è che i soldati statunitensi e dell’alleanza atlantica possano andare a stabilirsi dove vogliono, fino ai confini con la Russia, mentre i militari russi non possono muoversi nemmeno all’interno del loro paese. Esiste un tema di sicurezza per l’Ucraina ma non per la Russia. Questo perché la sicurezza russa non può essere messa in agenda, dal momento che tutta l’operazione politico-militare è esattamente finalizzata ad un attacco esteso e profondo alla stabilità politica e militare di Mosca.

      L’assenza di una reale disponibilità negoziale da parte degli Stati Uniti è l’elemento più evidente della crisi, quello sul quale davvero nessuno, quale che sia l’opinione, può negare. La conferma a questo arriva precisamente dalla nuova provocazione statunitense che, inviando 8.000 soldati in Polonia, dimostra con chiarezza come il terreno della soluzione diplomatica proposto da Mosca e sostenuto da paesi come Ungheria, Croazia, Francia, Germania e la stessa Italia, pur con accenti diversi, rappresenterebbe per Washington un esito negativo della campagna iniziata ormai da mesi.

      La Casa Bianca muove su precisi suoi interessi sia di politica interna che estera per far fronte alla situazione di crescente debolezza sul piano interno ed internazionale dell’attuale amministrazione statunitense. Dal primo punto di vista alzare la tensione militare è sempre stato il riflesso pavloviano del regime statunitense, che all’oggi vede come la crescita dell’opposizione di Trump si accompagna al precipitare di Biden nei sondaggi, anche per il fallimento dei suoi programmi economici e sociali, ostacolati soprattutto da talune quinte colonne trumpiste all’interno del Partito democratico. Ma, stante alla scarsa disponibilità dei cittadini, del Congresso e del Senato a seguire un presidente imbalsamato di una amministrazione priva di credibilità, pesano di più, nella circostanza, le ragioni di politica internazionale, dove forse democratici e repubblicani potrebbero trovare un terreno d’intesa.

      Il rifiuto ad intavolare un negoziato non si fonda sull’aspetto circostanziale quanto su quello strategico. Non ci sono Stranamore improvvisati come si potrebbe superficialmente essere portati a credere. Ci sono invece in ballo gli interessi economici e geostrategici degli Stati Uniti, che vedono nel gas russo che attraverso il North Stream 2 giungerebbe direttamente in Germania e poi nel resto d’Europa una minaccia seria.

      Se questo avvenisse per Kiev sarebbe un disastro: verrebbe meno il suo potere d’interdizione e con esso il ruolo di importanza nello scacchiere geoeconomico europeo. L’Europa non sarebbe più costretta a foraggiarla, crollerebbero gli importanti ingressi in valuta pregiata e la crisi economica che ne deriverebbe potrebbe portare ad una ripresa forte dei partiti filo-russi nel Paese. Per Washington, l’Ucraina rappresenta molto di più di quanto si racconti. Sul piano strategico costituisce una minaccia costante alla frontiera russa e la possibilità di procedere con l’allargamento verso Mosca del suo dispositivo militare, pur se con la casacca della NATO.

      Su quello politico la tensione permanente permette non solo il mantenimento ma anche l’incremento costante delle pressioni sulla Russia, tanto diplomatiche come politiche e, soprattutto, commerciali e finanziarie, così da indebolire la forza di Mosca. C’è poi un aspetto decisamente rilevante: il passaggio del gas russo alla Germania fornirebbe alla Russia un ruolo di fornitore strategico per l’intera Europa, renderebbe complicato il proseguimento delle sanzioni di Bruxelles contro Mosca e il gas russo verso l’Europa sarebbe il principale ostacolo alla vendita di quello statunitense, cosa che complicherebbe non poco il business della famiglia Biden in Ucraina. E sul gas, come già dimostrato in Siria, gli USA sono particolarmente affamati, anche per ridurre definitivamente la dipendenza energetica dal Golfo Persico e nell’impossibilità di spostarsi in America Latina per rubarsi il gas della Bolivia e soprattutto il petrolio del Venezuela, come fatto fino all’avvento di Chavez. Il quadro politico latinoamericano permetterebbe l’acquisto ma non il saccheggio delle fonti energetiche in possesso di Brasile, Messico ed Ecuador. Ultimo, ma non da ultimo, il Litio presente in grande quantità in Ucraina fa gola a Washington quasi quanto la fabbricazione di microprocessori a Taiwan.

      In questo quadro s’innesta il rifiuto degli USA di sedersi al tavolo del negoziato. In un negoziato si riconosce il valore strategico dell’avversario e se ne riconoscono le ragioni, ci si confronta su argomenti e non su propaganda e ci si alza sempre con molto meno di quanto ci si siede, dato che le reciproche concessioni sono l’esito finale di qualunque tavolo di trattative. Ebbene, ogni processo di questa natura non favorisce le volontà egemoniche di Washington mentre assegnerebbe per forza di cose alla UE la gestione del quadro politico che ne deriverebbe.

      La volontà di Washington di scatenare una guerra nel cuore dell’Europa è infatti ormai palese persino ai governi europei, che pur nel riaffermare il sostegno all’Alleanza Atlantica, muovono timidi passi verso una soluzione diplomatica della crisi. Parigi e Berlino giocano le loro carte, ritenendo ormai giunta l’ora anche di ridiscutere i rapporti di forza all’interno della struttura atlantica, ormai vocata completamente agli interessi strategici e finanziari degli Stati Uniti e dove l’Europa, che pure dispone di un potente arsenale atomico e di un peso finanziario determinante, non ha sostanzialmente voce in capitolo circa le sue strategie decisionali.

      Sì, in questa crisi c’è anche l’aspetto specifico del ruolo NATO. La disfatta afghana pesa come un macigno sulla sua credibilità militare, anche perché segue una sconfitta non meno dura subita in Siria. Agitare inesistenti pericoli di guerra costituisce quindi uno strumento per ribadire la necessità della NATO e la servitù politica dell’Europa. Ma è ormai un’alleanza della quale in effetti sfugge a quasi tutti la ragione e che comporta, per i Paesi e i popoli europei, solo oneri economici e finanziari crescenti e il perdurare della lamentevole sudditanza politica nei confronti del grande alleato oggi in crisi.

      Gli Stati Uniti hanno comunque già iniziato a pagare un prezzo a questa ennesima scorribanda da pirati internazionali. Il sistema di alleanze costruito nell’Est mostra i primi sintomi di sgretolamento, con Budapest che denuncia non solo la follia di questa crisi ma anche la volontà di sfilarsi dalla politica delle sanzioni contro la Russia, ricordando che l’Ungheria ha pagato di tasca sua molto di più di quanto non abbia fatto la Russia. In un incontro al Cremlino, infatti, il premier Orban ha detto che “la Russia ha trovato altri fornitori per i prodotti che acquistava da noi, mentre noi non abbiamo trovato altri acquirenti”.

      La sensazione è che il tempo non giochi un ruolo decisivo, pur se questo clima non potrà proseguire per molto. L’Europa, nel suo complesso, avrebbe tutto l’interesse a riaffermare le ragioni della pace e di una fruttuosa cooperazione con la Russia, da rilanciare anche con la ripresa degli Accordi di Minsk, affossati dall’estrema destra para-nazista ucraina, i cui interessi paiono convergere con quelli dell’amministrazione Biden.

      Si tratterebbe in buona sostanza di ribadire un deciso No all’accerchiamento immotivato e provocatorio della Russia, ponendo rimedio alla violazione degli impegni nei confronti della sua sicurezza. Impegni assunti dai massimi rappresentanti dell’Occidente in occasione della riunificazione tedesca e ribaditi anche negli anni successivi, quando la Russia scomparve come nazione per divenire una sorta di provincia dell’impero statunitense. Con l’avvento di Putin quei tempi sono finiti: la Russia è tornata forte e in grado di sostenere un ruolo internazionale di primo attore e non solo sul suo scacchiere regionale. Provocarla continuamente è un errore strategico e attaccarla sarebbe un suicidio militare. Si tratta invece di rilanciare con Mosca una cooperazione oggi necessaria da tanti punti di vista, non ultimo quello delle forniture energetiche.

      Ma l’Europa, come sempre, brilla per la sua assenza e il governo italiano dà un insostituibile contributo a questo nulla assoluto, mentre NATO e Stati Uniti continuano pericolosamente a giocare col fuoco.

      Fonte: www.altrenotizie.org

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